Padre eterno

Padre nostro che sei nei cieli/Restaci/E noi resteremo sulla terra.

Così iniziava il Pater noster di Jacques Prévert. Bestemmia, provocazione, o forse l’urlo disperato, l’invettiva rabbiosa? Ancora una volta, insomma, l’appello? Non è facile, perché senza padre non si può vivere, né forse smettere di cercarlo o di interrogare la sua presenza, persino la sua ombra.

Il percorso, del resto, è obbligato: ciò che distingue l’uomo dall’animale è che la referenza simbolica al padre si iscrive in maniera stabile nel linguaggio e nelle istituzioni, orientando la posizione del soggetto.

Se dio rimane solo, il più solo, anche il padre accentua la sua solitudine. Volendo rimettere i piedi per terra, aggiungeremmo, a questo punto, che viene così messa in maggiore evidenza la portata che l’assunzione della paternità comporta per chi diventa padre, per chi è padre oggi.

Le cose mutano e lo si coglie dalle trasformazioni che toccano il registro della domanda, in un senso doppio: come domanda di un padre e come domanda del padre.

La prima, checché se ne dica, non accenna a diminuire, al contrario aumenta, quanto più è misconosciuta. Anche il catastrofismo, in fondo, pare veicolare un appello, una domanda disperata, urgente di padre.

Esattamente come la ricerca di dio, essa imbocca strade così imperscrutabili come l’interlocutore che ha di mira.

Per un certo verso, a ben vedere, anche la psicopatologia quotidiana più comune ne porta ambiguamente impresso il marchio: la morte di dio diventa la versione attuale, moderna per ricostruire laicamente (o laidamente?) il religioso nella nostra epoca, riportando dio nel regno delle immagini. Avere dio, mangiare dio, fare uno con lui (il consumismo è la forma volgarizzata, perversa, laicizzata della comunione, del pasto totemico?), oppure essere dio, fino al punto di abolirlo, in un sorta di autofondazione (è delirio narcisistico della volontà di potenza dell’individualismo contemporaneo?). In un tempo che si pretende senza dio, non sono forse questi due i tratti che ne caratterizzano la psicopatologia comune, quella della nostra vita quotidiana?

La seconda, la domanda del padre, lo tocca da vicino più prosaicamente.

Si tratta in questo caso meno del padre con la “p” maiuscola e più invece dei piccoli padri e della percezione effettiva dell’acuirsi di una fragilità, di un senso di debolezza in altri termini ignorato o comunque ben celato.

Che cos’è un padre? Credo sia importante riprendere una distinzione: quella cioè tra ruolo e funzione. E’ una differenza che acquista il suo valore alla luce di un terzo elemento che convocherei sulla scena, come ad illuminare un quadro: la solitudine.

La solitudine possiamo intenderla in due modi: legata all’assenza di un altro o degli altri, ed è la via più semplice, oppure come la causa dell’inquietudine che prende ciascuno quando si trova di fronte a una scelta, a un passaggio che solo lui e nessun altro può compiere in sua vece
o congiuntamente.

La solitudine è allora solitudine di fronte a un atto, a una responsabilità, cui il soggetto è chiamato. Nel ruolo, in definitiva, esiste una protezione contro quest’ultima solitudine: il ruolo sostanzialmente è assegnato, dato dal contesto sociale.

Sono gli altri, come sanno bene i colleghi coinvolti nelle dispute corporative, che lo stabiliscono: le istituzioni, il discorso sociale…

La funzione è diversa, a tal punto che un soggetto può incarnare una funzione senza che per questo o a questo venga riconosciuto un ruolo corrispondente.

La funzione del padre è quella di permettere al figlio o alla figlia di incontrare il suo desiderio, passaggio impossibile da svolgere senza fare i conti con la legge edipica: niente legge, niente desiderio.

Il padre, quello in carne ed ossa, è di questa funzione l’agente, il possibile agente: San Giuseppe, nella sua umiltà, nel saper dire anche “sì”, ne può ben essere un emblema.

Se una funzione non corrisponde a un ruolo, ciò significa che c’è bisogno di una presa di posizione individuale per provare a misurare con essa, nonché nel contempo per darle una operativa consistenza.

La funzione insomma necessita di un atto o degli atti che la attivano: un’azione che nessuno garantisce, che ciascuno può compiere esclusivamente da solo, assumendosene il carico e la responsabilità, sostenuto in fondo da nient’altro che dal proprio desiderio adulto.

Da questo punto di vista, esiste qualcosa di profondamente, originariamente traumatico nella funzione paterna, il compiersi di una tragedia, se vogliamo, che occorre attraversare.

E’ un trauma infatti cui, a sua volta, sono sottomessi sia i padri che i figli o le figlie. In altri termini, è solo nella misura in cui i padri si assumono la loro parte di trauma che permettono alla funzione paterna di essere produttiva, di istituire una trasmissione, un passaggio, un effettivo movimento generazionale, vitale e non ripetitivo.

La trasmissione, insomma, non è pura inerzia, non avviene per il tramite di un puro automatismo, non va da sé, ma è un’operazione che implica a pieno titolo l’individuo: se il padre non ci prova, sarà difficile che i figli ne raccoglieranno il testimone, sia interiorizzandone il senso, sia, quando sarà il momento, riportandone ai loro figli il messaggio.

E’, per essere chiari, una decisione, per l’appunto: non a caso l’etimologia del verbo decidere rinvia a quello di uccidere.

Il discorso sociale evidenzia, oggi in misura maggiore del passato, la non delegabilità di quest’intervento: minore la capacità su cui il padre può contare, maggiore la solitudine che l’atto richiede, il “così fan tutti” non basta più.

In tal senso, verrebbe da dire, abbisogna che il padre, prima ancora dei figli, “ci” creda, creda al padre e alla sua funzione: non pensando, poiché questa sarebbe la via del delirio, di incarnarla, di essere lui “il padre” e non “un padre”, anche egli dunque, come il figlio, sottomesso alla legge che intende richiamare.

Ultima cosa: l’amore. Il padre che l’inconscio ci mostra nei sogni, nei fantasmi dei pazienti non coincide specularmente con il padre reale, quello che il soggetto incontra nella sua esistenza.

Ci sono padri “assenti” nell’esperienza quotidiana, da una parte, e incubi che i pazienti portano dall’altra, dove figure paterne o il padre stesso godono più o meno sadicamente del soggetto stesso o di loro doppi: costruzioni immaginarie talvolta estremamente povere ma caratterizzate da una specie di evidenza eccessiva, dove la violenza manifesta in esse sembra debordare il campo dello psichico fino a farne pseudocertezze, confondendo fantasmi e realtà.

Il padre, quello che il soggetto ignora e da cui è ignorato, si presenta come pura negatività: il soggetto vi si tiene al riparo, angosciato e disilluso, affidandosi a quello che le fantasie gli impongono.

Franco, un ragazzino delle medie, tira tardi la sera davanti alla televisione, guardando cassette e film dell’orrore. Lui fobico, spaventatissimo si cura così, non uscendo mai di casa, se non per necessità. Non ha amici, scarsissimi interessi. L’insegnante, buona madre, gli consiglia di non vedere più “quella robaccia”, misconoscendone il servizio “terapeutico”: è l’unico antidoto ai suoi fantasmi d’inaudita violenza.

E il padre dov’è? Il padre inquietante dell’inconscio è troppo lì: mostro, torturatore, pronto a ordire inaudite sevizie, gode nel veder “friggere le cervella” a un condannato alla sedia elettrica; quello reale, effettivo è, al contrario, troppo distante, lontano: verrebbe persino da dubitare della sua esistenza. I fantasmi lambiscono la realtà, il padre assente lascia al padre dell’inconscio il monopolio dello psichico: è il terrore. Non ci sono altre rappresentazioni paterne a farvi da controaltare.

Ora, per chiudere, ultima domanda: che cos’è l’amore del padre? Esiste? Se ne può dire qualcosa?

E’ un punto che bisognerebbe iniziare a sondare, individuandolo come una traccia, una memoria, un’eredità differenti da quelle egemonizzate dall’assolutismo materno e dalla sua logica.

Ecco, a furia di parlare della morte del padre, ci si dimentica, anche banalmente, del legame che da sempre annoda il rinvio al padre, alla morte e a quello che ciò significa, concretamente, nella vita di ogni individuo.

Sussiste una certa contiguità tra l’idea del padre e quella della morte: lo è ancor più nella nostra società, forse, dove il padre, in quanto persona, tanto più conta socialmente, quanto più è fuori casa, quanto più è “al lavoro”.

La madre, al contrario, è eterna e se muore, è come se lo decidesse lei stessa, così come capita di vedere in quel film di insospettabile volgarità e di dubbia coloritura politica che è “L’albero di Antonia” di M. Gorris.

Nessuno, se non per disperazione la vuole uccidere: la madre non corre quel rischio, non abita l’equivoco di un’interrogazione.

La madre da, si da, donandosi per i figli: il padre o meglio i padri hanno invece un’altra questione.

Il dono paterno, se così si può dire, acquista valore in un secondo tempo, sottraendosi all’oblativa materna, alla sua generosa e illimitata disponibilità. Gli oggetti del dono della madre sono strettamente legati alla sua presenza, sono in sintonia con essa.

Il dono paterno passa invece per un’altra strada. Ciò che ossessiona il padre è l’idea della sua eredità, il timore che si vanifichi, che vada dispersa, che non venga raccolta.

Il suo dono è chiamato a passare attraverso il filtro della morte, della scomparsa del donatore: solo allora si potrà dire se il suo dono sarà stato accettato, se la sua testimonianza non sarà stata vana.

All’oblativa materna, si contrappone qui il tema della trasmissione, di quel che è lasciato e di quel che viene (o non viene) raccolto, custodito.

Solo dopo, non subito, potremo comprendere se un dono c’è stato e ha dato i suoi frutti.

Continuare a pensare immaginariamente colpevoli dell’uccisione del padre, quello con la “P” maiuscola, del padre che non c’è (e che dunque è già morto) è evitare di guardare in faccia i padri, i piccoli padri, sposandone la solitudine, sorella, questa sì, della morte e la responsabilità che ne deriva rispetto ai propri atti. E’ insomma continuare a non smettere di augurarsi che un grande padre ci sia sempre o debba sempre arrivare per toglierci dai pasticci, permettendoci di rimanere sempre figli, sempre al riparo dalla castrazione.