Sillabario Pedagogiko – Eredità

 

Eredità, per S. G., con gratitudine

 

 

 

Le cose non rimangono mai uguali, le cose non rimangono mai intatte. Tutto scorre, fluisce, muta, finisce.

La vita lo insegna: eppur si muore.

Lo sguardo clinico sulla vita, sul vivente, ancora prima di ogni visione nosografica, indica che ogni vita è segnata da una continua morte: se non si comprende questo rapporto strutturale, tra la vita e le morti che la punteggiano, difficilmente si potrà comprendere il senso e il significato della vita stessa. E non solo della vita dei corpi, ma anche quella dell’essere umano, delle cose stesse. La morte segna un passaggio, anche un passaggio di “cose”, materiali e immateriali, organiche e inorganiche, riconoscibili e non riconosciute. In questo passaggio, che in realtà segna quasi ogni momento della vita di ognuno, si incontra la questione dell’eredità e l’esperienza dell’ereditare.

I protagonisti dell’eredità devono essere disposti a veder mutare quello che passa.

Questa restituzione coincide con il momento in cui chi riceve riconsidera il valore di ciò che riceve, ma ancor di più riconsidera il valore della trasmissione stessa. Ciò che di sostanziale passa, quando c’è un’eredità, quando siamo in presenza di una trasmissione di conoscenze, di competenze, anche in senso economico, non è soltanto ciò che l’altro ci invita a custodire, ci insegna o costringe a fare, ma soprattutto qualcosa che è dell’ordine simbolico, che è la posta segreta dell’eredità, cioè ci passa un certo sentimento dell’esistenza, di quello che deve sopravvivere nella trasmissione.

Questo tratto, che potremmo chiamare “restituzione”, come ha suggerito di recente Francesco Stoppa, è invisibile e indicibile per chi passa il testimone. Forse per questo sopravvive. È in questo “di più” che viene trasmesso ed ereditato insieme alle “cose”, nello stesso momento in cui le “cose” ci raggiungono, che si svela un certo modo dell’essere formati a essere umani.

Si rivela qualcosa e qualcosa ci è rivelato da chi ci ha generato come genitore, da chi ci ha insegnato come maestro, da chi ci ha incontrato, anche professionalmente, come mèntore. Ognuno di noi, pedagogicamente, è continuamente generati: non si tratta, ovviamente, solo della generazione biologica, ma nasciamo, non solo professionalmente, più di una volta, grazie a qualcun’altro che si occupa di questa generazione, che prepara e attende questo passaggio.

Quello che si rivela nell’esperienza viva della trasmissione è un modo singolare di amare ciò che si fa e di amarci in quello che si fa. Per questo la relazione dell’apprendistato può essere così significativa, come modello formativo, perché riguarda il valore stesso della trasmissione. Perché dovremmo prendere questa eredità e trasmetterla a nostra volta, se non perché sentiamo la pulsazione di questo sentimento dell’esistenza, che riguarda qualcosa che non è coincidente con l’altro, che riguarda qualcos’altro e che potremmo chiamare oggetto d’amore (formativo)?

Da un punto di vista pedagogico credo che un modo di comprendere questa eredità dei saperi riguardi la possibilità di riannodare il mondo della vita e il mondo della formazione. Il mondo della vita e il mondo della formazione costruiscono un nodo essenziale della nostra esperienza e questo nodo va tematizzato da un punto di vista pedagogico, va elaborato in modo che faccia segno di qualcosa che è solo nostro, che riguarda il modo in cui noi abitiamo la relazione formativa. Quindi si tratterà di comprendere il nodo che indica quel “di più” che distingue, che rende accessibile e più
contattabile il “chiasmo” – questo termine è stato introdotto da Angelo Franza nel discorso pedagogico – che mette in figura i modi in cui siamo stati formati e quelli che stanno alla base di come formiamo. Se non mettiamo in relazione queste due esperienze, difficilmente potremo capire come ci troviamo e ritoroviamo nell’evento dell’incontro che ogni situazione formativa genera. E, ancor meno, potremo comprendere cosa e come ereditiamo.

La comprensione di come si annodano queste due dimensioni, il mondo della vita e il mondo della formazione, diventa un punto irreversibile della propria learning biography se lo si vede nella sua autenticità, nella sua unicità, da cui ogni nostro gesto formativo, ogni nostro gesto di trasmissione, non potrà che ripartire, perché fa segno di qualcosa che è singolarmente nostro. Dice come il sapere si è singolarizzato e soggettivato in noi e attraverso di noi.

Come si può interpretare la questione dell’eredità, della trasmissione di conoscenze e competenze in una prospettiva pedagogica?

L’insegnamento può essere considerato, oggi più di vent’anni fa, il paradigma della testimonianza. Perché si testimonia attraverso di esso, non solo a scuola. Da una parte c’è il passaggio dei contenuti, ma anche del sentimento esistenziale che dà sostanza a questa trasmissione. C’è, però, qualcos’altro che riguarda squisitamente il pedagogico nella questione dell’eredità: è qualcosa che richiede una traduzione formativa.

Se ogni eredità parte da una fine, io parto da “La fine della pedagogia nella cultura contemporanea”. Così si intitolava un ciclo di incontri organizzato da Riccardo Massa, presso la Casa della Cultura di Milano quasi trent’anni fa, in cui si metteva a tema la squalifica di quel campo di sapere antichissimo, rappresentato dalla Pedagogia. Già allora Massa diceva che questo sapere era completamente svalutato da una molteplicità, da una congerie forsennata di discorsi sull’educazione, sulla formazione, sull’istruzione.

Quale eredità inaugura quello spazio in cui noi cerchiamo di ripensare questa fine della pedagogia? La fine, non la morte. Non si può che partire da questo, scriveva Massa nelle conclusioni del testo che raccoglieva gli esiti di quegli incontri pubblici: «occorre affrontare congiuntamente almeno tre questioni (quelle che sostanzialmente non hanno permesso alla pedagogia tradizionale di avere buon conto nella cultura): qual è il luogo, qual è il pubblico e quindi qual è il linguaggio di una nuova possibile pedagogia?».

Quel testo finiva con questa domanda. Io cerco di ereditare questa domanda insieme a quella che Franza, dalla sua prospettiva, già anni prima aveva rivolto al sapere pedagogico interrogando il problema della conoscenza che struttura questo sapere “speciale” che, spesso poco considerato, va al cuore della fondazione delle scienze umane.

Ogni eredità è inaugurata da una fine, ma non si tratta solo di continuare, piuttosto di essere testimoni di una fine come sintomo di qualcosa. In questo modo, dal tentativo di trovare un nuovo linguaggio pedagogico, all’altezza dei tempi che viviamo, delle qualità specifiche della nostra esperienza condivisa, noi potremo demitizzare anche i falsi discorsi, dominanti e spesso corrivi, della pedagogia e della formazione odierna.

Bisogna attuare un tradimento, un tradimento anche dell’eredità in un certo senso. Non c’è eredità senza tradimento. Un tradimento come quello che viene operato in una buona traduzione.

C’è una forte analogia tra l’esperienza pratica del tradurre e l’esperienza formativa. Io credo che il compito pedagogico oggi debba riguardare una traduzione formativa, i modi in cui siamo capaci o incapaci di tradurre l’esperienza.

Si tratta di rinunciare al sogno di una traduzione perfetta, in cui il sapere non viene toccato, in cui si fa il sogno di tradurre perfettamente il messaggio iniziale in un’altra lingua. Quante volte nella letteratura, nei testi, il ritornello è: “Parliamo lingue diverse”, come si dicono spesso reciprocamente genitori e figli. Allora si tratta di prendersi la responsabilità di questa traduzione, di dare corpo a questa traduzione, e quindi di assumersi la sua infedeltà. Nella traduzione emerge il problema della fedeltà e del tradimento. Ogni traduzione è già una ritraduzione. Nel passaggio dall’orale allo scritto, diceva già Platone, la questione è che lo scritto non dà la versione di ciò che si pensa, ma semplicemente fornisce una forma di stabilizzazione del pensiero.

La traduzione è vicina all’ordine della testimonianza perché per tradurre bisogna avere fiducia in qualcosa, fiducia nel testo di partenza, fiducia nel lettore futuro, che in qualche modo deve abbeverarsi a questa traduzione. Diceva Walter Benjamin che senza traduzione non c’è sopravvivenza. Se i testi sacri non fossero stati tradotti e quindi desacralizzati non sarebbe sopravvissuto quasi nulla della nostra cultura. E allora la traduzione formativa è una figura dell’incontro. È la figura dell’incontro con lo straniero, con l’altro che non capisce la mia lingua, con chi deve imparare quello che io so. Ogni traduzione non può che generare un sapere aperto, perché ogni traduzione costruisce una variazione, ricerca il significato, non parte da un significato già istituito. È in questo senso che l’analogia tra traduzione e formazione diventa significativa, perché la traduzione è una mediazione etico-pratica. Chi forma è un mediatore e l’eredità non può che passare attraverso questa mediazione. La trasmissione è consentita da questo tradimento del testo iniziale, del sapere di partenza e di ciò che io credo di sapere.

Perché solo se io sono disposto, come avviene nella traduzione, a scoprire un “di più” mentre traduco qualcosa che non conoscevo anche della mia lingua di provenienza, se sono capace di tollerare l’estraneo che c’è nel mio sapere, quindi un modo differente di relazionarmi con ciò che credo di sapere, passa qualcosa. Lì si crea lo spazio per l’altro, lo spazio dell’ospite, scriveva Paul Ricœur.

La formazione come traduzione è efficace solo se il lavoro del lutto e il lavoro del ricordo non vengono separati. Cerchiamo di imparare forsennatamente nuove procedure, nuovi modi di comprendere l’esperienza, ma meno spesso teniamo conto di tutto quello che abbiamo alle spalle, di quello che ha significato in termini di valore umano di quel sapere che ci ha formati, accettandone anche le zone d’ombra, gli effetti di opacità che ha generato nel tessuto della nostra esperienza soggettivata.

Se si è disposti a vedere ciò che ancora non si è visto nel proprio sapere si è disposti a consentire la traduzione formativa. Ossia a mettere in luce la latenza di quello che sappiamo, cioè le risorse ancora inoperanti nel nostro modo di fare, che solo l’incontro con l’altro per cui devo tradurre mobilita. Poiché è solo il desiderio di tradurre che può rendere operante ciò che è latente o dorme dentro il nostro sapere e quindi può trasformarlo. Un tale desiderio può permetterci di accettarlo anche cambiato questo sapere e può permetterci di riconoscerci in quello che l’altro ci porta come suo oggetto d’amore, un oggetto inevitabilmente diverso dal nostro. Se si è disposti a tutto ciò, allora credo che il nostro compito sia assicurarci che gli effetti di queste traduzioni siano degli effetti visibili dentro le nostre vite, nelle nostre professioni. Così potranno prendere forma  nuove figure, anche figure professionali, che non possono che passare e essere attraversati da questa etica della traduzione formativa.

E, forse, nelle condizioni create dalla traduzione formativa, come sosteneva Marcel Proust, la figura risultante, come in una nostra personalissima ricerca del tempo perduto, potrebbe essere il luogo in cui la redenzione dei frammenti della nostra vita, delle esperienze formative, delle immagini convergono nello svelamento di un senso individuale. Ma proprio nella trasmissibilità di questa figura, in tutto ciò che questa figura porta a noi come eredità, potremo connetterci a un destino e a un desiderio che riguarda la storia collettiva e non più solo la nostra.