Recensione – I bambini della ginestra

Maria Rosa Cutrufelli,

I bambini della ginestra

Sperling & Kupfer per Edizione Frassinelli, Milano 2012, p. 276, € 18,50.

Maria Rosa Cutrufelli,

I bambini della ginestra

Sperling & Kupfer per Edizione Frassinelli, Milano 2012, p. 276, € 18,50.

A Portella della Ginestra, un momento prima della strage, prima che Salvatore Giuliano ordini ai suoi uomini di sparare sulla folla radunata per assistere al comizio della festa del Lavoro, si apre il romanzo. È il 1947.

Al Sasso Barbato, una specie di podio naturale che si erge sulla conca di Portella, la stessa roccia da cui si apprestava a parlare l’oratore in quella mattina di maggio, il romanzo si chiude. È il 1972.

Tra questi due momenti si dipanano le vicende dei protagonisti del romanzo, Enza e Lillo. Sono loro a raccontare, in prima persona, la storia di quei venticinque anni, la loro storia e, insieme, i processi per la strage, capaci al più di punire qualche esecutore ma impotenti a identificare i veri mandanti, il coinvolgimento di politici che non si possono né si vogliono chiamare in causa, il succedersi delle misteriose morti le cui circostanze mai saranno chiarite.

Due momenti e un luogo solo, Portella della Ginestra dominata dal Sasso Barbato, un luogo dal quale Enza e Lillo non possono che fuggire via, lontano, ma a cui inesorabilmente devono tornare. Soltanto prendendo il coraggio di rivedere il luogo da cui tutto ha avuto inizio e la piccola lapide, tante volte distrutta, potranno accettare, senza esserne preda, l’amarezza e la disillusione di chi non ha avuto giustizia, ma potranno anche pacificarsi con la propria terra e provare -forse- a costruire, un futuro comune.

Maria Rosa Cutrufelli propone nel suo ultimo romanzo una storia densa e appassionante, nella quale come in altri lavori della scrittrice (La briganta, La donna che visse per un sogno) la Storia riveste un ruolo fondamentale. Le vicende dei protagonisti sono infatti ambientate in un contesto storico preciso che non costituisce solo uno sfondo indistinto, ma che si fa materia viva del raccontare. Rigore storico e capacità immaginativa si fondono e sanno restituire, con nitidezza quasi cinematografica, immagini di un’Italia lontana nel tempo: i viaggi in treno su sedili di legno, la vita quotidiana in piccole province periferiche, i colori delle stagioni che si avvicendano.

Le voci che compongono il quadro, come si diceva, sono quelle di due reduci della strage. Un bambino e una bambina che diventano un uomo e una donna. E sono proprio il linguaggio del pensare di sé e la reazione alla tragedia che rendono conto della loro differenza sessuale: un sentire che li accomuna, ma che marca al contempo il confine e la distanza tra loro. Per questo ciascuno dei due dovrà farci i conti da solo e da sola, dovrà cercare il proprio modo di andare e tornare.

Solo nel primo e nell’ultimo capitolo la voce narrante non appartiene ai due protagonisti quasi a richiamare comunque anche un’oggettività della piccola storia di due personaggi comuni, costretti dalla grande Storia a subire un destino imprevisto.

Agisce la costruzione sapiente di una scrittrice che conosce bene i dispositivi narrativi e li usa dosandoli con maestria. Ma gioca anche la passione civile di una donna che si interroga e interroga lettori e lettrici: quante sono in questo Paese le stragi di cui non conosciamo i mandanti? Che ne è dei sopravvissuti, delle loro esistenze, delle loro disperazioni?

Raccontare diventa allora – anche – un modo per testimoniare.

Claudia Alemani