Recensione – Vite che non sono la mia

Emmanuel Carrère

Vite che non sono la mia

Einaudi, Torino 2011, pp. 240, € 20,00

Emmanuel Carrère

Vite che non sono la mia

Einaudi, Torino 2011, pp. 240, € 20,00

Si pensa di solito che il dolore unisca gli individui, che possa accomunare. Se però ci soffermiamo sulle esperienze quotidiane, ci viene facile pensare all’imbarazzo che ci coglie quando facciamo le condoglianze a qualcuno. Cominciamo a pensare a che cosa dovremmo dire, a cercare le parole possibili, per poi finire spesso nel pronunciare banalità, frasi che ci lasciano insoddisfatti, con un senso spiacevole di non essere stati in grado di esprimerci, di poter stare vicini alla persona che ha subito la perdita. A volte ci limitiamo ad un abbraccio timido, impacciato, quasi che il gesto potesse sostituire le parole che non troviamo, che abbiamo faticosamente cercato rinunciando perché ne coglievamo l’insufficienza.

Sembra che le parole non siano in grado di colmare la distanza che ci separa dagli altri, che la suddivisione tra “noi” e “loro” sia incolmabile. “Ci siamo noi, puliti e ordinati, risparmiati, e intorno a noi il cerchio dei lebbrosi, degli irradiati, dei naufraghi regrediti allo stato di selvaggi. Soltanto il giorno prima erano come noi, noi come loro, ma a loro è accaduto qualcosa che a noi non è accaduto e adesso apparteniamo a due umanità distinte”.

Durante le feste di Natale del 2004, Emmanuel Carrère è in vacanza con la famiglia in Sri Lanka. Sono i giorni in cui lo tsunami devasta le coste del Pacifico: tra le migliaia di morti c’è anche Juliette, la figlia di quattro anni di una coppia di francesi a cui Carrère – accidentale testimone dello strazio di una famiglia – si lega. Qualche mese dopo, al ritorno in Francia, un altro lutto: la sorella della compagna dello scrittore – che casualmente si chiama anche lei Juliette – ha avuto una ricaduta del cancro che già da ragazza l’aveva colpita rendendola zoppa. Ha trentatré anni, un marito che adora, tre figlie, un lavoro come giudice schierato dalla parte dei più deboli, e sta morendo. Da questi eventi parte il testo di Carrère, da questo incontro con la perdita che divide: noi siamo ancora qui insieme, possiamo abbracciarci e contarci senza timore. L’evento tragico ha introdotto una cesura, per loro nulla sarà come prima, noi possiamo contare su una continuità con il prima. Di qui partono le “Vite che non sono la mia”, dal poter raccontare, dal poter trovare le parole in una distanza minima ma incolmabile, dal pensare di poter condividere e nel contempo in questo atto misurare una distanza enorme, come quella che misura Philippe, che si ritiene parte dei pescatori grazie alla sua lunga frequentazione di quei luoghi in Sri Lanka, ma si ritrova respinto pur credendosi uno di loro.

L’uso dei tempi nel racconto scandisce questa operazione, al tempo indicativo presente della cronaca si contrappone l’imperfetto della necessità di arrendersi all’accaduto. Ad un passato che non passa, prolungando la sua ombra sul presente, si contrappone una necessità che consegni alla memoria l’evento, operazione imperfetta, che non si può fare senza residui, senza strascichi che come cicatrici segnano di nuovo il presente. Tempi che separando l’evento collocano nell’oggi l’accaduto e nello ieri l’azione interna, consegnando al passato la propria storia vissuta sino a quel momento; si fondono e si sovrappongono nella narrazione, in cui l’uso dei tempi grammaticali cerca di introdurre un ordine possibile, una necessità di poter dire e andare oltre.

Sfuggendo a rappresentazioni retoriche catastrofiste che sconfinerebbero nell’horror, Carrère ci rappresenta l’arrivo dell’onda gigantesca, ma il senso dell’evento ci viene restituito attraverso il silenzio che cala dopo, la ricerca di notizie, il vagare a vuoto, l’essere confinati in assenza di informazioni che possano rendere conto, raccontare, trovare parole. L’evento è muto, è accaduto e lascia ora gli strascichi delle perdite, del dolore che separa.

Al ritorno a Parigi arriva la notizia che Juliette, la sorella della moglie, è ammalata di tumore e sta morendo. Il dolore che sembrava lontano fa irruzione nella vita dell’autore, lo costringe a fare i conti con questa dimensione dell’esistenza, a cercare attraverso la scrittura di colmare questa distanza, a trovare le parole per osare dirne qualcosa: la vita, la morte, l’amore e il dolore come elementi essenziali della nostra esistenza si snodano nel testo. Una storia che cerca di riannodare i fili prima che sia troppo tardi, prima che si perda memoria, che le orme sbiadiscano sino ad essere introvabili.

L’incontro con Etienne, collega ed amico di Juliette da una svolta al racconto, inserisce Etienne e, attraverso i ricordi e le parole di questi, Juliette in una dimensione diversa, ci parla di due magistrati che hanno dedicato la loro vita a combattere, dalla posizione di semplici giudici di pace, in difesa di persone sovra-indebitate e contro il para-strozzinaggio di banche e società finanziarie. Qui il testo ci offre uno spaccato della società francese (e anche della nostra), popolata di figure per cui la giustizia è una chimera, afflitte dall’impossibilità della giustizia nell’incontro con la legalità, dalla loro mancata coincidenza che li consegna ad una solitudine cui i due magistrati cercano di porre rimedio, non tanto come novelli don Chisciotte, ma come soggetti che nell’esercizio della loro professione cercano di coniugare legalità e giustizia, cercano nel labirinto delle leggi la possibilità di ritrovare un equilibrio che possa rimediare allo sbilanciamento di partenza.

La figura di Juliette assume allora uno spessore, attraverso le parole di chi la sta perdendo come amica, di chi per pudore la va a trovare quando sa di saperla sola, ritroviamo il senso di una presenza al mondo per una donna che ha saputo far i conti con la malattia, ha saputo conviverci conscia che l’esito poteva essere questo, ma ha rinunciato a perdere subito, senza clamori, in una quotidianità che è stata segnata da incontri e passioni vitali. Una donna che attraverso il lavoro egli affetti ha saputo andare oltre la malattia, non con spirito titanico e incosciente, ma come desiderio di lasciare un segno nel quotidiano, quel segno che ora si ritrova nella scrittura e viene “raccontato”, “detto” per chi l’ha conosciuta come memoria e a noi che non l’abbiamo conosciuta rimane questo scritto per capire, per interrogarci sulla sua mancanza.

Non è un banale tentativo di rielaborazione del lutto, è un tentativo di andare oltre l’insensatezza del lutto. Sherazade sopravvive perché e finché sa raccontare, l’insensatezza trova nella parola un senso, una direzione che non cancella l’esito, ma va oltre l’esito attraverso le parole dei testimoni, di coloro che possono trovare le parole per dire che anche questo è stato.

Ambrogio Cozzi