Recensione – Uomini in educazione bis

Barbara Mapelli, Stefania Ulivieri Stiozzi (a cura di)

Uomini in educazione

Stripes, Rho (MI) 2012, pp. 232 , € 16,00

Barbara Mapelli, Stefania Ulivieri Stiozzi (a cura di)

Uomini in educazione

Stripes, Rho (MI) 2012, pp. 232 , € 16,00

Uomini in educazione riporta gli atti del convegno tenutosi all’Università di Milano Bicocca il 14 marzo 2012, sbocco e risultato anche di alcuni anni di riflessione e ricerca sul tema. Due domande prioritarie attraversano questo volume, e riguardano una il rapporto tra cura ed educazione e l’altra le variazioni di queste stesse pratiche formative umane col variare dei generi che ad esse sovrintendono, assumendosene l’onere e la responsabilità. Queste domande non vengono trattate separatamente, ciascuna secondo un suo proprio filo conduttore, bensì esse si intersecano e intrecciano nei diversi interventi, producendo esiti di scoperta ed evidenziazione più profonda della costituzione delle varie dimensioni. Perché interrogarsi sulla partecipazione maschile all’azione educativa, in particolare nell’ambito professionale, non solo ci dice qualcosa di specifico sulla cultura identitaria maschile in Italia, ma ci svela con i suoi numeri e con le testimonianze degli uomini interpellati aspetti significativi del come concepiamo e attuiamo l’educazione. Il senso è che per parlare di Uomini in educazione bisogna chiedersi chi sono gli uomini, cosa vogliono, e che cosa è l’educazione: e le risposte che vengono date sono situate, si originano a partire dall’esperienza e dalle interviste, dal sentire personale di educatori, e dall’analisi delle trasformazioni storico-culturali.

Intanto, della partecipazione degli uomini all’educazione viene detto subito che si tratta fondamentalmente di un’assenza la quale, per riprendere l’incisiva formula introdotta da Barbara Mapelli, si manifesta come evidenza invisibile. Tutto ciò che, pur avendo una matrice culturale, viene naturalizzato nel e dal senso comune, sino ad apparire ovvio, scontato, indiscutibile, scompare alla vista, alla nostra percezione, non lo osserviamo come fenomeno, e perciò non lo studiamo, spesso, ma piuttosto lo assumiamo come dato di realtà immutabile e costitutiva delle esistenze e interazioni umane. Più contributi sottolineano però l’evoluzione dei numeri, e con ciò l’involuzione, che pare sempre più quantitativa e qualitativa insieme, dell’impegno maschile in educazione. Questa occupazione, il dedicarsi degli uomini alle professioni educative, viene esaminato sia nel suo esito lavorativo che nelle percentuali della presenza maschile nei corsi di laurea delle Facoltà di Scienze della Formazione, deputate all’orientare la preparazione professionale in questi ambiti. È così possibile confrontarsi e mettere in luce le peculiarità dell’assenza maschile, che non è uniforme in tutti i contesti e indirizzi della pratica professionale dell’educazione: la presenza degli uomini si incrementa col crescere dell’età delle fasce d’utenza e col salire di livello della posizione nell’organizzazione scolastica, per cui ritroviamo certamente gli uomini, molti più uomini, nei gradi superiori dell’istruzione e nelle posizioni dirigenziali. La cura dell’infanzia non si addice agli uomini, neanche a quelli che pure sono in educazione: le scelte professionali si conformano sui paradigmi di genere, i pochi studenti maschi dei corsi di Scienze della Formazione si rappresentano e si sentono rappresentati come figure originali, bizzarre, incerte e in discussione per quanto riguarda la propria identità lavorativa, nonostante siano investite anche di notevoli aspettative e gli ampi spazi di occupazione che si presentano loro, in un mercato del lavoro nelle attività socioeducative che richiede pressantemente uomini per degli sbocchi che si ritiene necessitino maggiormente di operatori forti e autorevoli, di un’autorevolezza anch’essa presunta e da mettere alla prova delle relazioni educative. E’ in questi numeri della presenza-assenza maschile che appare una distinzione di fondo tra cura ed educazione, con la prima descritta e vissuta come il modo dell’accudimento femminile, e la seconda come avente origine in una normatività di matrice maschile. Rispuntano i latenti tradizionali codici materno e paterno, che ancora fungono da riferimenti, perlomeno da termini di paragone, pur con tutte le differenze, per ogni altra pratica formativa intenzionale. Come si spostano oggi questi confini e il rapporto tra cura ed educazione? Quella che appare come una inarrestata perdita di prestigio del lavoro educativo professionale, soprattutto dell’insegnante di scuola primaria, ovvero la svalorizzazione sociale della cura, sembra evidenziare una tendenza schematica a privilegiare ai nostri giorni la funzione assistenziale e accuditiva, più che quella regolativa: ma cosa succederebbe se, e cosa succede già ora quando cominciamo a pensare e agire in termini di cura educativa, con una più forte integrazione tra le due dimensioni? E in ogni caso, come potrebbe essere invertito e magari reso virtuoso il circolo vizioso che disconosce l’importanza della cura e simultaneamente il lavoro delle donne?

Nel suo complesso però il volume non si limita a descrivere il fenomeno dell’assenza maschile nell’educazione come evidenza invisibile, ma procede anche a domandarsi le cause di questo esito; e ancora, sposta il fuoco verso una valutazione, se un cambiamento di questa tendenza dominante, con una maggiore partecipazione degli uomini nella cura educativa, sarebbe opportuno o meno, e infine testimonia dei modi con cui gli uomini possono essere educatori efficaci, veri mediatori simbolici del processo formativo degli adolescenti. La ricerca porta quindi a raccontare il guadagno di senso esistenziale che anche gli uomini possono riconoscere e apprezzare. Fra le varie ragioni dell’allontanamento maschile dal mondo della cura e dell’educazione, allora forse non vi è solo il fattore economico, l’inadeguato compenso, e la perdita, il declassamento dello status sociale, ma proprio va considerata la gratificazione personale nella relazione, il valore misconosciuto del contribuire alla formazione di giovani esseri umani. Quello che accade e che emerge nelle testimonianze raccolte, nel partire da sé così chiaramente esemplificato nell’intervento dell’insegnante di scuola superiore e esponente dell’associazione Maschile Plurale Alessio Miceli, ma anche nelle narrazioni e nelle motivazioni espresse da altri educatori e da studenti, è che quei pochi uomini che se ne occupano sentono l’aspetto di realizzazione di sé in questa relazione con minori a cui dare il proprio apporto nei termini appunto di una cura educativa.

Queste esperienze, questi vissuti positivi, che contrastano con le gabbie stereotipate dei ruoli di genere, con le immagini predefinite a cui obbligatoriamente uomini e donne dovrebbero attenersi nel loro essere, pur nell’attuale scarsità dei numeri degli uomini in educazione, sono ad esse alternative e esprimono anche una comunicazione proiettata verso il futuro e intesa come responsabilità verso le nuove generazioni: un’affermazione del senso possibile e auspicato della partecipazione più intensa del maschile alla cura educativa, e la dimostrazione della possibilità effettiva che questa trasformazione dei rapporti tra i generi si realizzi, che vi sia un desiderio maschile orientato nel senso di una condivisione della pratica formativa, nel suo essere un onore e un onere, un piacere e un dovere, con il suo diminuito portato di potere ma anche con un persistente carico di responsabilità educativa e insieme un valore in termini di autenticità esistenziale.

Salvatore Deiana