Ricordare e ripensarsi nel lavoro educativo

Da ormai quasi un secolo, le scienze umane hanno scoperto – sollecitate dal pensiero filosofico – che raccogliere le storie di vita è un passaggio obbligato per rischiarare mondi e situazioni. Per penetrare più in profondità nelle cause e nelle ragioni di eventi che, con un’osservazione soltanto dall’esterno, con una raccolta – anche la più accurata e sistematica – di testimonianze scritte e orali, non si potrebbero certamente più oltre svelare.

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L’antropologia, la sociologia, la storiografia hanno pertanto innalzato i rispettivi livelli di credibilità descrittiva ed interpretativa quando iniziarono a raccogliere le presentazioni dei protagonisti di esperienze circoscritte e significative; quando presero ad intrecciare tra loro i racconti relativi a specifici fatti e a rappresentazioni di fatti, ricorrendo alla paziente ritrascrizione di quanto ascoltato: quando accettarono di ritenere scientifico anche quanto di più soggettivo ci sia in ogni circostanza inventata, costruita o subita da donne e uomini.
Quando i ricercatori compresero che anche una sola storia non doveva andare perduta, ancorché marginale e all’apparenza
irrilevante agli effetti di un programma d’indagine, o che il punto di vista delle persone contava quanto le procedure più distaccate ed asettiche, si verificò una svolta nel fare ricerca. Da quel momento in poi fu indispensabile darsi un metodo, quindi un rigore, sia nella raccolta che nell’analisi dei resoconti e delle visioni dei tutto personali tanto del bambino già in grado di raccontare, quanto dell’adulto.
L’introduzione, in seguito, nelle pratiche di rilevazione, dei mezzi tecnologici (il registratore prima e la cinepresa o la videocamera in seguito) non fecero altro che trasformare quelle fertili intuizioni, quei primi tentativi di raccolta delle voci o delle scritture (diari, appunti, epistolari, ecc.), in percorsi di studio meticolosi di carattere autobiografico in senso lato.
Infatti, anche se chi si narra non si avvale – nel momento in cui viene avvicinato da qualcuno che si interessa alla sua (e soltanto sua) vicenda – della parola scritta, comunque, tale racconto verrà raccolto e tradotto in scrittura; affinché possa restare nel tempo ed altri possano conoscerla: possano non solo raccoglierne i messaggi, nondimeno tributare il loro omaggio a parole che saranno state dette per sempre.
Ogni storia di vita, allora, non può che essere stimata per quello che ha da dirci all’insegna di un assoluto rispetto e sospensione del giudizio.
Ci consente di entrare in uno spazio della memoria, in un altro tempo, in fatti trascurati che rinascono più interessanti ed esemplari.
Il metodo autobiografico, di conseguenza, raccoglie per conoscere e rispettare quale che sia il sapere individuale comunicato: per collegare in seguito fra loro immagini e punti di vista e farli dialogare ìnsieme, onde rendere sempre polifonica la narrazione di una stessa esperienza lunga o breve.
Insomma, per leggere la presenza dei molti nell’uno, la coralità nella singolarità. Fin qui abbiamo tentato di tracciare i presupposti metodologici di un approccio che sì rivela quanto mai fertile, ed unico, quando si vogliano rispettare opinioni e vissuti. Quando lo scopo del ricercatore sia quello di far rivivere le esperienze attraverso la coscienza di chi ne è stato artefice o spettatore; il quale, ricordando, sollecitato da specifiche domande, rivisiterà il passato con occhi nuovi; si interrogherà raccontandosi forse come non mai prima di allora gli era accaduto di interrogarsi e, di conseguenza, si scoprirà ancor più protagonista della sua storia.
Inoltre, da “testimone privilegiato”, scelto per gli scopi della ricerca, si trasformerà lui stesso (o lei) in un ricercatore o in una ricercatrice.
Se fin qui difatti abbiamo parlato dell’importanza sociologica o storica della prospettiva autobiografica, ci è impossibile non accennare a quanto accade nell’interiorità segreta di chi narra; alle domande che, ben al di là di quelle formulate dal ricercatore, si affollano nella mente della persona invitata a rievocare, a rivisitare luoghi, momenti, persone, accadimenti: con l’emozione che ogni autobiografo orale o scrittore ha conosciuto e conosce.
In tal modo, la storia di vita diventa occasione di riflessione personale e un appuntamento formativo.
Non va ignorato che un colloquio che ponga al centro la vicenda umana di una persona generi in lei processi cognitivi di natura riapprenditiva.
E’ sufficiente che il ricercatore intraprenda il suo compito dalle domande: “Mi parli della sua vita ……” oppure “Mi racconti di sè…” e, subito, nel pensiero che fa l’appello dei ricordi, si fanno strada altri pensieri, altre sensazioni, altre evocazioni che al ricercatore non vengono comunicate.
Costui o costei svolgono, a loro modo, una funzione educativa. Se per educazione intendiamo, ancora, quella attività antichissima che consiste nel far riaffiorare quel che non si sapeva di sapere, nel riportare alla luce quanto si riteneva obliato e, soprattutto, nel suscitare un’altra, più matura, consapevolezza di quanto si è fatto o subito, conosciuto o ignorato, condiviso o taciuto.
Anche nei contributi specifici raccolti in questo numero di Pedagogika il doppio volto dell’indagare con l’autobiografia e al contempo formare attraverso essa, si è puntualmente ripresentato.
Si sperimenta che cosa vuole dire essere autobiografi rispondendo a domande che concernono la propria esperienza di vita. Si prova in prima persona ciò che significa essere narratori ed “eroi” della propria narrazione. Si scopre ciò che implica il narrare rispetto al semplice descrivere e ciò che vuol dire rendere visibile, rispecchiandosi nella propria storia, un percorso esistenziale quando, soprattutto, si abbia la possibilità di rileggere le proprie parole affidate ad un magnetofono o ad un diario. Ci si riaccosta, sempre in tal modo, al proprio narratore che, scavando nei ricordi, ricollega, seleziona e valorizza con lo stile noto ad ogni scrittore di professione. Con la scrittura delle proprie storie si impara che cosa può intendersi per intelligenza introspettiva, per racconto retrospettivo, per coincidenza tra autore, narratore, personaggio. E ciò si realizza quando chi ricorda (l’autore) racconta, con i mezzi di cui la capacità narrativa dispone, il dispiegarsi logico di una storia che, per essere tale, vive di antefatti, fatti, svolgimenti, conclusioni.
Di quel movimento mentale che colloca ogni storia di vita in uno scenario, in un’epoca e, talvolta, in un’epopea.
Ciò si compie sempre quando la singola vicenda si inserisce in un paesaggio di esperienze, obbiettivi e progetti umani che testimoniano, nel loro divenire, di uno sviluppo sia del singolo, sia del mondo nel quale ha creduto e al quale ha appartenuto. L’ulteriore condizione, senza la quale l’autobiografia non si offre all’ascoltatore o al lettore, è quella quindi che rende gli autori anche personaggi letterari.
Se i racconti delle persone diventano così esemplari da apparirci paradigmatici; se le singole voci che hanno narrato ricostruiscono se stesse e, al contempo, sono scenario dove si va e viene tra primi piani e sfondi, ecco che – giocoforza – il lavoro sulle storie di vita si tramuta in rappresentazione di un universo che ha bisogno di altri mezzi per parlarci.
Non è sufficiente il riferimento a fatti ed accadimenti. E’ necessario ammettere che ogni autobiografia – come sostiene Philippe Lejeune – poggia su due differenti codici: si avvale di una modalità referenziale reale e di una modalità letteraria che non si accontenta di riferire dei fatti, ma ha bisogno di trasfigurarli per comunicare con linguaggio poetico quel che la realtà suggerisce. Nei luoghi più diversi del lavoro educativo, dove sempre più pressante si va delineando la necessità di cambiare senza smarrire la propria identità e la propria storia professionale, occorre fare scrittura di sé per fare pensiero. Attraverso la riflessione, la riprogettazione, l’analisi delle proprie motivazioni in forme ora narrative, ora volte a produrre sintesi di ciò che si è fatto e si può fare insieme per migliorare non solo come professionisti, continuiamo a crescere e facciamo crescere.
Infatti ogni attività della mente e della parola tesa a risvegliare il senso di ciò che si fa ricade sul nostro essere adulti e adulte e sulle nostre responsabilità educative. Da quanto detto, allora, è importante rivedere i criteri della formazione in servizio trasformandola sempre più in “circoli di autoformazione” dove il metodo autobiografico prevalga.
Dove si possa vivere, tra colleghi, il piacere di stare insieme e di collaborare assumendosi la responsabilità di fare “da sol” e dove, l’esperto della formazione sia soprattutto un consigliere e un facilitatore di apprendimento. Le professioni educative, così sottoposte a stress, a duri tirocini emotivi e a momenti di difficoltà, ma anche attraversate, ancora da tanta passione per la 66 missione” pedagogica che le anima, hanno bisogno di trovare nella valorizzazione della memoria, della quotidianità, dei vissuti emotivi e cognitivi un loro spazio per raccontarsi e lasciare traccia di sé, per gli altri.