Riordino dei cicli scolastici e nuovi curricoli
Si è accesa una discussione molto aspra negli scorsi mesi, dentro e fuori il Parlamento, all’interno della campagna elettorale, sul Riordino dei Cicli scolastici. Non accadde quando fu approvata dal Parlamento, nel Febbraio 2000, ma dopo che il governo ne varò l’applicazione sulla scorta del lungo lavoro di elaborazione di un’apposita commissione di 270 membri, insegnanti, pedagogisti, esperti delle diverse discipline, raccolto nel documento di fattibilità e, successivamente, nella proposta di nuovi curricoli. Cito questa sfasatura temporale perché è significativa per comprendere il contesto di un dibattito in cui il “merito”è sembrato, via via, sfuggire a favore, prima, dell’intreccio con le rivendicazioni sindacali degli insegnanti e, successivamente, con l’enfasi di alcuni tratti della campagna elettorale.
L’esempio lampante è quanto è successo in Consiglio Nazionale, chiamato ad esprimere parere sui nuovi curricoli: alcuni rappresentanti di organizzazioni professionali, invece di entrare nel merito, di cercare semmai le necessarie mediazioni e garanzie, hanno messo in discussione la legge di riordino in toto, chiedendone il blocco e procedendo ad un parere formale in questo senso, anche in assenza del numero legale.
Costoro, in sintonia con molti esponenti del Centro-destra, che del blocco della legge hanno fatto uno dei principali punti programmatici, sostengono tesi diverse, spesso tra loro contradditorie, ma che possono essere ricondotte sostanzialmente a due:
– la riforma danneggerebbe gli insegnanti e sarebbe quindi da loro avversata;
– la riforma dequalifica la scuola italiana.
Cerchiamo di affrontare la seconda questione. Noti opinionisti dalle colonne di autorevoli giornali hanno sostenuto per mesi che la scuola italiana era allo sfascio e i suoi insegnanti tutti ignoranti e dequalificati, poi, improvvisamente, la nostra scuola era diventata la migliore del mondo e riformarla, modificandone l’organizzazione in cicli, era pura follia.
Perchè un ciclo di base unificato, che superi l’artificiosa frattura tra elementari e medie, con un curricolo unitario nazionale essenziale, arricchito e declinato dalla programmazione delle nuove scuole autonome, dequalificherebbe la formazione dei nostri ragazzi? Perché sarebbe dequalificante far concludere il ciclo di studi a diciotto anni, con un percorso scolastico di 12 anni, come nella maggior parte dei Paesi Europei? O perché ancora, non sarebbe qualificante concludere l’obbligo con un biennio nelle superiori e la possibilità di muoversi da un sistema all’altro capitalizzando le competenze acquisite? Ho letto e ascoltato ben poche risposte rispetto a questi quesiti, sostituite invece da slogan generici o, da veri e propri vaneggiamenti di chi descrive la nostra scuola elementare come quella della “maestrina dalla penna rossa”, dimostrando con ciò di non mettere un piede in una scuola italiana da quarant’anni, e di non conoscere due o tre riforme importanti che l’hanno, grazie a Dio, profondamente rinnovata.
La realtà è che la scuola italiana, che pure presenta tanti punti di qualità, a differenza di quanto sostengono gli stessi che ne difendono l’intangibilità,soprattutto ad opera di un importante lavoro di innovazione della didattica condotto dagli insegnanti negli ultimi vent’anni, presenta molti punti di debolezza: alta dispersione tra i quattordici-quindici anni, scarso numero di diplomati, una certa ripetitività dei contenuti che comporta uno scarso incremento di competenze tra i dieci e i tredici anni, una scarsa presenza di linguaggi e tecnologie proprie della contemporaneità, un insegnamento prevalentemente frontale, soprattutto nella scuola media inferiore e superiore, e quindi poco spazio per la partecipazione alle scelte dei ragazzi… In sintesi una scuola che non offre al maggior numero di ragazze e ragazzi competenze e opportunità pari a quelle dei loro coetanei europei. A questo s’è cercato di porre riparo con una grande azione riformatrice che ha cercato di incidere a diversi livelli. Non ho lo spazio per esaminarli, ma voglio almeno richiamare l’autonomia scolastica, perché è essenziale ricordare che saranno le nuove scuole autonome, i loro insegnanti e dirigenti, ad applicare la riforma con grande libertà e con un protagonismo totalmente nuovi nella storia della scuola del nostro Paese. Una scuola segnata per troppo tempo da una gestione burocratica e centralista. Quindi, da una parte c’ è un disegno riformatore, discutibile e modificabile, come tutto in democrazia, per altro, la stessa legge di Riordino e i nuovi curricoli prevedono la verifica periodica da parte del Parlamento. Dall’altra parte che cosa c’è? O la tesi che “tutto va ben, madama la marchesa” e quindi resta tutto com’è, onestamente difficile da sostenere, oppure un’altra proposta di Riforma e, personalmente conosco solo quella presentata da Forza Italia: quattro più quattro più quattro, cioè otto anni, invece di nove, di obbligo scolastico che coincide con la scuola di base, suddivisi in due cicli separati di elementari e media, ciascuno di quattro anni, e altri quattro anni di scuola superiore. Naturalmente questa proposta è accompagnata da un provvedimento più, diciamo così, strutturale, noto come il “Bonus” alle famiglie su cui tornerò più avanti.
Veniamo invece alla prima tesi sostenuta dagli avversari della riforma: danneggerebbe gli insegnanti che quindi non la vogliono. Io penso invece che gli insegnanti, non solo non ne siano danneggiati, ma che abbiano finalmente una grande occasione di valorizzazione professionale e di ancoraggio concreto a quel profilo europeo di docente di cui si è molto parlato negli scorsi mesi, sia rispetto alle retribuzioni sia allo stato giuridico e professionale. Certo, gli insegnanti non sono stati sufficientemente coinvolti nelle scelte di questa Riforma, com’era invece opportunamente avvenuto per l’Autonomia, forse per i tempi ristretti, ma questo errore ha creato, più che ostilità, disorientamento e spaesamento nella categoria. Chi, come il CIDI di Milano
ha dedicato le attività di tutto l’anno formativo alla Riforma e ai nuovi curricoli, avendo modo di confrontarsi con gli insegnanti, sa che in realtà non c’è da parte degli insegnanti nessuna ostilità preconcetta, anzi c’è attesa e voglia di cimentarsi. D’altra parte, la Riforma stessa raccoglie e sistematizza tanta parte del loro lavoro e delle sperimentazioni fatte in questi anni. Una per tutte: gli istituti comprensivi, che quest’anno sono il 30% del totale. Si tratta di istituti che prefigurano una parte di riforma raggruppando elementari e media, spesso anche scuole per l’infanzia, con un unico dirigente, un unico collegio docenti che elabora un unico progetto di offerta formativa cercando già di superare la separatezza artificiosa per cicli di età. Alcuni hanno progettato percorsi dai tre ai quattordici anni per le abilità logico-linguistiche e logico-matematiche, altri hanno praticamente abolito l’esame di quinta, altri si “prestano” gli insegnanti tra cicli diversi per particolari insegnamenti o attività, tutti lavorano molto sugli anni di “raccordo”per valorizzare le competenze dei ragazzi ed evitare ritardi e dispersione. Insomma un pezzo di riforma è già in cammino, senza traumi e anzi, con esperienze largamente positive. Ed è proprio nell’approccio graduale, nel piano di formazione che accompagna la riforma, nel monitoraggio attento dei processi e nelle scelte relative alle garanzie contrattuali e sindacali, che gli inseganti avrebbero trovato le rassicurazioni che giustamente chiedevano.
Il condizionale è d’obbligo perché oggi, dopo il risultato elettorale, ci si interroga su che cosa avverrà della Riforma.
Io mi auguro che, nonostante le roboanti affermazioni, prevalga il rispetto per la scuola, per i ragazzi, le loro famiglie e il lavoro degli insegnanti, senza traumatici “ribaltoni” che la nostra scuola non sopporterebbe. Bisogna però sapere che c’è chi scommette sulla irriformabilità, sulla resa della scuola pubblica, a favore del mercato della formazione, in cui la formazione stessa, anche per i giovani è un fatto “privato”, che riguarda esclusivamente le scelte educative delle famiglie. Mercato e scuole di “tendenza” – ideologica, religiosa e, perché no, etnica, – sono le prospettive che la scuola italiana rischia di trovarsi di fronte. Per non parlare della devastante proposta di legge 3414, primo firmatario Berlusconi, con la quale si vorrebbe introdurre il buono scuola: il Bilancio della pubblica istruzione verrebbe suddiviso per il numero di alunni i quali riceverebbero un buono da spendersi in qualsiasi scuola, pubblica o privata. La scuola stessa, se privata, può naturalmente avere rette più alte del buono e le famiglie copriranno la differenze, mentre tutte le scuole attingeranno liberamente gli insegnanti su chiamata, senza motivazione, da un unico albo di abilitati. Altro che libertà d’insegnamento e professionalità docente! In questo scenario è facile provedere una progressiva dequalificazione della scuola pubblica, considerata, come per altro ci ha appena detto la CEI, sussidiaria rispetto all’iniziativa dei privati, nonchè il diffondersi di scuole di “tendenza”, che sono la cosa che considero più preoccupante dal punto di vista della formazione alla cittadinanza.
Penso che sia soprattutto questo il fronte di intervento di associazioni e realtà partecipative del mondo della scuola, come il CIDI: la necessità di un richiamo continuo alla scuola “secondo Costituzione”. Non penso solo all’articolo tre che garantisce l’uguaglianza delle opportunità, senza distinzioni di sesso, religioni, razza, appartenenza sociale, penso anche all’idea di democrazia e di cittadinanza che vi sottende e al ruolo che viene assegnato alla scuola da questo punto di vista. Non c’è contraddizione tra una scuola più efficiente nel suo funzionamento, più efficace nei suoi risultati formativi, più vicina nei linguaggi e nelle tecnologie alle esigenze della contemporaneità, ed una scuola che conservi la propria vocazione di ambiente pedagogico che aiuta la crescita della socialità e della cittadinanza, dove la diversità dei singoli e dei gruppi è visibile, ed il confronto con essa è ricchezza e valore per la convivenza, la tollerenza e la libertà, patrimonio irrinunciabile della nostra cultura nazionale. Ma il richiamo alla scuola “secondo Costituzione” riguarda anche un altro terreno, quello della libertà d’insegnameto. Abbiamo già avuto un episodio, troppo frettolosamente archiviato come uno “scivolone”, da parte del Presidente Storace a proposito dei libri di testo di storia o del Presidente Formigoni, che rivendicava alla Regione Lombardia il Curricolo locale, competenza delle singole scuole. Non è certo il miglior viatico per la libertà d’insegnamento!.
*Segreteria CIDI Milano.