Quale educazione scientifica?

Qualche contraddizione. I temi proposti dalla Redazione di Pedagogika sono di grande interesse, tuttavia oggi, malgrado le tante discussioni fatte in passato, essi mi sollevano un crescente malessere, che vorrei cercare di esplicitare prima di entrare in argomento. Mi pare infatti sempre più difficile intervenire su temi come questi in una situazione come quella attuale:

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qualsiasi cosa più o meno interessante si dica sembra un vero “libro dei sogni” in una situazione catastrofica (e non solo per la scuola). Mi é sembrata interessante la discussione sul n. VII-2 (marzo-aprile 2003) della rivista sulla pur sintetica lettera di Massimo Onofri: “La crisi dell’educazione fa da specchio alle crisi che investono altre istituzioni” ed implica una crisi del “chi” (Cozzi e Villa); i “mostri” sono fuori (Cavallazzi). Tutto vero, soprattutto quanto scrive Jole Garuti. Ma allora non si può eludere una contraddizione, concreta, al momento di affrontare questa discussione, se non si vuole essere ideologici. Come si può pensare, infatti, di sviluppare tanto la razionalità come la sensibilità quando si inciampa quotidianamente nell’insensibilità e nell’irrazionalità in ogni manifestazione sociale? Dovendole spesso rimuoverle se si vuole mantenere un minimo di equilibrio e di serenità personali! E quanti, purtroppo, smarriscono l’uno e l’altra, o si ritrovano comunque emarginati: ma la causa di ciò è la loro incapacità di adattarsi, o non è piuttosto l’omologazione che il sistema esige? Il 21° secolo della storia della civiltà occidentale (incominciata in realtà millenni prima) esibisce platealmente tutte le contraddizioni che sono state create e non risolte (e, se la tendenza non cambierà, non lo saranno mai): di fronte agli strepitosi ed ostentati successi della scienza e della tecnica, milioni di persone muoiono di fame e di sete, guerre insensate e sempre più micidiali distruggono incalcolabili risorse umane, culturali e naturali, imperversano miseria, malattie, disoccupazione (ma i progressi della tecnica non dovevano liberarci dal lavoro e garantire benessere a tutti?). E si badi bene, è uno stillicidio sistematico, a volte subliminale (o comunque rimosso dal livello cosciente), un metodico e capillare lavaggio del cervello. Basti un esempio: come si può pensare di sviluppare la razionalità e la sensibilità quando in una serata davanti alla TV (a parte tutti gli altri effetti perversi) una persona è bombardata da una caterva di messaggi pubblicitari che più insensati e a-scientifici non potrebbero essere (un’acqua dalle impossibili virtù, che dona bellezza e salute; un cellulare che dà la libertà), spesso ripetuti addirittura due o tre volte nel medesimo intervallo pubblicitario? Come se lo spettatore fosse un mongoloide (con tutto il rispetto) o un cane da condizionare alla Pavlov (e se lo fosse davvero?). Di fronte alle sensibilità dei movimenti no-global e delle associazioni dei consumatori, mi stupisco di non assistere ad occupazioni di emittenti contro la pubblicità! Ed è certo vero, i “mostri” non sono gli studenti: ma in un mondo mostruoso tutti diventiamo “mostri”! Come negli inquietanti disegni di Goya, “il sonno della ragione genera mostri”. Molti di questi giovani stanno già diventando “mostri”, e rapidamente. Nulla suona più ipocrita dello slogan “Preserviamo il Pianeta per i nostri figli”: abbiamo già (naturalmente parlo in generale) scientemente avvelenato il Pianeta; ed anche i nostri figli! La colpa è nostra. Ma forse a maggior ragione vale la pena di entrare nei temi posti dalla Redazione, alimentare il “libro dei sogni”, perché i valori devono essere mantenuti (come gli emarginati di Fahrenheit 451 mandavano a memoria i libri): questo vale per la scientifica distruzione della scuola, come per la Costituzione, e in generale per i fondamenti della giustizia e della convivenza civile (o, su un altro piano, dell’ONU). Pur di non alimentare l’illusione che basti questo, e di non mettersi così la coscienza a posto. Un ulteriore aspetto, semmai, mi genera un malessere crescente: insegno all’Università e, oggi più di ieri, tra i miei alunni non ci sono quegli “emarginati” a cui vorrei rivolgermi, ma in misura crescente proprio i “mostri” potenziali, o in fieri. Non che manchino studenti dotati di sensibilità e di un certo impegno (lo si è visto per l’attacco all’Iraq): ma quante volte li ho poi visti inevitabilmente fagocitati dall’omologazione che impone loro il sistema (in special modo l’Università)? Che cosa dovrebbe fare la scuola per trasmettere loro una mentalità critica e libera radicata e duratura? Ma questo sistema glielo imponiamo noi. Un punto concreto Incomincerò ad addentrarmi nei temi proposti partendo da un primo punto, che potrebbe anche non essere del tutto utopico: anche se non vorrei che venisse considerato “di parte”, poiché riguarda la Fisica (ma ciascuno parte dal proprio punto di osservazione; e la Fisica è comunque fondamentale per una preparazione scientifica). In questi decenni, e attualmente, ho tenuto il corso di Fisica alle matricole del corso di Laurea in Scienze Biologiche. A parte il drammatico deterioramento della preparazione di base, la maggioranza degli studenti che provengono da Licei Scientifici (i soli con tre anni di Fisica) riconosce consapevolmente una profonda impreparazione; spesso dichiara “La fisica si faceva poco”, oppure ” E’ come se non l’avessi fatta”. La causa non è solo, o sempre, un cattivo insegnante (ci sono anche questi): nella maggioranza dei casi, semplicemente, l’insegnante era laureato in Matematica. E’ un guaio ben noto. E non è colpa degli insegnanti. So bene che Fisica studiano gli studenti di Matematica; e li vedo alla SSIS. Non hanno, e non possono avere, una preparazione che consenta loro di insegnare la Fisica. Perché dunque non decidersi a creare, o ad aumentare le cattedre di Fisica? (Naturalmente so bene che c’è dietro un problema politico, forse “corporativo”) Questo non garantirebbe certo di per se la soluzione (ai laureati in Fisica non vengono forniti strumenti per insegnare, ma la Fisica dovrebbero conoscerla), ma è una condizione senza la quale nessuna proposta didattica per l’insegnamento
della Fisica potrà mai funzionare. Scienza, conoscenza e vita quotidiana La domanda fondamentale riguarda a mio parere l’origine del sostanziale fallimento della scuola nel fornire al futuro cittadino una almeno decente educazione scientifica di base. Sul punto di vista tradizionale – l’educazione scientifica per sviluppare il pensiero logico-razionale, quella umanistica per sviluppare l’espressività e l’emotività – mi pronuncerei come Candido di Voltaire: non scelgo né l’uno né l’altro. Ripropone tra l’altro la separazione delle due culture (che peraltro è un dato di fatto). Vi è un’altra contraddizione di fondo, che si va approfondendo. Viviamo in un mondo caratterizzato da un avanzamento tecnico esasperato, che permea tutti gli aspetti della vita quotidiana, asservito ad un meccanismo economico di spasmodica innovazione dei prodotti, di consumi non necessari, di “usa e getta”. Questa tecnologizzazione esasperata richiederebbe almeno un proporzionale aumento di preparazione scientifica di base, anche se questa non potrebbe consentire al cittadino medio una padronanza dell’ultimo grido della tecnologia. Di fatto la Scuola Secondaria non fornisce oggi nessuna formazione scientifica (forse sul piano umanistico le cose vanno un po’ meglio, ma vorrei sapere ad esempio quanto i corsi di storia e di filosofia aiutino realmente a comprendere l’attuale complessità economica, sociale, multietnica e multiculturale). E l’Università non se ne cura affatto nelle facoltà umanistiche, mentre in quelle scientifiche impartisce una preparazione formale, inadeguata rispetto ai gravissimi e urgenti problemi che l’Umanità deve affrontare e possibilmente risolvere (un vero divorzio, quindi, tra le due culture): é un disagio che molti studenti sentono, ma non sembra toccare i colleghi fisici quando si preoccupano del drammatico calo delle iscrizioni (“La Fisica è questa: prendere o lasciare”). Devo dire, comunque, che capisco bene le difficoltà che gli studenti incontrano nell’avvicinarsi allo studio di materie scientifiche, in primo luogo della Fisica (ripeto che le mie considerazioni discendono in larga misura dalla mia materia professionale). E’ proprio così strano che la trovino una materia ostica, astratta? Dipende da loro, o non dipende piuttosto dal modo in cui viene insegnata? E il modo in cui viene insegnata non discende a sua volta dal modo in cui viene concepita? Sono profondamente convinto che, in ultima istanza, è la concezione stessa della “Scienza”, delle sue finalità, del suo ruolo sociale, dei suoi meccanismi, che deve essere messa in questione. Mi spiego. La Scienza (le Scienze della natura, la Fisica in particolare) non é (o non è solo) indagine, conoscenza, studio razionale della natura, come vuole l’accezione comune (a dire il vero, creata proprio dagli scienziati); e non è affatto, a mio parere, una forma di conoscenza superiore, più profonda, per la sua (pretesa) oggettività. In primo luogo la Scienza, pur intesa nei termini tradizionali, è solo una tra tante forme di conoscenza: ciascuna con le sue potenzialità e i suoi limiti. Una volta sentii dire ad un collega fisico che la Storia è una forma di conoscenza inferiore, perché non é oggettiva! Anche la Poesia è una forma di conoscenza del mondo, di scambio col mondo (naturale e umano); e non è per nulla inferiore, anzi mi chiedo: se ci fosse più poesia e meno scienza, il mondo sarebbe peggiore o migliore? Domande retoriche: ma rimaniamo con i piedi per terra. La Scienza non è che un tipo di approccio alla realtà, di conoscenza, caratterizzato da una serie di protocolli e di regole (lo si chiama “metodo”, ma non é sempre stato lo stesso, é cambiato anche profondamente con la congiuntura storica). Ed è fondamentale riconoscere, oltre tutto, che è un prodotto della civiltà occidentale, della cultura e dell’organizzazione che l’hanno storicamente caratterizzata in una determinata fase del suo sviluppo. Altre civiltà non ebbero la necessità di compiere questo salto e di sviluppare una Scienza quantitativa e formale, anche se avevano prodotto fino ad allora risultati scientifici almeno pari ai paesi europei (si pensi alla Cina e agli arabi): prodotti di cui a volte ancora oggi si riscoprono potenzialità e attualità, quando ad esempio si proclama la necessità di una conoscenza olisitica, contrapposta al nostro riduzionismo scientifico. Questa svolta della Scienza moderna, quindi, non ha costituito affatto una scelta “naturale”, puramente conoscitiva, ma è stata il prodotto specifico di profonde trasformazioni economiche e sociali, un’espressione specifica della nuova classe borghese, necessaria per lo sviluppo della società industriale e capitalista. In questo contesto è divenuto necessario un approccio nuovo alla natura, sperimentale, quantitativo e formale (caratteristiche che, ripeto, si sono trasformate e precisate via via, con l’evoluzione della struttura sociale e delle sue finalità): non tanto per conoscere, ma soprattutto per controllare e trasformare la natura. Queste considerazioni richiederebbero uno sviluppo più approfondito, perché da questo dipendono molto problemi attuali, ambientali e sociali: ormai è evidente che non si può impunemente trasformare a piacere la natura. Ma non scostiamoci troppo dal tema in discussione. Depositaria di questo metodo e di queste conoscenze è divenuta una categoria sociale speciale, gli Scienziati appunto. Ora si pensi: è verissimo che la Fisica, ad esempio, ha a che fare con fenomeni della vita quotidiana (scaldare acqua, muovere macchine, ecc.), ma il punto fondamentale che si dovrebbe tenere ben presente nell’insegnamento è che lo fa con un atteggiamento radicalmente diverso da quello che (lo stesso scienziato) assume nella vita quotidiana. Chiunque trova naturale scaldare l’acqua per cuocere la pasta, e capisce perché si paga la bolletta del gas: ma non gli risulta altrettanto naturale e razionale definire la caloria, il joule, il calore specifico, il calore latente, la temperatura assoluta, e così via. Questi concetti formali sono necessari nella pratica dello scienziato, che però è ben lontana – come procedura, ma soprattutto come finalità – dalla pratica quotidiana. Per questo risulta difficile e astratto, a mio avviso, per lo studente capire perché si devono introdurre procedure quantitative e concetti rigorosi; e difficilmente gli appare un approccio razionale, poiché non ha la logica e le finalità dello scienziato (una domanda molto comune è: “a cosa serve?”). Ed ha ragione lui: non si può, sarebbe assurdo e sbagliato, pretendere che acquisti la mentalità dello scienziato! Quale cultura scientifica? La domanda fondamentale è a mio avviso: a che cosa deve servire una formazione scientifica di base ad un cittadino che farà l’operaio, o l’impiegato, o l’avvocato? E quale formazione gli può quindi essere utile? Se farà lo scienziato, giustamente e necessariamente apprenderà l’approccio scientifico: perché gli sarà necessario (ma proprio pochi giorni fa ho saputo di uno studente laureato in Farmacia col massimo dei voti che ha dichiarato: “Ho imparato tutto a memoria”!). Così come l’avvocato apprenderà gli articoli del Codice, che non serve conoscere specificamente al cittadino comune: il quale invece deve avere un’educazione civica, che è altra cosa. Il discorso è analogo per la conoscenza scientifica. A mio parere per il cittadino comune questa deve consistere sostanzialmente e schematicamente in tre cose: 1) acquisire, certo, un atteggiamento verso i fenomeni naturali basato su interpretazioni razionali, il più possibile rigorose: spesso però l’impostazione formale non aiuta affatto, ma risulta astratta, allontana i fenomeni dall’intuizione. (Un solo accenno ad un grosso problema: sono contrario all’idea che si debbano estirpare concetti comuni “sbagliati” per sostituirli con quelli “giusti”. Matilde Vicentini ha lavorato molto su questo. Molte conoscenze di senso comune devono invece essere valorizzate, rettificandole ed integrandole a poco a poco. Anche se siamo nel 210 secolo, molti concetti di senso comune coincidono con concezioni adottate da grandi scienziati nel faticoso approccio verso interpretazioni più aderenti ai fatti: si pensi al fluido calorico di Sadi Carnot, o ai fluidi elettrici); 2) acquisire però anche una consapevolezza critica, della relatività della conoscenza e dei modelli su cui si basa: che cioè non vi sono mai conoscenze assolute, che anche le interpretazioni scientifiche più rigorose possono avere dei limiti, possono venire superate da altri studi ed altre interpretazioni, possono essere messe in crisi dalla scoperta di nuovi fenomeni. L’impostazione critica della conoscenza mi sembra il requisito fondamentale in un mondo che cambia così rapidamente. (Critica alle lauree brevi: si è penalizzata la formazione di base puntando ad una preparazione tecnica; ma le tecniche di oggi saranno rapidamente obsolete, e solo una solida preparazione di base potrebbe fornire la necessaria flessibilità); 3) acquisire una sensibilità verso gli aspetti sociali della Scienza, gli interessi e i meccanismi
che ne alimentano lo sviluppo e le scelte. Ad esempio, il tema Scienza e guerra, che è di grandissima attualità e può alimentare negli studenti interessi per sviluppare temi di Fisica, di Chimica o di biologia (ma anche interdisciplinari) anche moderni ed avanzati; e sullo sviluppo spasmodico oggi dei computers, degli strumenti informatici, dei mezzi di comunicazione, a cui i giovani si mostrano tanto interessati, quanto lavoro di indagine scientifica e di apprendimento critico si potrebbe sviluppare? Ci sono delle contraddizioni su cui si può lavorare: la gente non può fare a meno del cellulare, però non vorrebbe le antenne e le onde elettromagnetiche. In una parola, fornire strumenti metodologici e flessibili per capire la complessa realtà in cui viviamo, tecnologica, economica, sociale; per orientarsi e salvaguardare la propria individualità (e quindi anche la sensibilità) nella complessità tecnologica incalzante ed invadente, per non divenirne schiavi o subalterni, per non esserne fagocitati. La Scienza non è solo conoscenza, ma un complesso intreccio di relazioni, senza le quali non può essere realmente compresa: né essa né la natura che ci circonda. E’ stato detto che la tecnica si presenta come una “seconda natura”, che ci avvolge e ci permea, e ci occulta e ci allontana la natura vera (anche la nostra). Nuovi approcci Nel caso del corso di Fisica, ad esempio, sono convinto che si debba abbandonare, superare la nostra concezione sistematica e razionale (per noi che già la conosciamo): non è necessario sviluppare tutta la meccanica, incominciare necessariamente con la noiosissima cinematica, per potere affrontare altri fenomeni fisici, che possono stimolare maggiormente l’interesse degli studenti. Dubito che lo studente vi riconosca una logica. E ha ragione. E’ ormai chiarito da un secolo che la termodinamica non dipende in alcun modo dalla meccanica, ma costituisce un approccio completamente complementare ad essa; altrettanto si può dire dell’elettricità. Nulla vieta di invertire l’ordine, ad esempio impostando il corso di Fisica sui concetti energetici, che risultano frammentati nell’impostazione tradizionale, o insistendo su fenomeni più attuali. Non vorrei essere frainteso. Non dico affatto che allo studente della Scuola Secondaria non vadano insegnate la legge di Newton o la legge di Coulomb, e non gli si debbano proporre prove sperimentali e semplici problemi da risolvere: magari ne facesse più di quanti ne fa ora! Ma, soprattutto, magari li capisse! Sono convinto che lo studente possa accettare, capire ed utilizzare (consapevolmente e non meccanicamente) un certo livello, graduale, di formalizzazione e di uso della matematica, così come un certo rigore nell’eseguire una misura, se, dopo avere capito i concetti, poco a poco si rende conto che sono necessari per andare oltre un certo livello di trattazione dei fenomeni, per trattare casi più complessi; se si riesce quindi a prevenire la domanda “a che serve?”. Umanizzare la scienza; lavoro interdisciplinare Queste considerazioni mi consentono di ritornare anche alla questione della razionalità e dell’emotività ed insieme alla separazione delle due culture. Se si fa scendere la Scienza dall’empireo della conoscenza astratta e formale, dalla “torre d’avorio”, al terreno della vita concreta, essa diventa un prodotto dell’attività umana, svolta da uomini in carne ed ossa, partecipi (certo, dalla loro posizione professionale) dei problemi e delle finalità del loro tempo (perché, sennò, ci sarebbe stata la “fuga dei cervelli” dalla Germania nazista?). Un lavoro interdisciplinare, trasversale, possibilmente integrato costituirebbe una strada fondamentale per affrontare seriamente questi aspetti: collegare concretamente le concezioni scientifiche e la loro evoluzione (il ruolo sociale della scienza) alle trasformazioni storiche, culturali e sociali, ed alle finalità che queste hanno espresso. Tra queste caratteristiche della Scienza in carne ed ossa c’è anche la questione di genere, che si può discutere da vari punti di vista. In primo luogo si possono portare i giovani a chiedersi come mai la quasi totalità degli scienziati siano di sesso maschile (e qui sarebbe bene che potessero sviluppare liberamente le proprie considerazioni, venendo beninteso condotti a delle verifiche, storiche o sociologiche, anche con collaborazioni interdisciplinari: questo è un approccio scientifico e razionale): ci sono delle belle figure di “scienziate”, la cui faticosa o non compiuta accettazione dall’ambiente scientifico maschile é molto interessante (e, perché no, possono anche fornire spunti e motivazioni per sviluppare argomenti scientifici: ragionando e partecipando emotivamente). Certo, la situazione sta cambiando, anche se lentamente e non senza contraddizioni: e anche su questo possono avere molto da lavorare. In secondo luogo, una ricerca francese, riportata qualche anno fa da Le Monde Diplomatique, sembrava indicare che un’impostazione formale dell’insegnamento delle materie scientifiche penalizzi le studentesse: questo confermerebbe che razionalità ed emotività non possono andare disgiunte.