Scrittura di sè e cultura contemporanea
Il tempo dell’autobiografia?
Il nostro tempo offre uno spazio sempre più – per così dire – “fisiologico” alla scrittura di sé: a quell’esercizio di auscultazione del soggetto, di interrogazione sul proprio senso, sul costituirsi o mantenersi o sfaldarsi della propria identità che viene a delineare sia il bisogno, sia la struttura dell’autobiografia, esercitata sì nella forma classica dello scrivere-di-sé, ma anche in quelle più spurie: delle annotazioni diaristiche o anche della fantasticheria su di sé, nutrita dalle sollecitazioni più diverse e perfino dispersive, ma che come una nebulosa accompagna il soggetto e vi si sovrappone come una forma di scrittura mentale. Perché tra tempo storico attuale e scrittura di sé corre un rapporto così fisiologico? Per due ragioni soprattutto: per il riorganizzarsi dei nostro “mondo di vita” fuori di ogni orizzonte di “Sicurezza” di Ordine e di Senso stabile e, appunto, sicuro; per il decostruirsi del soggetto, che sta fuoriuscendo (anzi, è già uscito) dalla sua “condizione moderna” e sta nudo di fronte a se stesso, cosciente di essere, per sé, il centro del-fare- esperienza, ma anche un centro fragile, inquieto, senza identità certa, perfino Ccsenza qualità”.
Lo stato il tramonto di quel “mondo della sicurezza” già tematizzato da Zweig che ha prodotto disincanto, disorientamento, erranza e, quindi, inquietudine, desolazione, ansie e fughe, dispersioni e rifiuti. La perdita del Senso (con la maiuscola) ha attivato processi, concentrici e disseminativi ad un tempo, di decostruzione, di deriva, di rattrappimento anche: il soggetto è tornato verso se stesso, ormai orfano di quel Mondo (con la maiuscola) di cui si era detto signore, si era sentito padrone e artefice. Ma quel sé che si è fatto suo (ultimo?) rifugio è un io/sé eroso, magmatico, inquieto e incerto: anch’esso senza sicurezza e senza identità, e sempre più esposto a questa costante erosione. La cultura del Secolo ormai agli sgoccioli sta là a dimostrare questo duplice “effetto”. Non vale citare autori, testi, correnti o posizioni: i due percorsi – tra loro simmetrici – sono oggi visibili nettamente a ogni lettura condotta un PO’ dall’alto e senza paraocchi. Così per questo lo privo e – insieme – bisognoso di senso, che è un po’ più certo solo del proprio trovarsi presso se stesso, l’auscultarsi, il leggersi, l’interpretarsi appaiono un po’ come le àncore di salvezza per approdare – forse – a una “ritrovata” identità.
La scrittura, con la sua oggettività, con la sua sequenzialità narrativa, con la sua capacità selettiva e orientativa, si offre come l’àncora maggiore, capace di fermare/articolare/discutere il soggetto, proprio quel soggetto che, se pure in frantumi, interroga con insistenza, con ansia anche se stesso e reclama da se stesso una parola di guida, se non proprio di Senso. Sì, il nostro è il tempo dell’autobiografia, poiché solo “scrivendosi” il soggetto disorientato ha la possibilità di ricostruire se stesso, quel mondo in cui è gettato, forse anche un senso (con la minuscola) per sé e quel mondo. Quali altri strumenti gli restano per “donare/donarsi senso”? Non la Scienza, non la Religio, non la Polis: poiché tutti troppo compromessi con l’improbabile principio della Verità (unica, definitiva, universale). Tanto meno il Mercato o la Tecnica che, sì, lo irretiscono sempre più, ma lasciandolo sempre più vuoto e inquieto, sempre più fragile e alla deriva. Il ritorno a sé e all’interrogazione di sé appare (ed è) la via fisiologicamente più congrua per avviare una ricostruzione del senso, consegnandolo, però, nelle mani (sia pure “sporche”, sia pure deboli) del soggetto e di un soggetto-senza- certezze. Sarà, anch’esso, un senso “debole”, transitorio, problematico, ma – forse – sarà capace di riaggregare là dimensione del senso, senza la quale né il mondo né il soggetto autenticamente (ovvero culturalmente) sono (ovvero esistono e valgono).
La scrittura di Sé, il labirinto e la cura
Ma cos’è e come agisce la scrittura di sé? Essa ha, e insieme, almeno quattro facce. E’immersione nel labirinto del vissuto; è esercizio attivo della memoria; è tensione e costruzione di senso; è tecnologia del sé che determina e esalta la cura di sé. E’, pertanto, un dispositivo cruciale dell’io (e, in particolare, di un io alla ricerca del sé o di sé); dispositivo che va attentamente studiato, al di là delle stesse tipologie e della sua stessa storia (pur importanti), nel suo congegno e nella sua funzione. Come immersione nel labirinto del vissuto ne riattiva la problematicità, anche la casualità, perfino la sua deriva. Ma in esso introduce l’esercizio attivo (orientativo, aggregante, costruttivo) della memoria che, se non salva dal labirinto e dalla sua deriva, vi “impone” (ovvero: sovrappone, introduce) una possibile – forse – direzione di senso (e non un traguardo), foss’anche quella proustiana del rileggere gli eventi distillandone i “segni” e nient’altro. In questo intricato lavorio coinvolge – e direttamente – l’io e il suo sé, l’identità significante che egli può e forse vuole essere, così viene a produrre sé nell’io (che è qualcosa di simile all’io nell’es di discendenza freudiana) e instaura quella “cura di sé” che è poi la dimensione semanticamente più propria e efficace dell’essere-soggetto nel tempo del Disincanto. Ma allora la scrittura di sé – e al di là di ogni attualità come forma narrativa o dispositivo di cultura, di elaborazione culturale – si fa la forma propria, più propria del farsi soggetto-individuo-persona nel mondo attuale, poiché si fa autenticamente carico di quella condizione del soggetto inquieta, erratica, problematicamente aperta e dagli esiti sempre incerti. La scrittura di sé come cura di sé è, in particolare, la forma salvationis del soggetto nella “condizione postmoderna”. Il suo modo di conservarsi come possibilità, di darsi spessore e forza, di fare della sua debolezza un’idea stessa di forma. E di affidarla a un processo che è, in sé, esplicitamente formativo. Così tra scrittura di sé e pedagogia (disciplina sottratta qui a ogni uso retorico e/o conformistico o amministrativo, anzi riletta come il sapere-delle-formazioni) corre, oggi, un circolo stretto e virtuoso e reciproco, poiché esse intimamente collaborano, e di fatto e di diritto. Entrambe ruotano attorno al perno della cura di sé ed entrambe si danno come dispositivi cognitivi (e non solo) per quel soggetto ormai irretito nella deriva che si attua, sì, sul “tramonto d’epoca”, ma ancor più sulle decostruzioni/trasversalità/incompiutezze del Mondo Attuale.
Una metafora e uno strumento
La scrittura di sé o autobiografia agisce, dunque, come una metafora e come uno strumento dello statuto del soggetto e dell’impegno che questo assume rispetto a se stesso, disponendosi more paedagogico. E metafora dell’io/sé, che è in quanto si fa, si costruisce, si dà a se stesso come senso; e lo fa in quanto si traduce anche in narrazione, in itinerario, in codice originario di segni, quindi in scrittura.
E’ metafora del percorso che va dall’io al sé, di quel tragitto pedagogico (in quanto formativo, tipico dell’acquisire forma) intricato e linearizzato insieme. Ma è anche strumento: dell’io per farsi sé. E’ tecnologia del sé. E quindi e ancora, è dispositivo pedagogico. Allora anche strumento della pedagogia, e centrale, sempre più centrale, e per la deriva attuale del soggetto e per la deriva stessa del tempo storico. In tale condizione, come metafora e come strumento, si dispone un po’ quale il “grado zero” del soggetto e della formazione, rilanciando con forza e in piena luce la sua complessa, centrale e autenticamente attuale funzione: riportare tensione e realtà di senso colà dove il senso è caduto dentro un cono d’ombra né appare più riattivabile in quelle sue forme d’antan, solari e regali se si vuole, ma anche pervasive. imperative e soffocanti. Mentre si tratta di dare – oggi – spazio alla possibilità del senso, accolto nella sua fragilità e anche nella sua irriducibile apertura. La scrittura di sé ci conduce lungo questo sentiero, il più praticabile, forse il solo che ci è permesso oggi, quand’anche fosse soltanto un Holzweg.