Scelti per voi
Martin Suter
COM’E’ PICCOLO IL MONDO!
Feltrinelli, Milano, 2000, pp. 268, L.12.000
Un sessantenne dà fuoco incidentalmente alla villa in cui è ospite mentre i proprietari sono assenti. E’ legato in modo strano ai proprietari di questa villa, la ricca famiglia Koch. Innamoratosi, smette di bere, quando una serie di episodi di smemoratezza nella vita quotidiana portano alla diagnosi di Alzheimer. Inizia un progressivo disfacimento della memoria a breve termine e riaffiorano in modo vivido episodi del passato remoto. Ma questo passato che riaffiora è gravido di conseguenze per la famiglia Koch. L’intelligenza del testo sta proprio in questo gioco di rimando della memoria tra le due forme del passato, e riesce a descriverci dall’interno che cosa significa perdere la memoria recente, ritrovarsi spaesati in un mondo che per essere riconoscibile diviene vago e piccolo. Appunto “Com’è piccolo il mondo” diviene una forma rituale per riuscire a cavarsela in questo mondo estraneo. Ma il testo è popolato anche da figure che si prendono cura di lui, e che attraverso il percorso della cura si prendono cura di se stessi, senza retorica, in modo piano, la malattia diviene un’occasione per interrogarsi sulla propria esistenza. Un libro interessante per l’intreccio dei piani in cui il recupero della memoria, da molti temuto, diventa occasione per fare i conti con il passato in un presente popolato di ombre per il protagonista, ma il presente ha una duplice valenza, temporale e di presenze altre, di soggetti della cura che proprio attraverso la cura si interrogano sul loro presente. Così nell’intersezione dei piani si costruisce il lavoro della memoria, che si staglia sullo sfondo dell’oblio. Sono notevoli i passaggi tra la percezione soggettiva di smarrimento e il lavoro di ricerca dei soggetti della cura, dove smarrimento e ricerca di un lavoro di ricordo restano vicino la collocazione del soggetto come lavoro, appunto, e non come dato. (A.C.)
Harald Weinrich
LETE
Arte e critica dell’oblio
Il Mulino, Bologna, 1999, pp. 324, L. 45.000
Se il testo di Suter ci rimanda al lavoro della memoria, è interessante allora accostargli l’opera di Weinrich sull’oblio. Weinrich ci conduce lungo i sentieri dell’oblio nella cultura, come lavoro quasi di pulizia, di perdita possibile di una memoria, come percorso che rende possibile la memoria stessa. Attraversando la cultura tramite le opere letterarie, l’oblio si rivela come dimensione intrecciata nella sua essenza alla memoria, che la rende possibile.
Accostare i due testi, a prima vista lontani e che potrebbero sembrare poco utili alla clinica, ci potrebbe forse portare ad impostare in modo differente la cura nelle patologie degenerative a livello cognitivo. Potremo allora rivolgerci alla dimensione della memoria come dimensione attiva, verificare se la perdita del ricordo non sta forse a significare un lavoro di selezione ed interpretazione del ricordo stesso. Il mancato riconoscimento delle persone che si prendono cura del soggetto, come si concilia con il permettere che l’estraneo si prenda cura del soggetto? E il mancato ricordo dei lutti e delle perdite, come si concilia con una sorta di mancato lutto quando il ricordo viene presentificato dalle parole di un altro?
Questo ricordo intersoggettivo a livello dichiaratorio dove situa il soggetto, a quale evento lo riconduce? Domande centrali per sapersi prendere cura, centrali anche nell’assistere non in posizione passiva, ma cercando di cogliere la contraddizione di una persona assente per il soggetto come presenza vicina e riconoscibile, dove allora la conoscenza diviene (o forse non diviene) nuova acquisizione. In un ricordo labirintico verso il passato, che più è lontano più è presente, si insinua un interrogativo sulla labilità della presenza, temporale e soggettiva come percorso dove i buchi di memoria svelano la revocabilità di alcuni dati dell’esistere.. (A.C.)
Giuseppe Pontiggia
NATI DUE VOLTE
Mondadori, Milano, 2000, pp. 232, L. 29.000
Il testo di Pontiggia si potrebbe riassumere nella dedica “ai disabili che lottano non per diventare normali ma se stessi”, e in questo senso va letto il raddoppio della nascita, nel configurarsi rispetto a se stessi e non rispetto alla norma.
Potremmo tentare di metterlo in continuità con un testo di Oe (Una questione personale): dove il testo di Oe termina, continua quello di Pontiggia. Nel testo di Oe c’era l’accettazione della nascita, della presenza, di un figlio portatore di handicap; il testo di Pontiggia lo prosegue nel dopo la nascita. E questo dopo è contrassegnato da una serie di incontri: il fratello, i centri di assistenza, la scuola, i terapisti ecc.. Incontri più o meno buoni, segnati da piccole viltà o da gesti significativi nella loro umiltà, senza cadere nell’esemplificazione che riappacifica tutto, ma tenendo in campo la contraddizione aperta dalla presenza del figlio. Proprio la contraddizione segna la seconda nascita affidata alla presenza degli altri. Ma questa presenza richiede agli altri di fare i conti con l’incontro del limite, inteso non solo come impedimento, ma come soglia sulla quale il soggetto vacilla, che se presentificato lo fa crollare. Limite che spesso viene negato, all’inseguimento del mito dell’autonomia che si struttura come distanza, di un mettere a distanza non per poter vedere, ma per evitare di vedere, di cogliere in quel limite il punto di vacillamento del soggetto, che in questo senso ci coinvolge, ci chiama come presenza altra tenuta a rispettarlo, ad evitare di imporne il superamento senza alcun ritorno al soggetto stesso. In questi senso il testo è un percorso di apprendimento del padre, un lavoro all’interno del limite che la presenza del figlio configura, in un continuo alternarsi tra responsabilità e fuga, dove nessuno può sostituirlo, dove le scelte quotidiane ritornano a lui, e attraverso la presenza del figlio viene sollecitato. Il percorso si snoda attraverso altre presenze che segnano l’esistenza del figlio, senza nascondere i momenti di difficoltà o di conflitto, le lacerazioni che la sua presenza provoca negli altri.
Ma un altro grosso merito civile del testo sta nel linguaggio che viene usato, che nella sua crudezza non rimanda a forme di sadismo, ma a forme di accoglienza della diversità.
“Le disgrazie, fra i tanti effetti, ne hanno alcuni linguistici immediati, ci rendono sensibili al lessico interessato dal problema. Si potrebbe aggiungere, con una illazione, che uno scrittore è chi è perennemente sensibile alle disgrazie del lessico, anche se non ne viene coinvolto. E che non aspetta di esserlo per riflettere sulle differenze dei significati. Questo contribuisce a spiegare come l’area lessicale dell’handicap sia ormai in preda alla nevrosi. Molti si chiedono perché cieco sia diventato non vedente e sordo non udente. Forse una spiegazione plausibile è che cieco definisce irreparabilmente una persona, mentre non vedente circoscrive l’assenza di una funzione”.
Ora questo rinvio alla funzione, nel mentre disinnesca la presenza della diversità, persegue un’altra chimera che è quella dell’autonomia. Spezzettando e sminuzzando attraverso
le funzioni un’esistenza, la si occulta come esistenza, e si tiene in campo un riferimento ideologico all’autonomia che continuamente proietta nel futuro ciò che oggi è insopportabile e che diviene sopportabile in un futuro che lo nega. Dialettica singolare, che nei rimandi temporali ci permette di non fare i conti con il presente, di addomesticarlo attraverso il linguaggio e il rimando nel tempo nel mentre lo neghiamo. Proprio questo permette di cogliere nel significante autonomia un rimando sinistro, nei termini di occultamento, che prima che temporale è spaziale, come occultamento nel luogo in cui siamo e visibilità in un luogo in cui non siamo. L’autonomia diviene allora un obiettivo teso a disinnescare il presente e i soggetti che lo popolano, rimandando ad un tempo altro, ad un luogo in cui la presenza disturbante possa essere addomesticata perché cancellata, ridotta, rinviata ad una immagine altra, che lo rinchiude per permetterne la presenza.
In questo senso il testo svolge un’alta funzione civile a livello del linguaggio, rinominando l’handicap, sottolineandone delle irreparabilità che non sono funzionali all’abbandono, quanto al cogliere quel limite che segna la presenza del soggetto al mondo e la cui consapevolezza e accettazione si configurano come rispetto di questa presenza. (A.C.)
Slavoj Zizek
IL GODIMENTO COME FATTORE POLITICO
Raffaello Cortina, Milano, 2001, pp. 196, lit. 24.000
Il testo di Zizek giunge al tramonto delle ideologie politiche, e con questo tramonto cerca di fare i conti. Mettendo al centro del suo lavoro, e del nostro essere soggetti politici, il godimento, a partire da Lacan, cerca di elaborare una nuova nozione di soggettività che riesca a spiegare come ci collochiamo in una realtà della quale siamo inevitabilmente parte costituente e nella quale siamo già da sempre coinvolti.
Il lavoro si declina nel primo capitolo attraverso una precisazione del ruolo del fantasma (sulla distinzione tra fantasma e fantasia rimandiamo alla nota del traduttore a pag. 13) nel costituire la realtà e di come esso sia parte della realtà “come supporti il senso di realtà del soggetto: quando si disintegra l’immagine fantasmatica, il soggetto subisce una perdita di realtà e inizia a percepire la realtà come un irreale universo da incubo senza alcuna stabile fondazione ontologica”. Guidandoci nell’incontro con il prossimo attraverso il fantasma, il capitolo si chiude sul ruolo del Tamagochi come macchina che ci permette di soddisfare il bisogno di amare il prossimo.
Il secondo capitolo dedicato alla trasgressione ci è parso il più interessante e foriero di ulteriori sviluppi. Qui viene indagato il legame tra legge pubblica e Super-io, l’originalità sta nell’individuare il ruolo di quest’ultimo come supporto della legge, come lato oscuro e privato, come godimento illegale che sostiene la legge pubblica. “Ciò che tiene insieme più profondamente una comunità non è tanto l’identificazione con una legge che regoli il normale circuito quotidiano della comunità, ma piuttosto l’identificazione con una specifica forma di trasgressione della legge, di sospensione della legge (in termini psicoanalitici, con una forma specifica di godimento)”
Questo passaggio permette all’autore di condannare l’atteggiamento cinico come coevo alla esistenza di questo godimento, nel momento in cui la sua critica lascia intatto lo sfondo del testo ideologico pubblico della legge. Ma quella che funziona non è un’adesione acritica .alla legge, l’esito in questo caso produrrebbe delle caricature, degli idioti ottusi che legittimano il potere. Ciò che fa funzionare l’ideologia è una sorta di nocciolo transideologico, ed è questo nocciolo ciò che fa funzionare l’ideologia e cementa il gruppo.
Il capitolo prosegue affrontando il tema della trasgressione e la funzione paradossale delle regole non scritte che “consiste nel fatto che esse, rispetto alla legge pubblica esplicita, sono allo stesso tempo trasgressive (violano esplicite regole sociali) e più coercitive (sono regole aggiuntive che restringono il campo della scelta, proibendo le possibilità permesse, anzi garantite, dalla legge pubblica)”.
Il capitolo quarto è dedicato al passaggio dalla tragedia alla commedia che caratterizza l’epoca contemporanea, ripercorrendo il cammino dell’identificazione come una disidentificazione, cioè come identificazione con il modo in cui l’Altro mi percepisce in modo errato, con tutto quel che ne consegue a livello sociale.
L’ultimo capitolo affronta il problema del rapporto con i nuovi media e le conseguenze che la comunicazione virtuale comporta per la soggettività. Qui l’originalità del testo sta nel sottolineare come vi sia già da sempre una virtualità nei rapporti umani basati sul fantasma, e come le nuove forme della comunicazione mettano in luce questo problema.
Il testo appare molto interessante e si configura come uno strumento utile a rilanciare una riflessione sul potere e la politica che sappia includere il soggetto, che non lo ponga come sciocco schiavo o forte protagonista delle ideologie, ma scavando all’interno della sua costituzione ne sappia mettere in luce la labilità e i risvolti opachi che lo legano al reale. (A.C.)