Recensione – Il libro dei brevi amori eterni

Andrei Makine

Il libro dei brevi amori eterni

Einaudi, Torino 2012, pp. 176, € 14,00

Andrei Makine

Il libro dei brevi amori eterni

Einaudi, Torino 2012, pp. 176, € 14,00

In lingua inglese vi è una distinzione tra history e story, quasi a significare una mancata coincidenza tra lo scorrere del tempo collettivo e gli eventi che lo scandiscono e il significato che questi eventi assumono nella vita quotidiana, una difficoltà insomma a dire che cosa ha creato le scansioni del tempo, i suoi intervalli. Questa differenza in italiano viene resa attraverso una pluralizzazione tra storia e storie, dove la Storia. Ma che cosa resiste alla Storia e sopravvive nella memoria dell’altro, di chi attraversa la Storia? Domanda a cui gli stessi storici di professione hanno cercato di rispondere, attraverso la Oral history, un approccio che cercava di intrecciare storia e storie, incontrando così la dimensione del ricordo. Ricordo che spesso sfuggiva alla ricostruzione degli eventi che la storia aveva prodotto, dove gli eventi venivano piegati alla ricerca di una coerenza interna, dove le immagini si confondevano, rifacendosi ad un’iconografia che non coincideva con la memoria fotografica degli eventi stessi, li rielaborava facendo ricorso ad altre immagini che potessero meglio rendere conto delle emozioni di cui gli avvenimenti erano intrisi.

Makine ci dice che l’amore, magari breve, magari colto in un attimo, lascia un’impronta, un segno nell’esistenza di chi lo vive, procede parallelo e impalpabile rispetto alla Storia che invece procede seminando torti e ingiustizie, senza lasciare scampo e tregue nel suo incedere. E’ come se quell’attimo, quel tempo breve bucasse la linearità di una storia consegnata ai documenti, segnata da grandi avvenimenti che segmentano il tempo, senza render conto di quel che accade nel soggetto che la attraversa e vive nella storia. Quell’attimo è un segno nella vita dell’individuo, un punto di svolta che illumina la comprensione della storia, che la fa precipitare nelle storie con una immediatezza e di ritorno ci restituisce un senso rispetto alla storia, agli avvenimenti che ci coinvolgono collettivamente e che risultano illuminati in modo differente, una lama di luce che cambia la prospettiva della Storia.

Otto capitoli e otto momenti della vita di un uomo, dall’infanzia passata in un orfanotrofio russo negli anni Sessanta, all’età adulta, quando il sistema in cui inizialmente aveva creduto si dissolve. E in ciascuna di queste narrazioni è l’amore di o per una donna a risvegliare un frammento di coscienza: la giovane senza nome che sulle tribune per il corteo dell’anniversario della Rivoluzione d’ottobre piange sommessamente il compagno morto in un sottomarino, incrina la fiducia del giovane in quelle meticolose e vacue messinscena, contrappone al rumore di quelle sfilate un silenzio ben più assordante, dove le parole della propaganda risuonano prive di senso. Maja, la nipote della «donna che ha visto Lenin», gli svela la brutalità del leader bolscevico, straccia il velo che copre le miserie quotidiane. Vika, che vive con la madre accanto alla fabbrica in cui il padre è costretto ai lavori forzati, gli apre gli occhi sul carattere repressivo del regime, con quella mano tesa che non riesce a raccogliere il fagotto che rotola a terra tra l’indifferenza delle guardie. Leonora, con la quale il narratore ormai adulto vede un film occidentale in cui la chiave di una camera d’albergo strappa gli applausi, in cui alla smania erotica fatta di amplessi sudaticci (“per lasciarci alle spalle i beccamorti di un’ideologia pietrificata dovevamo correre, con le ali di equilibristi sulla fune, da un amore all’altro, da un piacere effimero al successivo”) si contrappongono i gesti amorevoli di una coppia di anziani coniugi, contrappunto alla volgarità e al grigiore dell’epoca brezneviana. Jorka, il compagno di giochi mutilato dall’esplosione di una granata, che coglie dei fragili bucaneve da regalare «a qualcuno» e pochi giorni dopo si avvia verso il bosco ancora disseminato di mine, quasi a tornare attraverso il luogo al tempo dove la vita si è spezzata. Kira, che in un enorme e improduttivo frutteto si sforza di spiegare gli alti ideali dell’arte e della lotta al regime, in un luogo dove la grandiosità coincide con la sterilità, poiché il frutteto generato dal furore ideologico è disertato dalle api. E infine quella donna grassa e volgare, espressione al contempo della vecchia e della nuova Russia: in gioventù era stata il grande amore di Dmitrij Ress, il dissidente, il «poeta» che anche nei lunghi anni trascorsi in un gulag non smise mai di amarla, che è ancora fermo a quel volto colto nella giovinezza, che contrappone alla corsa sfrenata ad arricchirsi di chi in tempo ha saputo tradire. E qui nella figura finale di Ress il libro si chiude su un martire della “rivolta contro un mondo in cui l’odio è la regola e l’amore una strana anomalia”.

Sbaglieremmo perciò a vedere il testo come un’antologia di amori impossibili, gli incontri sono l’occasione anche per aprirsi sulla Storia, storia di un’educazione politica sullo sfondo di un regime tanto oppressivo quanto ottuso. Makine è capace di mostrarci anche le analogie tra la propaganda e l’ottusità del regime e la dissidenza dell’intelligentja, entrambi governati e guidati dalla volontà di omologare, entrambi accomunati dai confini rigidi dell’appartenenza, senza rendersi conto della loro solidarietà di fondo, della riduzione di ogni domanda di senso al silenzio. allora l’accesso alla verità deve sfuggire all’ideologia, non passa attraverso essa, ma attraverso lo sguardo amoroso.

Intuivo che la verità non stava né dalla loro parte né nel campo opposto, tra i contestatori. Mi appariva semplice e luminosa come quella giornata di febbraio, sotto gli alberi appesantiti dalla neve. La bellezza umile del volto femminile dalle palpebre abbassate rendeva ridicole le tribune e chi le occupava, e la pretesa degli uomini di ergersi a profeti della Storia. La verità era espressa dal silenzio di quella donna, dalla sua solitudine, dal suo amore così grande che perfino il bambino sconosciuto che scendeva i gradini ne era rimasto abbagliato per sempre.

In questo quadro allora l’amore si pone come un punto di sovversione, un incontro al quale non ci si può sottrarre, attraverso il quale si assumono nuove prospettive e nonostante la precarietà della vita, quei momenti rimangono come incancellabili, dove ogni incontro rappresenta un’intuizione che lega la storia personale a quella della Russia. Un’intuizione che assume a volte valore a posteriori, in un tempo altro che le dota di significato e illumina gli eventi in altro modo, replicando gli incontri nel tempo e configurando il tempo di un’altra storia:

Mi ci vollero molti anni anche per imparare a riconoscere, dietro una breve storia di tenerezza adolescenziale, la felicità luminosa che la mia amica e sua madre mi avevano trasmesso con tanta discrezione. Mi ricordavo certo della loro ospitalità, della dolcezza con cui avevano attorniato il giovane ragazzo selvatico che ero, un essere indurito dalla brutalità e dalla violenza. Con l’età, mi rendevo sempre più conto che la pace che grazie a loro regnava in un luogo così desolato, sì, quella serenità indifferente alla bruttezza e alla volgarità del mondo, era una forma di resistenza, forse perfino più efficace dei sussurri di protesta che avrei udito negli ambienti intellettuali di Leningrado o di Mosca. La rivolta di quelle due donne non era appariscente…

Ambrogio Cozzi