Sacralità e potere

Va eliminata la sacralità come funzione del potere, del dominio e della espropriazione dell’uomo.

Questo imponente ritorno del sacro ha creato meraviglia e scompiglio. In realtà il sacro non ci ha mai abbandonato. Nel nostro Occidente aveva cambiato sembianze e nome ma non sostanza. Se sacro definisce in termini di separazione o di sottrazione il dominio gestito da una casta, come normalmente s’intende, allora bisogna dire che il sacro è sempre stato la nostra gabbia. Nel medioevo le caste erano due, la nobiltà e il clero. Formalmente una era consacrata a dominare i corpi e l’altra le anime. In realtà le loro rispettive sacralità si alimentavano reciprocamente. Con l’epoca moderna le vecchie caste sono decadute, declassate a folklore dove resistono, ma hanno consegnato il testimone a nuove caste che hanno preso il loro posto nella gestione del sacro. La cosa relativamente nuova sta nel fatto che la religione dell’Occidente, il cristianesimo, sta riciclandosi come religione secolare. A questa nuova multinazionale del sacro l’attuale sistema del dominio sta delegando la gestione dell’etica, dei valori, del senso.

Un nuovo incontro col mistero e col sacro oltre la mediazione della casta.

Come si può vedere da questi pochi accenni, l’esodo dalla casta non riguarda solo i religiosi. Interessa tutti perché il sacro ce lo portiamo dentro e la casta c’impedisce di riconoscerlo e ce ne sottrae la gestione, qualunque sia la maschera assunta dalla casta, la maschera religiosa o la maschera secolare o la maschera religiosa riciclata come secolare. La casta ce lo rende estraneo, lontano, separato e di conseguenza ci rende estranei a noi stessi, cioè a quella parte di noi che soggiace alle consapevolezze acquisite, la parte di noi inesplorata che è intrecciata con la parte inesplorata del Tutto chiamata anche “mistero”.

Il sogno che cova in molti, più o meno consapevolmente, è un nuovo Sinai, cioè un nuovo incontro col mistero e col sacro, che testimoni e riveli la sacralità di tutto il creato e di ogni donna e uomo senza più bisogno della separatezza del sacro reificato e della sua gestione da parte della casta. Un nuovo Sinai che faccia incontrare e intrecciare e contaminare il sacro con la vita quotidiana.

E’ il sogno espresso ad esempio da padre Ernesto Balducci, con la forza e la chiarezza che gli erano consuete, nella Tavola rotonda su La Violenza del sacro nell’ambito del Convegno delle comunità di base su La Laicità svoltosi a Firenze nel 1987. “Io sono convinto – egli disse – che non ci può essere cultura di pace se non con la eliminazione del sacro: la fine del sacro è la fine della cultura di guerra”. Pronuncia una frase così netta riconoscendo che l’affermazione ha un carattere assertorio per la brevità del tempo a sua disposizione. Poi Balducci spiega che il “sacro” è una realtà complessa. Non va identificato con uno spazio determinato. Il sacro non va reificato. Il sacro è la percezione del relativo, il bisogno di trascendere il relativo in cui siamo immersi. Il sacro quindi è la funzione critica della società. Esso richiede una gestione profetica, una consapevolezza che parta dal basso, dal terreno della vita. Un sacro così inteso e vissuto è il sogno del figlio di un minatore dell’Amiata, che approdato a Firenze nella comunità dei padri scolopi e condotto in un primo tempo a intrecciare rapporti con i salotti della élite intellettuale e con le stanze del potere aveva poi sperimentato il suo “esodo” (Diario dell’esodo è il titolo di uno dei suoi libri più significativi) come ritorno alle radici della sua origine popolare. Negli ultimi tempi della sua vita, conclusa tragicamente in un incidente stradale nel 1992, chiedeva di non esser più chiamato “padre” in omaggio a un approdo di laicità coerente con le sue maturazioni intellettuali. Se avete bisogno di un cattolico – cito a memoria una sua decisiva affermazione – per completare il ventaglio delle appartenenze, non cercate me. Io non sono che un uomo. Ciò che va eliminato – spiega ancora Balducci – è il sacro reificato, sequestrato dal potere, separato dalla vita, collocato in spazi e luoghi e gesti e riti determinati, gestito da persone sacralizzate. E’ il sacro che dalla rivoluzione del neolitico in poi ha assolto la funzione di integrare la forza dentro le regole della ragione. Non di eliminare la forza ma di sacralizzarne e regolarne l’uso come cultura: cultura di guerra, momento dirimente dei conflitti sia interni che esterni alla città. Va eliminata la sacralità come funzione del potere, del dominio e della espropriazione dell’uomo. E’ proprio questa eliminazione del sacro reificato l’esperienza che fecero le comunità del primo annuncio del Vangelo. I primi cristiani vivevano al di fuori delle strutture sacrali: celebravano l’eucaristia in casa, non nel tempio, non avevano sacerdoti, i loro ministri erano presbiteri, cioè anziani, rifiutarono le parole sacrali. Il loro momento espressivo era la cena; non c’erano fra di loro gerarchie ma ministeri, quindi anche questa struttura sacrale della gerarchia non esisteva. La loro collocazione nella società era di tipo “laico”. Quando è avvenuto l’inserimento delle comunità cristiane negli spazi del potere c’è stata la sacralizzazione della chiesa. Il Cristianesimo si è inserito nei quadri della cultura sacrale ed ha assolto la funzione di religione della società. E la religione in una società ha sempre il compito di portare il sigillo della sacralità alla violenza della società. Il Cristianesimo è divenuto il sigillo della sacralità, della cultura di guerra. E rimane tale anche quando condanna a parole la guerra. La sua funzione di sacralizzazione della violenza è strutturale, va oltre le parole e i documenti.

Può esistere un “sacro” che non sia separato dalla vita e che non preveda la mediazione della casta?

Si apre qui una contraddizione intrigante: come può avvenire l’incontro diretto del sacro con la vita se il sacro è essenzialmente separazione?

Umberto Galimberti dedica molti suoi scritti proprio a indagare una tale contraddizione e in particolare il libro Orme del sacro (Feltrinelli, Milano, 2000).

«Sacro» – egli scrive nella introduzione – è parola indoeuropea che significa «separato». Dal sacro – argomenta Galimberti – l’uomo tende a tenersi lontano, come sempre accade di fronte a ciò che si teme, e al tempo stesso ne è attratto come lo si può essere nei confronti dell’origine da cui un giorno ci si è emancipati. Questo rapporto ambivalente è l’essenza di ogni religione che, come vuole la parola, recinge, tenendola in sé raccolta (re-legere), l’area del sacro. Al contatto con il sacro sono preposte persone consacrate e separate dal resto della comunità cioè i sacerdoti. Le religioni mitiche assolvevano al compito di gestire il rapporto dell’uomo col sacro socchiudendo appena la porta dietro la quale si aggira la violenza dell’indifferenziato e del caos cioè del mistero, quasi che inoculando un po’ di caos si potesse resistere al Caos. Il cristianesimo invece, con la incarnazione di Dio, pone le premesse della rimozione del sacro o, se si vuole, della sacralizzazione di tutto. Non c’è più un tempo sacro e un tempo profano, un tempo di Dio e un tempo dell’uomo, ma un unico tempo, in cui sia Dio sia l’uomo concorrono alla redenzione del mondo. Ciò significa che tutto il tempo è stato sacralizzato o, che è lo stesso, che tutto il sacro è stato «profanato». Dando un senso al tempo, orientando il tempo verso la redenzione definitiva, il cristianesimo ha istituito il tempo come storia, storia della salvezza. Ma affievolendosi poi la fede religiosa, il senso del tempo da storia della salvezza è diventato teoria del progresso dove il tema della redenzione viene recuperato nella forma di liberazione”. Galimberti cita a questo proposito Schlegel il quale afferma che «Il desiderio rivoluzionario di realizzare il regno di Dio è il punto elastico di tutta la cultura progressiva e l’inizio della storia moderna». Storia secolarizzata quanto si vuole ma sostanzialmente cristiana, sia che si tratti dell’illuminismo, sia del socialismo, sia del liberismo.

Sostanzialmente a me sembra che la posizione di Galimberti si avvicini assai a quella di René Girard espressa sia nel classico La violenza e il sacro (tr. it. Adelphi, Milano 1980), sia più recentemente in Vedo Satana cadere come la folgore (tr. it. Adelphi, Milano 2001) e Miti d’origine. Persecuzione e ordine culturale (tr. it. Transeuropa, 2005). “La Resurrezione di Cristo – scrive l’antropologo francese in Vedo cadere…corona e porta a termine il sovvertimento e la rivelazione della mitologia, dei riti, di tutto ciò che assicura la fondazione e la perpetuazione delle culture umane. (…) L’elaborazione mitica si fonda su un’ignoranza, anzi su un’inconsapevolezza persecutoria che i miti non arrivano mai a identificare, dal momento che ne sono dominati”. Ecco la necessità di un uomo-Dio. Egli pur essendo pienamente uomo è di natura divina e trascende l’umanità e quindi è immune al contagio mimetico. L’Uomo-Dio può così osservare il meccanismo vittimario sia dall’interno che dall’esterno in modo tale da svelarne la violenza e l’irrazionalità insensata. I Vangeli rivelano finalmente, per la prima volta e per sempre, il meccanismo vittimario. Essi spezzano il circolo vizioso del sacro.

Chi si avvicina al problema del sacro non può ignorare le elaborazioni filosofiche e antropologiche di chi al sacro ha dedicato la vita e la ricerca. Ma un Girard e un Galimberti mi sembra che concedano troppo alla ideologia. In particolare per affermare e rendere credibile la loro tesi confondono teologia, metafisica, filosofia e storia. Confondono in particolare il Gesù storico col Gesù dei Vangeli canonici e col Cristo della teologia e del dogma che si è affermato come ortodossia cristiana e cattolica.

Di fatto del Gesù storico non si sa quasi nulla. Ma è accertato ormai che le più antiche testimonianze scritte non sono i Vangeli canonici. Sono le tradizioni dei cosiddetti “loghia”, cioè dei detti di Gesù. Che prima sono stati tramandati oralmente nell’ambiente palestinese e poi sono stati scritti, tradotti in greco e diffusi nelle comunità cristiane del primo secolo. Essi sono il Vangelo prima dei Vangeli. Gli autori dei Vangeli di Matteo e Luca conoscevano quel proto-Vangelo e se ne servirono quando composero i loro Vangeli negli anni ottanta e novanta del primo secolo. Poi il Vangelo dei detti di Gesù è andato perso perché gli scribi smisero di farne copie in conseguenza della fissazione autoritativa del canone che stabiliva ciò che si doveva e ciò che non si doveva usare per scopi comunitari. E’ stato recuperato o riscoperto nel 1838, attraverso un delicato lavoro di filologia, incastonato nei Vangeli canonici. E’ stato pubblicato solo quest’anno in italiano dalla Queriniana in un volume a cura di un grande specialista, James M. Robinson: I detti di Gesù. Le notizie qui riportate sono tratte dalla prefazione dello stesso Robinson. Perché è importante questo “Proto-Vangelo”? Perché l’immagine di Gesù che se ne ricava è molto diversa da quella fissata nelle narrazioni canoniche. E soprattutto è diversa l’immagine che si ricava del cristianesimo nascente. Non ci sono che nel sottofondo racconti di miracoli e soprattutto non c’è notizia dei fatti della nascita, della morte e della resurrezione. L’accento è posto non sulla persona di Gesù ma sul messaggio e sul movimento messianico di impegno per la realizzazione del “Regno di Dio”. Il quale tradotto in termini moderni si potrebbe definire come movimento per un “mondo nuovo possibile”. Il Gesù del “Proto-Vangelo” è soprattutto un “figlio dell’uomo” che alla lettera può significare “Figlio dell’umanità”, parte di un movimento storico di liberazione radicale. C’è in quel documento solo un’eco flebile del processo di mitizzazione della persona di Gesù che è appena agli inizi e che però presto sfocerà nella divinizzazione. E’ assente l’essere divino-umano, il dio incarnato che si sacrifica per redimere l’umanità peccatrice. Il quale invece sarà poi offerto soprattutto dalla Chiesa di Paolo al mondo pagano avido di sacro e di salvezza. Il Cristo morto e risorto costituirà la carta vincente del cristianesimo. Costantino lo utilizzerà per stabilizzare il suo potere e l’Impero. Sarà il trionfo della nuova religione. Un trionfo però contestato da persone, anche credenti, lungo tutta la storia, quale tradimento e devitalizzazione del Dna generativo dell’esperienza evangelica. Contestato in qualche modo perfino in certi settori dei massimi livelli delle gerarchie ecclesiastiche. Prendiamo un esempio attuale: lo scontro aperto, per noi quasi incredibile, avvenuto nel 1999, documentato dalla stampa francese, fra il cardinale Joseph Ratzinger, ora papa, allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e il cardinale Pierre Eyt, membro della stessa Congregazione, delfino di Ratzinger, oltre che arcivescovo di Bordeaux. Ratzinger il 27 novembre 1999 tiene una conferenza alla Sorbona su La verità del cristianesimo. La sintesi del suo discorso, fine e articolato, può essere individuata nella conclusione: “Il tentativo di restituire, in questa crisi dell’umanità, un significato globale alla nozione del cristianesimo come religio vera, …il suo contenuto, oggi come un tempo, dovrà consistere, più profondamente, nella coincidenza tra amore e ragione … la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi costituiscono il fondamento vero e il fine di tutto il reale”. Faccio notare che proprio questa è la interpretazione che del cristianesimo dà il nostro Girard. Proseguiamo nella incredibile polemica fra cardinali. Il card. Eyt non ce la fa a tacere. La posta a suo avviso è troppo alta. Prende la penna e scrive un articolo per il quotidiano cattolico francese La Croix. “Riconosco – egli dice – che non è consueto che un cardinale membro della Congregazione della Dottrina della fede (Eyt stesso, ndr) comunichi attraverso la stampa le riflessioni ispirategli da una conferenza del cardinale prefetto. Sono molto riconoscente al card. Ratzinger di aver sottolineato l’identificazione del Logos e dell’ ‘amore’ in san Giovanni … La mia domanda prende le mosse da quella che io interpreto come un’omissione, una dimenticanza… non so bene… di Ratzinger. Egli non menziona mai il ‘diritto’. Ora, sotto ogni aspetto, il diritto era una nozione centrale sia nella romanità antica sia nel cristianesimo primitivo. Ed è noto che il diritto penale romano ha accompagnato l’evoluzione del cristianesimo antico. Dapprima quest’ultimo è stato vittima del diritto della spada (le persecuzioni); poi i cristiani, certo non senza discussioni, si appellarono al ‘braccio secolare’ contro i pagani, contro i barbari, contro gli eretici. Il decreto dell’imperatore Teodosio del 27 febbraio 380, per citare il documento più emblematico dell’epoca, stabilisce che ‘solo chi segue papa Damaso (366-384) può attribuirsi il nome di cristiano cattolico’. Gli altri incorrono ‘già su questa terra nel nostro [dell’imperatore] castigo, secondo la decisione che noi abbiamo tratto dall’ispirazione celeste’. Se dunque nell’antichità vi è stato un legame indissolubile tra ‘natura, uomo, Dio, ethos, religione’, per essere fedeli alla storia, si sarebbe dovuto collegarvi anche il diritto e il diritto nella sua forma coercitiva e penale. Così la ‘razionalità’ evocata dal card. Ratzinger ottiene una figura più completa. E il nostro rapporto con l’antichità cristiana diviene assai più complesso di quanto la dimostrazione non lasci supporre, come pure diventa più problematica quella che Ratzinger definisce ‘la forza di convinzione del cristianesimo dei padri’ ”. Fin qui la citazione della nota di Eyt che apre orizzonti di critica del sacro trionfante e di laicità dove meno potremmo aspettarcelo.

Questa polemica è molto interessante ai fini della nostra indagine sul senso del sacro in Girad e in Galimberti. Essi hanno spunti molto profondi e utili ma tutti giocati sulla mitizzazione e divinizzazione di Gesù. Per loro esiste un solo Gesù: il Dio fatto uomo. Non hanno presente la differenza, fra il Gesù storico, il Gesù del Proto-Vangelo, il Gesù dei Vangeli canonici, il Gesù di Paolo, il Gesù imposto dal diritto coercitivo e penale di Costantino e Teodosio, il Gesù dell’ortodossia dogmatica giunta fino a noi.

Galimberti, però, a differenza di Girard ma piuttosto mi sembra sulle orme di Balducci pur senza giungere alla radicalità dello scolopio, fa un passo ulteriore nella sua elaborazione. Egli vede nell’oggi quasi un crinale apocalittico che induce a rivedere il rapporto fra il cristianesimo e il sacro. «Giunti al punto in cui la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere, il sacro, che la nostra cultura ritiene di aver confinato nella preistoria, torna a farsi minaccioso, e per giunta a nostra insaputa, senza che noi lo si possa riconoscere, perché del sacro abbiamo perso non solo l’origine, ma anche la traccia che segnava il limite oltre il quale era prudente non avventurarsi»… Siamo divenuti orfani del sacro perché il cristianesimo «… producendosi in discorsi che ogni società può fare tranquillamente da sé (i discorsi sull’etica, ndr), lascia la gestione della notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli che, privi come sono di quelle metafore di base dell’umanità che hanno fatto grandi le religioni storiche, producono quelle premesse vuote, ma più spesso tragiche, che sono il nutrimento di quella religiosità da New Age che viene incontro a quel nucleo di follia che ciascuno di noi avverte dentro di sé come non interpretabile, non culturalizzabile, non leggibile. Per capire questa dimensione religiosa … è necessario che il cristianesimo compia un ‘esodo’ da se stesso e partecipi non solo culturalmente ma anche psicologicamente a queste diverse visioni del mondo dove un dio, dimenticato dalla pratica del cristianesimo storico, agita le menti».

Galimberti giunge a una conclusione che mi sembra esprimere ancora una certa nostalgia del sacro reificato e separato e della sua gestione da parte della religione di chiesa.

Ritengo invece che il problema della separatezza del sacro non si risolva affidandolo di nuovo alle religioni, quasi come in una riedizione dello scambio ormai anacronistico fra poteri laici e poteri religiosi: voi – dice al clero il sistema di dominio secolare – sacralizzate la nostra gestione dei corpi e della spada e noi vi affidiamo il mistero e i fini ultimi, cioè il sacro. Forse non c’è una soluzione definitiva ma un’indicazione secondo me corretta e attuale è quella che ha animato il Convegno fiorentino delle Comunità di base sulla laicità e sulla violenza del sacro, che si può sintetizzare distinguendo da un lato il sacro come reificazione violenta del mistero e dell’inesplorato, operata dal potere, e dall’altro lato il sacro come miniera profonda e fonte nascosta di inedito che soggiace alla razionalità, alle provvisorie conquiste umane, alle consapevolezze acquisite o “edite”. Questo secondo universo del sacro è sì “separato” ma non dalla vita di cui invece è l’anima segreta. Allora in che senso è separato? In quanto è “altro” rispetto alla cultura dominante e come riserva di criticità rispetto a tutte le sacralizzazioni delle nostre provvisorietà. Infine è separato come il sogno dalla realtà diurna.

Possiamo assumere come luogo simbolico di questo nuovo Sinai il crocicchio, la strada, la piazza, insomma ciò che si trova quando si esce dalle reificazioni del sacro in tutte le sue dimensioni, cioè dalle mura, dalle porte blindate, dai sacri recinti della casta?

Lavori in corso

Balducci, da buon intellettuale, usava l’indicazione “dobbiamo”: dobbiamo liberarci dalla cultura del sacro perfino nella nostra vita di fede. Noi da gente della strada abbiamo un’altra indicazione: “lavori in corso”. Stiamo parlando dell’esperienza delle comunità di base e di altre simili. Lavoriamo per liberarci e liberare per sanarci e sanare. E non lavoriamo solo nelle regioni della consapevolezza. Lavoriamo anche oltre le frontiere delle consapevolezze e perfino oltre i limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri e soprattutto della gente umile, della gente da sempre repressa, da sempre inginocchiata a chiedere la salvezza dall’onnipotenza, incapace perfino di sognare, ai confini del silenzio di donne e uomini dove l’inconscio si apre all’ignoto. Ai confini di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno, cova nascite di mondi nuovi. Ai confini di quei silenzi che dotti e maestri e sacri pastori ignorano per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente razionalità necrofila, “verità vera”, razionalità senza mistero. Lavoriamo per far emergere e sanare traumi spirituali e morali che la mente e tutto il corpo hanno patito perfino a loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della speranza, spavento senza parola, vuoto dell’anima. Lavoriamo per passare dalla perdita inconsapevole e dall’angoscia talvolta senza nome alla ricerca di senso e di speranza. E siamo al dunque.

Laicità come modo di essere e agire complessivo

Il tema “Laicità” è di norma tutto giocato ancora sul piano strettamente politico:

– autonomia della politica dalle autorità religiose e dai credo religiosi (rapporti Stato-Chiese, rapporti del mondo politico cattolico con le autorità religiose, concordati, interferenze, ecc.)

– autonomia della coscienza individuale dagli assoluti religiosi, autonomia della prassi individuale dalle appartenenze-obbedienze, ecc.).

Incomincia però a farsi strada un concetto/bisogno di laicità più ampio.

Ciò avviene a causa di vari motivi:

– fine delle grandi costruzioni ideologiche che inquadravano la laicità e davano orientamenti di senso;

– trasformazioni che vanno a toccare momenti profondi della vita individuale e sociale e trovano impreparato il mondo laico a dare orientamenti etici;

– un senso di insicurezza e angoscia generalizzato dovuto sia alla globalizzazione, cioè alla mobilità planetaria di persone, merci, danaro, sia alla ripresa di guerre in qualche modo mondiali, sia alle continue emergenze dovute a catastrofi naturali che c’erano anche prima ma di cui non si aveva notizia.

Potremmo parlare di “Laicità globale”, che cioè oltre al piano politico affronti i temi etici, esistenziali, religiosi, relazionali. Non solo laicità della politica ma nella politica, laicità interna alle modalità di fare politica; e così pure laicità nella fede religiosa, nelle religioni di chiesa, nell’etica, nelle relazioni.

E’ lì, in questo concetto globale di laicità, come modo cioè di agire complessivo, che hanno da dire qualcosa di originale varie esperienze sia interne che esterne alle religioni e più spesso di confine. Ho particolare conoscenza della esperienza delle comunità di base che ne è sostanzialmente proprio espressione.

Lo dice il loro stesso nome composto da due termini complementari “comunità” – “di base”.

Il termine “comunità” esprime un certo superamento dell’individualismo moderno cioè della laicità quale emersione dell’autonomia puramente individuale: o ci si libera insieme dai condizionamenti del dominio del sacro o molto probabilmente l’individuo isolato non si libera veramente, non si libera nel profondo. Il sacro cacciato dalla porta della coscienza gli ritorna dalla fessura del profondo a cui solo la relazione consente di accedere. La psicanalisi insegna.

E qui interviene il termine “base”. Che a sua volta esprime il superamento di un ritorno del dominio del sacro attraverso la dipendenza dalle caste secolari che nella modernità hanno sostituito la casta del clero. La “grande” cultura, la scienza, la tecnologia, la finanza, l’informazione sono il nuovo Olimpo. Sono le nuove caste separate e separatrici, i nuovi gestori del sacro. Separate perché formano una élite esclusiva. Separatrici perché sottraggono alla massa la gestione della propria soggettività, il potere sulla conoscenza e il rapporto con la natura e col mistero.

Dobbiamo forse mettere in gioco in modo nuovo le esperienze propositive, intensificarle, comunicarle. Per contribuire a collaborare con tante coscienze angosciate e disgustate, come siamo anche noi, da una Chiesa riciclata quale azienda multinazionale del sacro e rese insicure e impaurite da una modernità che dà l’impressione di non riuscire a controllare più i fantasmi che ha evocato e continua ad evocare. Per ritrovare la laicità rovesciando l’ottica con cui finora si è perseguita. Abbassando lo sguardo per lasciarsi illuminare dalla luce che viene dal basso, invece che guardare le cose, il mondo, le relazioni, la politica, la vita, dall’alto, comunque questo alto si chiami: Dio, Assoluto, Potere, Legge, Ricchezza, Progresso, perfino Maggioranza, tutte rigidamente con la maiuscola per marcare il carattere di assolutizzazione e di esclusivismo, si potrebbe dire di sacralità, che viene loro non di rado attribuito.

Questo sguardo dal basso sarebbe coerente con il significato stesso della parola “laico”: aggettivo che significa appartenente al popolo (laòs, in greco). E’ quanto sostiene Dietrich Bonhoeffer, nel brano delle sue lettere dal carcere, opportunamente premesso come logo da Luciano Zannotti nel suo saggio La laicità senza riserve: Resta un’esperienza d’incomparabile valore – scrive il teologo tedesco impiccato nel lager di Flossemburg – l’aver imparato a vedere dal basso i grandi avvenimenti della storia del mondo, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, dei deboli, degli oppressi e derisi, in breve dei sofferenti”. E’ questo sguardo dal basso che costituisce l’anima profonda e autentica della laicità? E’ questa riappropriazione dal basso la radice storica più profonda del vivere “come se Dio non ci fosse” (di nuovo Bonhoeffer)?

Va detto che questa laicità di fondo, questa presa di potere sul sacro e su ciò che viene chiamato “orizzonte di senso”, oppure “sistema di valori”, di cui nessuno ha la chiave, non ha mai vita facile. E’ osteggiata in ogni modo da tutti i sistemi di potere, da tutte le caste. Il conflitto va messo nel conto. La laicità è sempre conflittuale. Ce lo dice anche la saggezza dell’antichissimo mito di Adamo ed Eva. Mangiando il frutto proibito della conoscenza del bene e del male si scontrano con il potere di Dio. Perché la presa di potere sulla consapevolezza, la rottura della separatezza del sacro, destabilizza i sistemi del dominio in quanto si accompagna sempre alla presa di potere sulla economia e la politica.

*Comunità di base dell’Isolotto, Firenze