Quanto devono sapere gli studenti sui media che usano quando studiano?
Poche ore dopo aver ricevuto l’invito via e-mail a contribuire al numero della rivista sul tema dell’uso dei media nell’educazione, nella casella di posta elettronica di Landow, come di consueto, arrivava anche la versione elettronica del quotidiano New York Times, con l’articolo di Laura M. Holson “La generazione che dice tutto impara a tenere le cose Offline”.
Il suo breve saggio inizia così:
Min Liu ha 21 anni, è una studentessa liberale di Belle Arti nella New School di New York. A 17 anni creò il suo account su Facebook dove, da allora, ha minuziosamente descritto la sua vita universitaria, dalle bevute sui tetti alle serate danzanti in discoteca. Ultimamente però ha cambiato idea. Preoccupata per le sue prospettive lavorative, ha chiesto ad un amico di toglierle quelle foto in cui beveva e indossava abitini stretti. Quando la donna che supervisionava il suo tirocinio le ha chiesto di darle la sua amicizia su Facebook, la signorina Liu ha accettato, ma dando un accesso limitato alla sua pagina Facebook. “Voglio che le persone mi prendano sul serio” ha detto. Comunemente si pensa che i ragazzi sotto i 30 si sentano tutti a proprio agio nel rivelare ogni dettaglio sulla loro vita online, a partire da quale pizza preferiscono fino a quali siano i partner con cui hanno rapporti più frequentemente. Ma molte persone di quella generazione che racconta tutto sta rivalutando il significato di vivere così, senza riservatezza alcuna.
Da un certo punto di vista si potrebbe dire che questo cambiamento nei giovani – gli adolescenti invece non sembrano avere ancora compiuto le stesse riflessioni, in genere, sia che scrivano o …… – li ha resi più prudenti, più pratici, forse più simili alla generazione più vecchia. Tutto ciò è sicuramente vero ma allo stesso tempo, ai fini della nostra analisi, può essere più utile pensare al fenomeno analizzando le qualità fondamentali dei nuovi media in rete. Quando la scrittura dalla dipendenza secolare dal segno fisico su di una superficie si sposta a codice su codice, succede qualcosa di molto importante: innanzitutto il testo digitale può essere duplicato con esattezza e ciò implica la scomparsa delle distorsioni create sia dalla copia dei manoscritti sia dalle trasposizioni telefoniche. Fantastico se si vuole duplicare un manuale tecnico, una legge o un’opera letteraria; un po’ meno se invece si vuole negare di avere detto quella frase. Inoltre, il testo digitale e le immagini su Internet si possono duplicare virtualmente a costo zero. Ancora una volta, fantastico se si vuole condividere ogni tipo di informazione o disinformazione; un po’ meno fantastico se invece non si desiderava che un’immagine o un testo circolassero dappertutto oppure, soprattutto, non si voleva che rimanessero online. I social network basati sul web 2.0 come Facebook, MySpace, YouTube e Flickr sono stati molto usati per lavoro e per svago, ma anche questi usi hanno in qualche modo una ricaduta educativa, anche se, spesso, non quella di cui si occupano istituzioni e insegnanti. E’ chiaro che ci sono dei costi nel fraintendimento della natura dei media a cui uno affida le proprie parole e immagini. Quali sono, dunque, le implicazioni legate all’uso dei media digitali e di Internet che sia gli insegnanti che gli studenti devono conoscere? In altre parole, in che misura noi adulti dobbiamo assicurarci che i nostri studenti capiscano i media che utilizzano nel loro percorso di apprendimento?
Nonostante diversi dibattiti sull’alfabetizzazione (vedasi Nadin), nella stragrande maggioranza dei casi i nuovi media digitali vengono ancora usati applicando ad essi gli stessi criteri dei vecchi media come la stampa. Nel mondo accademico e della scuola si possono trovare diversi esempi di ciò che io ho già in altre sedi definito la sindrome da “carrozza senza cavalli” (e insieme a me sono sicuro anche molti altri l’abbiano fatto). Per esempio, i corsi online, quel sistema per il quale le università spendono una fetta sempre più grande del loro budget dedicato all’istruzione, vanno esattamente nel senso sbagliato nel loro approccio alle nuove tecnologie nell’apprendimento. Questi corsi online basati su siti web rimangono sempre disperatamente, e inconsciamente, dipendenti dalla splendida cultura del libro. Non solo. Quasi sempre essi hanno le seguenti caratteristiche e approcci: il loro accesso è strettamente limitato ai soli corsisti e quindi necessariamente rimane chiuso a chiunque non appartenga a quell’istituzione. Tale isolamento ovviamente offre dei vantaggi ai docenti e all’istituzione, anche se non sono quelli che la maggior parte di loro ammette: il fatto di essere così isolati, così segreti, lascia ampi margini per la violazione dei diritti d’autore per opere intellettuali e allo stesso tempo impedisce a chi sta fuori dalle classi di osservare e verificare quanto e come gli insegnanti e gli studenti stiano effettivamente lavorando. (Ah, benedetta sia la privacy!). Questi vantaggi tuttavia hanno un costo: basati come sono su un singolo corso non saranno accessibili a nessun altro docente, nemmeno se lo volesse, magari mentre tiene un corso in una materia simile, mentre i materiali digitali basati su categorie disciplinari o di dipartimento, creano automaticamente una sinergia e senza sforzi ulteriori facilitano sia la creazione di documentazione del dipartimento e dei corsisti oltre a promuovere la collaborazione e l’economia di scala.
A fronte di un uso così improprio delle tecnologie nell’apprendimento, non dovremmo sorprenderci poi che i nostri studenti spesso non abbiano la consapevolezza delle implicazioni educative dei media basati su Internet così come non ne hanno della scrittura. Come la maggior parte di coloro che hanno tenuto corsi online, ho incontrato molti esempi di ciò che i miei studenti definerebbero stupidità, a partire da tutti quei liceali o universitari che mi mandavano e-mail impanicate, in quanto autore del sito Victorian Web, chiedendomi di “mandare tutto ciò che ha su Jane Eyre perchè ho una tesina da preparare”. (Successivamente questa nota nel sito ha prevenuto molte richieste di quel genere: “No, non posso: il sito Victorian Web, così come tutta la rete, non è un servizio a cui richiedere invii di materiale. E’ piuttosto simile ad una biblioteca in cui si deve trovare le informazioni e poi fare collegamenti tra loro da soli.”)
Posto che ovviamente gli studenti di ogni grado debbano riconoscere le qualità fondamentali dei materiali digitali per usarli al meglio, ci si potrebbe chiedere, “Quali sarebbero queste qualità? Cosa dovremmo dire ai nostri studenti?” Vorrei rispondere con alcuni esempi ovvi, il primo da un corso sull’ipertesto e sulla teoria critica. Si possono avere due approcci molto diversi nell’insegnamento di questa materia. Da una parte, un docente potrebbe, per esempio, mostrare agli studenti diversi esempi di ambienti ipertestuali – non solo il World Wide Web ma anche altri sistemi, come quello molto diverso dello Storyspace della Eastgate Systems – e lasciare a loro la scoperta delle possibilità del mezzo.
Dall’altra, il docente potrebbe avere un approccio molto diverso, mostrare i vari modi in cui l’ipertesto, considerato sia come un mezzo di scrittura e di lettura, si differenzia dal testo stampato. Questo tipo di approccio sottolinea la multilinearità, la riusabilità sia dei messaggi testuali che iconici e così via. Dovendo affrontare questa scelta nel contesto specifico di un mezzo digitale come l’ipertesto e la teoria, decisi che non avevo molta scelta se non spiegare loro il mezzo prima che cominciassero a usarlo per scrivere e leggere. Dopo diversi anni, potendo paragonare i lavori dei miei studenti con quelli creati nei seminari di ipernarrativa, durante i quali gli studenti iniziavano da soli ad esplorare il mezzo che avevano davanti solo dopo una breve introduzione teorica, scoprii che erano riusciti a creare lavori più ricchi e più sperimentali.
Il lettore potrebbe ora obiettare che questa conclusione non sorprende molto e chiedere anche quale attinenza abbia questo esempio con l’uso comune dei nuovi media nell’istruzione in cui l’oggetto non è l’esplorazione di nuove applicazioni in sé, quanto il loro utilizzo per apprendere altre discipline accademiche. Serve a questo punto un altro
esempio che spieghi il valore di rendere consapevoli gli studenti delle potenzialità dei media che stanno usando. Osservando che gli studenti universitari che contribuivano inviando materiali al sito Victorian Web li scrivevano sempre nello stesso modo in cui li avrebbero scritti quando usavano i saggi stampati, i commenti o ponevano le domande come fosse un’esercitazione in classe, iniziai a far notare ai ragazzi che in un ambiente ipertestuale – che contiene link dunque- uno non solo scrive sempre in presenza di altri autori e altri testi, ma collabora anche con altre persone, sia che se ne renda conto o meno. In realtà, gli scrittori più avanzati e più dotti lo hanno sempre fatto quando scrivevano per stampare, anche se raramente sottolineavano che i loro scritti si inserivano in un sistema culturale vivo e in continuo cambiamento. Perchè non approfittare della situazione, suggerì Landow? Nell’evidenziare la scrittura in presenza di altri, suggerì agli studenti di creare link a testi, sia di altri studenti o della facoltà, che volevano commentare o sui quali volevano dissentire. I migliori studenti presto iniziarono a leggere di più e a suggerire link mettendo gli indirizzi di ciò che avevano letto in rete. Come il lettore avrà sicuramente già capito, questi ultimi due esempi implicano il fatto che si rendano consapevoli i propri studenti delle differenti caratteristiche fondamentali tra ciò che potremmo definire vecchio contro i nuovi media – vale a dire, l’hard contro il soft, il fisico contro il digitale e, perciò, il virtuale. Tale opposizione poteva sembrare più cruciale e ovviamente anche più necessaria, dieci o vent’anni fa, quando i computer non avevano ancora pervaso lo studio, il lavoro e il tempo libero dei nostri studenti in maniera così completa come avviene oggi nell’era dei portatili, degli smartphone, Kindle e iPad. Rendere gli studenti consapevoli delle qualità dei media digitali che usano rimane una questione fondamentale nella pedagogia e nell’insegnamento, ma le cose sono diventate più complicate e lo sono diventate perchè gli studenti, come tutti noi, incontrano diverse tipologie di media digitali, ognuno dei quali ha i suoi punti forti e le sue debolezze. Per fare un esempio pratico, gli studenti che fanno affidamento su Wikipedia, YouTube e Google di sicuro hanno sviluppato alcune competenze intellettuali e informatiche, ma potrebbero non sapere come usare al meglio un ipertesto per apprendere.
Dare uno sguardo alla storia dell’informatica potrebbe chiarire ciò che intendo dire. Quando partecipai alla prima Conferenza internazionale sull’ipertesto dell’ACM (Association for Computing Machinery n.d.r.), vi erano due fazioni che sostenevano due modi radicalmente diversi di usare le informazioni in formato digitale. La prima ovviamente era la comunità dell’ipertesto la quale, pur dividendosi essa stessa secondo approcci diversi, quasi all’unanimità conveniva sul fatto che erano le connessioni l’elemento fondamentale capace di aver creato delle applicazioni nuove e potenti (erano coloro che lavoravano con il cosidetto ipertesto spaziale).
Concepirono degli organi di informazione in termini di network navigabili attraversati da catene multilineari di link. Il secondo approccio, simile a un reperire informazioni, invece, vedeva dei database nei quali effettuare ricerche e sottolineavano come dei tuffi veloci nel mare di informazioni aiutassero gli utenti a prendere e usare poi le informazioni di cui avevano bisogno. Alcune applicazioni come Intermedia, Microcosm/Mullticosm e Storyspace avevano degli strumenti di ricerca più o meno sofisticati, ma quando apparì il World Wide Web, il link sembrava aver trionfato, e difatti così fu per qualche tempo. E poi arrivò Google. Questo strumento di ricerca straordinariamente famoso (e immensamente redditizio), come ha mostrato l’Hypertext 3.0, può produrre risultati stupefacenti. Digitando tre o quattro numeri di una pillola si può arrivare al sito di una compagnia farmaceutica, dove non solo si può leggere l’identificativo del medicinale ma si ha anche accesso alla spiegazione degli effetti e delle controindicazioni. Eccezionale, fantastico, sì! Ma l’esperienza ci insegna che gli studenti che sono abituati ad andare direttamente su Google o Wikipedia e poi lasciano veloci il cyberspace, raramente seguono le connessioni di significato. In altre parole non usano davvero l’ipertesto. Non sanno come farlo.
Abbiamo affrontato questo problema la prima volta durante una lezione introduttiva sulla letteratura inglese del diciannovesimo secolo che usa il Victorian Web (www.victorianweb.org), un sito che attualmente contiene più di 46.000 tra documenti e immagini su un’ampia gamma di argomenti, tra cui letteratura, storia politica e sociale, arte, scienze, tecnologie, identità di genere e religione. La lista delle letture e i compiti del corso si trovavano sul sito, insieme ad alcuni lavori di studenti esemplari e dei principali studiosi; tutto ciò nell’intento di portare gli studenti a usare quei materiali mentre cercavano le informazioni sulle materie studiate in classe.
Quest’anno abbiamo assegnato agli studenti una ricerca molto specifica:
“Durante la nona settimana abbiamo letto, oltre ad altri lavori, lo splendido saggio di Thomas Carlyle “Segni dei tempi”. Poiché il testo contiene decine di riferimenti a persone ed eventi del diciannovesimo secolo e precedenti ad esso, i lettori moderni faticano a leggere la sua satira e le sue profezie perchè le trovano difficili. Pertanto, ognuno di voi sceglierà due termini tra quelli elencati qui sotto (nel caso troviate qualcos’altro che vi interessa e che ho tralasciato, chiedetemi).
Ogni nota verrà successivamente pubblicata online tramite un link dal testo di Carlyle, e dovrà essere composta da due parti: nella prima parte descrivete una persona, un posto, un evento o movimento e ne spiegate l’importanza storica. Nella seconda parte spiegatene la funzione in Segni dei tempi.”[Si vedano le note di un altro lavoro di Carlyle come esempio; quelle di Giorgio IV e Apollo Belvedere vanno bene.]
[http://www.victorianweb.org/authors/carlyle/signs/60annotations.html]
La lista dei 56 termini tra cui scegliere includeva “Alba”, “Rivolte carbonare”, “Epitteto”, “Las Casas”, “Vauxhall” e “Ximenes”. Nella sezione intitolata “Dove posso trovare le informazioni che mi servono?” si spiegava: “Potete usare il sito Victorian Web, Wikipedia e altre fonti del web, ma ogni nota deve contenere almeno un riferimento ad un libro o ad un articolo del sistema bibliotecario dell’Università Brown. In alcuni casi vi potranno essere utili i periodici dell’epoca vittoriana, compresi i giornali; in altri casi vi serviranno invece libri di filosofia, storia contemporanea o religione.”
Visto che il testo sul quale stavano lavorando c’era sul Victorian Web, con tanto di strumenti di ricerca, e che il sito era stato menzionato per primo tra le fonti suggerite, come si sono mossi in realtà gli studenti? Alla fine del corso gli studenti, insieme al loro progetto di dieci parti da svolgere in tre settimane, dovevano mandare via e-mail anche un questionario che i docenti non avrebbero letto prima di aver assegnato i voti finali ai lavori e averli registrati.
A chi si erano rivolti in prima istanza? Innanzitutto ecco la cattiva notizia per chi, come gli autori di questo articolo, ama i libri, le biblioteche e il mondo della cultura stampata. Nonostante le ripetute sollecitazioni dei professori a consultare la biblioteca universitaria e il bibliotecario, uno specialista formato in metodologia della ricerca, solo uno su 25 studenti seguì il consiglio nel redigere le note sul testo, mentre 14 lo fecero per il progetto finale. Dopo un attento esame dei lavori notammo che la maggior parte degli studenti tendevano ad andare direttamente su Wikipedia o Google. Dopo aver ricevuto le note, il professore aveva mostrato diverse volte il Victorian Web, illustrandone le risorse e invitando gli studenti ad esplorarlo. Il risultato? Su 22 studenti che avevano risposto a questa specifica domanda, 12 erano andati prima su Google, 8 su Victorian Web, 1 su Wikipedia e 1 si era rivolto ad un compagno di classe. La seconda fonte che avevano consultato era il Victorian Web (in 13); Wikipedia (in 6) e Google (in 3). Tutti gli studenti tranne uno o due riportarono di aver usato spesso lo strumento di ricerca del Victorian Web, 18 dissero di avere seguito frequentemente i link presenti nei testi che leggevano sul sito e in 6 di averlo fatto “qualche volta”. Il dato più interessante, forse, è che 15 dicevano di seguire “2
o 3 link a riga” sul Victorian Web e 8 dicevano di avere seguito sei link o più almeno una volta. I risultati emersi da questo questionario suggeriscono, a nostro avviso, che se si vuole che gli studenti usino in maniera proficua le nuove tecnologie, bisogna prima esplicitarne i vantaggi e suggerire l’uso migliore.
Alcune questioni rimangono aperte in questo articolo, tra cui quanto gli studenti leggano i lavori di altri studenti della stessa classe o di classi precedenti, come valutino la qualità del lavoro sul sito e anche come si muovano mentre lavorano, cosa prendano prima in considerazione e con cosa procedano. Ma questo sarà l’oggetto di un altro articolo.
*Dipartimento di Lingua Inglese, Brown
University, Providence, RI 02912 USA.
Riferimenti bibliografici
Holson, Laura M. “Tell-All Generation Learns to Keep Things Offline.” New York
Times. (May 8, 2010) Web.
Landow, George P. “Creative Nonfiction in Electronic Media — New Wine in
New Bottles?” Neohelicon: Acta Comparationis Litterarum Universarum
36 (2009): 439-50.
Landow, George P. Hypertext 3.0: Critical Theory and Technology in an Age of
Globalization. Baltimore: The Johns Hopkins University Press, 2006.
Landow, George P. “The paradigm is more important than the purchase:
educational innovation and hypertext theory.” Innovation. Eds.
Andrew Morrrison, Gunnar Liestøl, and Terje Rasmussen.
Cambridge: MIT Press, 2003. 35-64.
Nadin, Mihai. The Civilization of Illiiteracy. Dresden University Press, 1997.