Recensione – Ancora ci credo

Grazia Giurato

Ancora ci credo

La Tecnica della Scuola, Catania 2012, pp.153

Grazia Giurato

Ancora ci credo

La Tecnica della Scuola, Catania 2012, pp.153

I libri. Santo cielo, i libri… Perché si scrivono? Perché fare torto alla natura, ai boschi della Finlandia o alle foreste dell’Amazzonia solo per togliersi il piacere di scrivere e pubblicare? Perché farlo se non sei Dostoevskij o Proust, Leopardi o Joyce? Già: perché ha scritto questo libro – agile, fragile – Grazia Giurato? Posto in questi termini, l’interrogativo può produrre solo un sentimento di imbarazzo. Anzi, finisce per avere un suono sgradevolmente ricattatorio. Perché nessuno mai potrebbe rispondere “sì, sono io il nuovo Dostoevskij” e sentirsi dunque a posto con la coscienza per avere compensato l’umanità, una volta di più colpita nel suo ecosistema, con un nuovo, prezioso gioiello di letteratura e spiritualità.

Scrivere può essere un gesto di arroganza. Può tradire l’ambizione di spiegare il mondo così come nessuno lo ha mai spiegato. O di offrire potenza di romanzo o a soavità di poesia a un’epoca impoverita nella bellezza e nelle arti. Poi però c’è Grazia. Che scrive senza arroganza. Ci sono le donne come lei che cercano solo di ricomporre storie lunghe e difficili, percorse dalla dignità di chi non piega mai la schiena e se è costretta a farlo giura dentro di sé che non dovrà accadere mai più. Né a lei né a quelle come lei. Scrivere diventa allora un modo per offrirsi con discrezione e al tempo stesso con un’ombra di orgoglio. Mi avete conosciuta così. Molto o poco abbiamo condiviso, ma forse questo episodio non lo sapevate. Forse questo retroscena che mi sta inchiodato nell’anima o nelle retine degli occhi non lo conoscevate. Perché non ve l’ho mai raccontato per timidezza. O per sovrappormi ai vostri racconti, alle vostre confessioni. Perché volevo ascoltarvi perché parlo tanto – e Grazia parla tanto – ma c’è sempre un momento in cui mi fermo. Un momento in cui capisco che voi avete più bisogno di me di parlare. Oppure ho taciuto di me e del mio passato, delle immagini che più mi inquietavano, anche del bene che ho fatto a una donna o a una famiglia sconosciuta, perché cose diverse urgevano. Altro che le mie paturnie, le mie emozioni private. Dovevamo difendere Catania e la Sicilia dagli sfregi della mafia e dei cavalieri del lavoro, ve li ricordate vero?, li applaudivano in tanti poi è finita come è finita. Quella storia che non si può seppellire, con un giornalista a fare da vittima sacrificale per una città intera. E che doveva fare, Grazia, mettersi a raccontare allora del padre scomparso dopo la battaglia del Don, la madre bella e schiacciata con il viso contro il cuscino e donne giovani e anziane a popolare una casa e a far mestieri di donna sempre per compiacere un “lui”, qualunque ne fosse la provenienza?

E fossero solo Catania e la Sicilia… L’Italia addirittura si è dovuta difendere, avviata – irreversibilmente, sembrava – a perdere onore e giustizia A settant’anni e più grazia di è dovuta mettere a marciare e a manifestare in strada. “Dovuta”, poi…

Dovuta niente, lo ha voluto fare, perché per molte altre, anche più giovani di lei di generazioni, non c’era proprio alcun dovere. Con un fazzoletto colorato intorno ai capelli grigi a chiedere legge uguale per tutti o pace nel mondo per i viali di Roma. E che avrebbe dovuto fare? Mettersi allora a raccontare storie di stupri lontani, incesti terribili, donne uccise quasi davanti a lei, tanto son mafiose, insomma gli incubi e le prove della sua vita? O narrare della sua fede conquistata nel confronto aspro e inesauribile con le cose e con gli uomini? O di don Piro e don Resca? Non poteva. Perché Grazia, matura e ormai anziana ragazzina aveva altro da fare.

Poi, a un certo punto, chissà in che minuto, ha pensato che però qualche traccia fosse giusto lasciarla. O magari ha deciso che la doveva lasciare. Anche se non era agitata dalle passioni e dalla letteraria, sovrumana potenza di Dostoevskij. Tracce, sassolini bianchi di una Pollicina adulta. Vita di una donna che ha amato le donne e per le donne si è battuta, che ha conosciuto il senso totale, antropologico, che ha in certi momenti il lavaggio dei calzini. Che dalla sua condizione di donna è partita mille volte per ritornarci ogni volta più ricca, perché mai chiusa alle altre condizioni. Che ha fatto della vita una battaglia generosa e anche spigolosa.

È questo, in fondo, il libro che avete tra le mani. Segno di modestia e non di arroganza. Rimedio di lunghi silenzi passati, custoditi sotto la vitalità scoppiettante della parola. Un piccolo libro nato da qualcosa che più che alla umana vanità assomiglia alla timida fierezza di chi ha vissuto a testa alta.

Nando Dalla Chiesa