Qui si parla di me…

Come ogni insegnante, all’inizio di un nuovo anno scolastico mi piace proporre alcune attività ai miei nuovi giovani studenti – ragazzini della prima media – per cominciare a conoscerli e a conoscersi. Fra queste, quella che io chiamo dei “perché”consiste nel semplice invito a elencare per iscritto, senza troppo indugiare nel pensiero, 10-20 domande “a tutto campo”alle quali vorrebbero trovare una risposta.

La lettura condivisa che ne segue si rivela sempre occasione per riflessioni intriganti e divertenti.
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Dietro i loro perché premono frammenti della loro storia, il bisogno di dar significato a esperienza personali di cui le stravaganti logiche e i bizzarri, non di rado sconclusionati oggetti delle loro domande sono ora simbolo ora pretesto.

“Perché la terra è rotonda – Perché hanno inventato la vernice – Perché hanno messo i mercati all’aperto – Perché gli elefanti hanno il naso lungo – Perché i Simpson sono gialli – Perché abbiamo cinque dita (e non sei) – Perché gli uomini hanno tante fantasie – Perché viviamo in gruppetti di famiglie – Perché lo spazio è infinito – Perché esistono tante materie – Perché dobbiamo mantenere il conto degli anni che abbiamo – Perché nel mondo ci sono le religioni – Perché hanno inventato gli orologi – Perché gli uomini usano il gel – Perché esiste la scuola???

Perché a tanti bambini “sfugge”il senso della scuola?
A scuola i bambini incontrano un’istituzione che, per ragioni strettamente funzionali alla sua organizzazione interna, gli presenta una rappresentazione della conoscenza del mondo caratterizzata dalla frammentazione e dalla divisione. Divisione del corpo dalla mente, della ragione dall’emozione, della conoscenza dall’esperienza dei sensi. “Ci insegnano, a partire dalle scuole elementari – ha scritto di recente Morin – a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro solidarietà), a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e a integrare, a separare ciò che è legato, a eliminare tutto ciò che apporta disordini o contraddizioni nel nostro intelletto?1.
E’ sufficiente ripensare al nostro 6o anno di vita, e poi al’11mo, al 14mo?, vale a dire agli anni che hanno coinciso all’incontro prima e al passaggio poi, da un ciclo scolastico al successivo. Che considerazione hanno ricevuto in quei momenti cruciali le nostre storie di vita, quelle storie che inevitabilmente abbiamo portato all’incontro con il sapere specifico dei curricoli delle materie scolastiche? Tra il sapere della vita e quello della scuola è stato un incontro o uno scontro? Quali occasioni ci sono state offerte per divenire consapevoli delle vicissitudini che l’intreccio fra il vissuto personale e quello scolastico comporta? A chi di noi e come è stato chiesto di interrogarsi e auto-riflettere sui processi esistenziali che ci avevano condotti a essere e sapere ciò che allora eravamo e sapevamo? Se, come credo, la maggior parte delle nostre risposte a queste domande sono rimaste senza risposta, non si può che giungere alla conclusione che la scuola è stata per noi il luogo formativo per eccellenza della rimozione e della normalizzazione delle storie di vita.
Così non può sorprendere se, chiedendo a un bambino – ma anche a uno un po’ più grandicello – perché l’italiano, la matematica, l’educazione artistica o musicale con buona probabilità la risposta sarà: perché serve a scrivere e leggere, a fare di conto, a disegnare, a suonare? e assai raramente la consapevolezza che tutto ciò consente l’esprimersi, il comunicare, il conoscersi in forme tanto differenti quanto interconnesse.
La decontestualizzazione delle discipline, la loro assolutizzazione quasi che preesistessero ai saperi (fenomeno precoce che vede infine il suo apogeo nella configurazione per cattedre dell’insegnamento universitario) trova conferma in un insieme di procedure metodologiche fatte proprie da una prassi consolidata nella scuola. E’ il caso della programmazione di materia che ogni insegnante – non foss’altro perché costretto – predispone ex-novo all’inizio di ogni nuovo anno (più avanti negli anni, modificando a volte solo il riferimento all’anno scolastico). Dalla programmazione si è chiamati a individuare con largo anticipo, prima ancora di aver stabilito un rapporto personale con i soggetti destinatari, una sequenza lineare di azioni in vista di prestabiliti obiettivi curricolari. Azioni che si dimostrano presto nella maggioranza dei casi inadeguate, in quanto efficaci in condizioni esterne stabili che per definizione non attengono al farsi delle relazioni, ancor più se di natura educativa. “Tutto il nostro insegnamento tende al programma, mentre la vita – suggerisce Morin – ci chiede strategia e, se possibile, anche serendipità e arte. E’ proprio un ribaltamento che si dovrà attuare per prepararci ai tempi dell’incertezza?2.
Questo ribaltamento a me sembra debba innanzitutto investire la consolidata tendenza della scuola a separare le cosiddette attività relazionali dalle tradizionali attività curricolari. Occorre interrogarsi, per cominciare, sull’opportunità di continuare a ritenere – e praticare – la “conoscenza di sé”come qualcosa a cui dedicare un’attenzione attiva in fase d’avvio e di accoglienza quale semplice precondizione per poi affrontare le cose serie costituite dallo “zoccolo duro”dei saperi disciplinari.
Anche perché i saperi nella attuale organizzazione della scuola stanno palesando tutta la loro inadeguatezza ad essere trasmessi e incorporati, rimanendo perlopiù nei libri di testo portati dai rappresentanti delle case editrici, sempre più “piuma”nella carta quanto incapaci di motivare il dialogo delle nuove generazioni con la conoscenza. Si fa un gran parlare della necessità di snellire i contenuti, ma un semplice “taglio”delle informazioni rischia solo di contrarre i programmi ed ampliare la frustazione degli insegnanti, senza realmente rispondere ai cambiamenti culturali in atto nella realtà esterna alla scuola. Commissioni ministeriali di “saggi”lavorano da tempo sulla revisione dei saperi, dispositivo su cui si giocherà molto del futuro della riforma della scuola, ma le indicazioni fin qui emerse appaiono sinceramente ancora troppo generiche, difficilmente traducibili sul piano della praticabilità didattica.
Comunque evolva il gioco al vertice, credo sia importante non dimenticare che qualunque contenuto disciplinare prende senso dentro una relazione, poiché la questione dell’insegnare non è tanto quali informazioni trasmettere bensì come trasformare le informazioni in conoscenza.
Raffaele Simone, in un suo recente saggio3, ha in tal senso parlato di tre fasi nell’apprendimento della conoscenza umana: noi ben conosciamo le prime due, quella dominata dalla scrittura e la seconda caratterizzata dalla stampa. Su queste due modalità funziona ancora la nostra scuola, applicando più o meno consapevolmente un modello cognitivo che considera la mente e i suoi apprendimenti in base alla dinamica stimolo-risposta. Poco sappiamo della terza fase – a cui allude Simone – che pure ci sta quotidianamente di fronte, nelle menti e nei corpi dei nostri giovani studenti. Poco sappiamo, e probabilmente anche loro, di come apprendono, quali attività simboliche prediligono, quali linguaggi e strategie utilizzano per attribuire significati al mondo e dunque a se stessi. Non lo sappiamo già solo per la semplice ragione che rare sono nella scuola le occasioni per chiederselo insieme.

In questa direzione si muovono le esperienze didattiche impostate sui paradigmi della metodologia autobiografica in educazione, che vanno incontrando nella scuola in questi ultimi anni una crescente attenzione e soprattutto una diffusa sperimentazione applicativa. Va maturando la consapevolezza fra questi insegnanti di come, ben lungi dall’essere mera pratica di socializzazione, l’approccio autobiografico configuri concrete occasioni di educabilità cognitiva, di rivitalizzazione e contestualizzazione dei saperi.
Negli assunti del metodo, gli studenti vengono iniziati alle condizioni di conoscere raccontandosi, di scoprire l’importanza e l’imprescindibilità di farlo insieme da un lato e, dall’altro, di ancorare alla propria memoria la prefigurazione delle conoscenze; vuoi perché il pensiero logico-scientifico, concettuale, solitario – come sostiene Demetrio “non è sufficiente a fornirci la sensazione di essere al e nel mondo: sono le domande degli altri, è la loro voglia di stare a sentirci, di interessarsi a noi a produrre un evento mentale, a far riguadagnare quel narcisismo primario disperso o mai nato?4; vuoi perché, a differenza di quanto diffusamente si ritiene, “noi sperimentiamo il mondo perché lo comprendiamo in certi modi e non viceversa: il significato non viene dopo il fatto, poiché l’esperienza è già un’interpretazione e noi agiamo in funzione delle nostre interpretazioni o spiegazioni?5.
L’autobiografia nella scuola intende:
– creare occasioni per sviluppare nei ragazzi (tutti) momenti di consapevolezza e autostima rispetto alla loro identità (di studenti, di “esseri pensanti?), favorendo l’espressione a scopo orientativo di interessi, punti di vista, propensioni e bisogni di apprendimento personali;
– abituarli a prendere la parola, ad ascoltarsi e ad ascoltare gli altri – a metariflettere – sul rapporto che sentono di avere con il sapere scolastico e con altre forme di sapere, sui personali modi di ricordare, capire, imparare: collegando il pensiero alle emozioni,
il vissuto scolastico a quello soggettivo;
– costruire insieme una modalità comunicativa circolare per imparare ad affrontare le questioni emergenti della classe, la gestione dei conflitti, l’integrazione delle differenze soggettive, scoprendo nel gruppo un’occasione di rispecchiamento e di intercambiabilità della leadership;
– sperimentare la possibilità di “dirsi”attraverso codici linguistici diversi trasformati da obiettivi da perseguire negli specifici curricoli – quali sono considerati nell’attuale organizzazione dei saperi scolastici – in strumenti polisemici per comunicare e comunicarsi in maniera più ricca e accessibile.
Lavorare in prospettiva autobiografica modifica significativamente la dimensione dello sguardo e dell’ascolto, la percezione del compito formativo. Si scopre tra l’altro quanto – come ammoniva Roland Barthes – “A forza di guardare (parlare, spiegare?) si tenda a dimenticare che si è guardati?. Ciò appare tanto più vero quando l’esperienza autobiografica vede l’insegnante vis-a-vis con un ragazzo – come si sta sperimentando da alcuni anni in diverse scuole grazie alla presenza di progetti tutoriali – per alimentare di senso il suo percorso di apprendimento. Le parole di sé su di sé del ragazzo costringono l’insegnante-autobiografo a ricercare una “postura pedagogica”fatta di rispecchiamento e testimonianza, a dover parlare senza poter nascondersi dietro un sapere. La testimonianza autobiografica (dello studente) svela il testimone (l’insegnante) e trasforma la relazione. In tutto questo non c’è nulla di psicologico in senso stretto: non c’è interpretazione, diagnosi, cura. Semmai la scoperta che dietro ogni sapere c’è una storia alla quale difficilmente potrò criticamente accedere, verso cui facilmente mi demotiverò, senza la possibilità di accorgermi del sapere che c’è in quella storia che è la mia.
Se dunque la cura dell’ambiente educativo tende a essere ancora insufficientemente considerata nella prassi trasmissiva tradizionale (lo schema delle aule si perpetua perlopiù invariato, la campanella continua a strillare ossessivamente ad ogni ora, mentre persiste la convinzione che si possa insegnare solo attraverso la parola), nella prospettiva autobiografica l’attenzione per il setting assume per una valenza preponderante. Le possibilità narrative sono fortemente legate alle scelte procedurali: compiti individuali, ad esempio, accentueranno la componente prevalentemente introspettiva, a coppie saranno la mutua interrogazione, l’empatia e la riflessione a giovarne maggiormente, nelle esercitazioni in cui coinvolto sarà tutto il gruppo emergeranno con più evidenza le differenze, la reciprocità del controllo e la moltiplicazione delle attribuzioni di significato? Una metafora eccellente per l’insegnante-autobiografo è certamente quella del “regista?, condizione che evoca il teatro, con cui non a caso il mondo dell’educazione da sempre intrattiene un fertile rapporto. Del resto che altro non è il teatro se non invito allo spettatore ad apprendere quando gli si mostra sulla scena, ritrovandolo e replicandolo in sé?
L’aula dunque come palcoscenico con i suoi spazi e tempi per l’azione narrativa, le sue luci e le ombre, le quinte, il proscenio, il pubblico. L’aula come intreccio di linguaggi, occasione per affrontare quella frammentazione e divisione dei saperi da cui siamo partiti in questa breve riflessione.
Non a caso la ricerca autobiografica nella scuola si sta confrontando con il bisogno di dare vita a un altro “luogo?6, poiché è inimmaginabile che mentre tutto si appresta a cambiare nella scuola, lo scenario continui a essere quello di un’aula organizzata secondo rigide fila di banchi e sedie ossequiosamente orientati verso la cattedra, un’aula di mezzi busti.
Per sua natura, la consapevolezza autobiografica non può che soffrire di questa menomazione. Nella globalità del suo porsi di fronte al processo educativo, la storia della mente dello studente rinvia a un corpo. I bisogni espressivi dei giovani non possono prescindere da esso e dai suoi codici poiché è dagli evidenti cambiamenti del corpo di quel tempo della vita che originano disagi e peculiarità.
Non di rado le difficoltà di apprendimento o di motivazione alla partecipazione scolastica si strutturano intorno a una mancata risposta ai messaggi del corpo, a una scarsa sensibilità e competenza verso quei “canali”che non si riconducono alle classiche categorie delle logiche linguistica e matematica. Nel lavoro didattico con bambini e ragazzi puntualmente verifichiamo il bisogno di attivare linguaggi più coinvolgenti, capaci di dare alla parola – alla quale non vogliamo (e non possiamo) certo rinunciare – quello spessore in grado di renderla effettivamente comunicativa.
Imparare non tanto a far funzionare le qualità espressive peculiari dei vari canali (compito a cui già sono delegate specifiche materie scolastiche), quanto a trasferire contenuti di sé da un canale all’altro libera risorse aggiuntive per aiutare a liberare e rilasciare processi di auto-riflessività altrimenti compromessi. Tutto questo si traduce nella disponibilità di contesti dove sia possibile che percezioni, sensazioni, immagini, emozioni, rappresentazioni vengano ri-raccontate, ad esempio, per il tramite di un disegno, di una forma generata dalla creta, dell’immaginazione attiva, di un ascolto musicale guidato, di un grande collage, di una danza collettiva, attraverso giochi di ruolo, improvvisazioni teatrali, drammatizzazioni, simulazioni, nel contatto con il corpo…
Le conoscenze intorno al corpo e alla mente che quotidianamente si trasmettono a scuola riguardano perlopiù un corpo e una mente resi da subito oggetti: occorre ritrovare il modo di mettere in scena il corpo e la mente viventi, soggettivi.
Quando la bambina e il bambino sentono parlare del funzionamento del pensiero è inevitabile che pensino al loro pensiero: avvertono la necessità di conoscerlo per non esserne travolti, di sapere per nominare e dare senso a ciò che provano. Senza una didattica coinvolgente, capace di metterli nelle condizioni di sperimentare la qualità interna dell’attenzione, dell’ascolto, della concentrazione, del silenzio , il richiamo costante a queste dimensioni rischia di cadere nel vuoto, o nell’assenso prescrittivo.
Una didattica, occorre infine precisare, che niente ha a che vedere col luogo comune che reclama una scuola al passo coi tempi, impegnata a fornire continui stimoli, schiacciata sull’improbabile compito di inseguire la realtà. Inutile nascondersi le difficoltà di cui è disseminato un itinerario pedagogico come quello accennato in queste pagine;
niente più delle qualità anzidette appare lontano dal modo di vivere delle attuali generazioni. Ma la perdita della memoria, la frammentazione e la contrazione del tempo vissuto, l’incapacità di dare significato e valore alle esperienze si alimentano, forse, proprio di tale lontananza.

Relazione presentata al seminario nazionale sulla scuola organizzato dalla “Libera Università dell’Autobiografia”di Anghiari (AR) lo scorso 1 aprile

Note bibliografiche

1 Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero. Raffaello Cortina, Milano 1999. 2 Morin E., op. cit. 3 Simone R., La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2000. 4 Demetrio D.(a cura di), L’educatore auto(bio)grafo, Unicopli, Milano 1999. 5 Groppo M., Ornaghi V., Grazzani L., Carruba L., La psicologia culturale di Bruner, Raffaello Cortina, Milano 1999, p. 57. 6 Formenti L., Gamelli I., Quella volta che ho imparato. La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione, Raffaello Cortina, Milano 1998.