Psichiatria e cultura

La psichiatria dentro la cultura.

Io non so se sia possibile una ortopedia staccata dalla cultura, se cioè anche la cura di una frattura risenta dell’ambiente geografico e culturale in cui viene posta in atto, di certo non è nemmeno pensabile una psichiatria come disciplina medica e dunque chiusa in un sapere tecnico e indipendente dalla cultura.
Parliamo di cultura come stile di vita, come parte del comportamento, ben lontano dagli accademismi che la legano ad un sapere astratto e lontano dal quotidiano. Un sapore accademico. La cultura è parte dell’esistenza in quanto ne attribuisce un senso e fornisce motivazioni all’agire.

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Il manicomio

Il manicomio aveva escluso la follia dall’esistenza e l’aveva nascosta come si trattasse di una “porcheria” di cui vergognarsi, una sorta di perversione dell’uomo oscena. L’aveva tolta dalla stessa meditazione, ma persino dal lavoro della medicina che non ha nemmeno tentato di studiarla e renderla una disciplina da ospedale. La follia non entrava nei luoghi delle cure “civili” e dunque veniva relegata nella “inciviltà” e i manicomi erano dei lager, non nel senso delle metafore, ma della cronaca.
La crisi del manicomio ha liberato non solo il matto, ma la psichiatria.
Ha rilasciato lo psichiatra, anch’egli un internato del manicomio. Il direttore viveva dentro le mura, i medici erano pagati meno di qualunque altro specialista. Si occupavano di pericolosità e non certo di un organo, come era tipico di ogni branca medica. Una sorta di poliziotto in camice bianco. E non si fa fatica a comprendere che un lavoro poco gratificante (i matti non guarivano) e male pagato, finiva per attirare i medici peggiori e gli psichiatri del manicomio erano una selezione negativa. Ciò ovviamente non ha impedito di annoverare qualche figura speciale, ma globalmente il livello era terribile. La crisi del manicomio ha cambiato non solo la fisiognomica del matto, ma anche quella dell’alienista, dello psichiatra.
L’infermiere del manicomio doveva essere grande, grosso e stupido. Di certo, sia i medici che gli infermieri erano degli incolti. Solo così è possibile spiegare il degrado dei manicomi. Una parte è da attribuire a medici privi non solo di gusto, ma di senso dell’umanità e del rispetto del malato. Si è insistito, giustamente, sulla genesi politica dei manicomi, ma poco si è studiato la responsabilità della incultura di medici che erano certamente dei piccoli uomini. Non è possibile che potessero accettare di stare e di operare in simili luoghi. In parte il discorso delle SS, la responsabilità degli uomini oltre che del reich, mutatis mutandis, va applicata alla psichiatria manicomiale. E’ questa una storia da scrivere, una raccolta di episodi a cui potrei io stesso contribuire.
So di uno psichiatra che abusava di pazienti matte, dopo averle sottoposte ad un esame di laboratorio per escludere la lue e le altre malattie veneree. Storie di oligofreniche come oggetti sessuali, dal momento che non potevano raccontare nulla, poiché indementite e comunque non credibili, probabilmente nemmeno in grado di valutare il rapporto subito. Oggetti ipersessuati: è nota la sfrenatezza nella masturbazione di questi pazienti.
La caduta del manicomio è un evento rivoluzionario, non soltanto nel significato che Franco Basaglia e i suoi sostenitori avevano intravisto, ma proprio per l’intero campo della psichiatria.
Il matto nella città La follia liberata dalla reclusione è entrata non solo nei quartieri e nelle case, ma anche nella cultura. La follia è da allora presente non solo nelle espressioni che si incontrano per strada, ma presente nella letteratura, nella stampa, nella vita in una parola. Prima si narrava attraverso storielle piene di ironia e di tristezza. Le barzellette sui matti erano concorrenti di quelle sui carabinieri.
Lo psichiatra da non medico ha assunto persino una posizione di privilegio e ormai molti dichiarano di avere il “proprio” psichiatra e spesso lo esibiscono, come si fa per l’estetista o l’odontoiatra. Un ramo della medicina che rende moltissimo, tra i meglio pagati.
Esistono giornalisti di grido o attori affermati che ardono dal desiderio di raccontare la propria depressione o la propria nevrosi. Alcuni vivono della propria piccola o grande follia. Essere definito normale suona a offesa, o quanto meno deprivato di originalità.
La follia è dentro il cinematografo e dentro il teatro e la letteratura.

Il nuovo volto della follia

Ed era da aspettarsi che a cambiare fossero le stesse categorie della follia. Tolti da un luogo folle, i matti hanno cambiato aspetto e comportamento.
Ho bene in mente un filone di studi scientifici che tendevano a chiarire l’origine della puzza caratteristica dei manicomi. Cominciata negli anni Cinquanta, quando la schizofrenia era la diagnosi più frequente e per questo chiamata la regina della follia, agli schizofrenici era data la responsabilità di quell’odore. Si è studiato il loro sudore e esistono lavori pubblicati su riviste di grande prestigio in cui si sosteneva che l’odore era da attribuire alla sudorazione e a certe sostanze che venivano escrete dalle ghiandole sudoripare per una anomalia genetica.
E’ ora chiarissimo, che mutando le condizioni igieniche, riducendo a piccoli dimensioni i luoghi di ospitalità, scompare l’odore la cui patologia è da ricercare soltanto nella degenerazione mentale degli psichiatri che hanno delirato persino sul sudore dei matti e non solo sulla sessualità folle.
Un cambiamento nella diagnostica conseguente a questo fenomeno culturale riguarda la omosessualità. Ho fatto in tempo a vedere persone ricoverate in manicomio con diagnosi di “Omosessualità” e ad assistere a disquisizioni sull’anomalia cerebrale che la generava.
Nel 1992 la omosessualità è stata cancellata persino dall’elenco delle malattie che ogni quattro anni viene redatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, acquisendo ora il significato di “caratteristica della personalità”.
La schizofrenia da regina della follia è in netta diminuzione e si può persino prevedere un cammino verso la scomparsa. Già non si vedono più le forme catatoniche. L’isteria, almeno quella alla Charcot, bisogna leggerla sui vecchi trattati da manicomio.
A ciò ha contribuito anche la farmacologia e, dunque, l’apporto della scienza e in particolare degli studi sul cervello.
Solo recentemente si è definita una scienza delle mente, prima era un tabù chiuso dentro il mistero, con la paura di toccare l’anima ed entrare in un terreno minato, quello delle religioni.
Non vi è dubbio che la scienza cambia con la cultura e proprio per questo la follia è rimasta esclusa da scienza e cultura. Era un ramo della pubblica sicurezza e un osservatorio sulla pericolosità e sulla violenza.
Ha dominato un’affermazione drammatica: quella secondo cui la follia era responsabile della violenza nel mondo o comunque ne dava il più alto contributo. Oggi sappiamo che non è vero e che la follia non è più violenta della “normalità”.
Certo in manicomio era più alta, come accade per tutte le situazioni in cui un uomo venga privato della libertà e segregato. Lo si osserva anche nei primati in cattività, se confrontati con il loro comportamento in ambiente naturale e liberi.

Normalità e follia

Il recupero della follia dentro la società e nella cultura, ha dunque mutato lo stesso significato della follia e ne ha disegnato un volto nuovo. Lineamenti che spesso si confondono con la normalità.
Il dogma di Cesare Lombroso secondo cui la follia è una degenerazione stabile e, di conseguenza, il matto non può essere mai e in nessuna azione un normale e, viceversa, il normale non può correre il rischio di diventare mai un matto, è crollato e appare persino ingenuo se non ridicolo.
Oggi sappiamo che la normalità e la follia non sono chiuse dentro ciascuno di noi, entro i confini della propria pelle, ma che si situano nella relazione tra io e altro e dunque dentro le esperienze e l’ambiente in cui si manifestano.
Insomma, la mia normalità non dipende solo dalle mie caratteristiche, ma anche dagli altri, da coloro che incontro e dalla modalità dell’incontro. La mia follia dipende da me e da te. Per questo cadono le immunità del dogma lombrosiano, ma anche quelle successive delle classi economiche: la distinzione tra follia povera e stranezza ricca.
Sappiamo che la follia dipende da tre fattori, che si embricano e coesistono: un fattore biologico (gene e cervello), uno psicologico, legato alle prime esperienze di vita (in particolare da zero a tre
anni) e un terzo fattore ambientale, legato al dove e con chi si vive.
Si tratta di una vera trasformazione a cui conseguono un nuovo matto e un nuovo psichiatra.

La cura

Sul piano della cura, il matto è ora dentro la società, nelle famiglie, ma anche in piccole strutture sia di trattamento acuto che di inserimento sociale, almeno nel senso della non esclusione.
Il manicomio è morto e il modello di terapia (poiché la malattia mentale esiste e va curata) che lo ha sostituito, è una rete di servizi e di piccole strutture disseminate nella città. Una rete con molti nodi e la possibilità di transitare da uno all’altro a seconda dei bisogni del momento.
E’ certo che al manicomio non si può sostituire il vuoto o solo la famiglia di origine. In una certa fase del passaggio questo è stato lo scenario dominante, come se il bisogno di distruggere una struttura non idonea, non avesse portato a valutare bene e a creare un’alternativa terapeutica. Un passaggio che è pesato sulle famiglie, prese da un senso di colpa tra l’abbandono e la impossibilità di farsi carico del malato dimesso.
La vittoria sul manicomio si potrà celebrare quando il nuovo sistema a rete sarà diffuso e attivo in tutto il paese. Per il momento esistono zone in cui è applicato e laddove ciò è accaduto funziona, il che serve a dimostrare che l’alternativa è possibile non soltanto teoricamente, ma nei fatti, dentro la cronaca del quotidiano.
La rete deve almeno avere: un letto per cura acuta ogni diecimila abitanti. Un ospedale di giorno cui accedere per continuare le cure o per aiuti in momenti di difficoltà. Deve prevedere, poi, delle comunità terapeutiche (o famiglie terapeutiche): luoghi residenziali, anche se transitori, in cui il malato possa vivere in un clima di impegno sociale e di esistenza con gli altri: almeno due posti ogni diecimila abitanti. Cooperative di lavoro in cui possano essere inseriti al lavoro i malati che vivono in famiglia o in comunità, adattando tempi e ritmi alle capacità e esigenze del singolo. Fa parte di questa rete anche la famiglia di origine, che però è inserita dentro questo sistema e dunque il malato non viene abbandonato, ma seguito in questo luogo.
A queste strutture fisiche vanno aggiunte molte attività dinamiche che vanno dalla pronta disponibilità e soccorso, a visite domiciliari, attività ambulatoriali.
Questa è la nuova psichiatria, non più e non solo l’abbattimento del manicomio.
E per mettere in azione completa questo sistema occorre la partecipazione di tutta la società e a questo scopo l’unico motore è la cultura e la cultura della follia.
E’ ormai archeologia l’idea che il folle abbia un unico referente, lo psichiatra. Per poter curare adeguatamente e entro la rete di servizi e strutture indicata, serve la partecipazione degli infermieri, dei familiari, dei vicini di casa, dei datori di lavoro e delle gestioni delle cooperative. Il matto come espressione di una società è affidato alla intera società per il suo aiuto e la sua cura.

Bibliografia
Vittorino Andreoli, Un secolo di follia. Rizzoli, 1992
Vittorino Andreoli, Istruzioni per essere normali. Rizzoli, 1999
Vittorino Andreoli, Tra un’ora, la follia. Rizzoli, 1999