Sul maltrattamento e altre storie

Non sempre risulta chiaro come, in determinati momenti e contingenze storiche, taluni fenomeni di malessere sociale

compaiano improvvisamente al centro dell’attenzione pubblica, relegandone altri sullo sfondo. E’ avvenuto così, per restare agli ultimi decenni, con la tossicomania, poi con l’aids, poi ancora con la depressione e successivamente con l’anoressia. Prima della tossicomania, era andato allo stesso modo con la follia e con le battaglia sull’handicap. Tocca oggi alla problematica del maltrattamento dei minori occupare quel posto, come sempre a discapito di altre, cui, in verità, è inevitabilmente legata. Il maltrattamento è eterno come la storia dell’uomo, nei paesi occidentali non meno che negli altri.

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Se alla violenza fisica, allo sfruttamento, si aggiunge quella che potremmo definire la violenza psichica, il quadro che ne potrebbe risultare sarebbe a tutti gli effetti agghiacciante. Il delirio scientista nelle sue varie forme, dalla psichiatria organicista alle neuroscienze, fedele all’ossessione oggettivante di omologare il funzionamento della soggettività a quello del computer, lavora ben nella direzione di eliminare l’ordine di un’evidenza che è prima ancora che clinica, etica. Se la malattia mentale, intesa qui nell’accezione più generica del termine, è una malattia come le altre, ciò significa che la soggettività, del paziente come dei suoi familiari, non è in gioco. E’ un problema di geni, di connessioni neuronali, di apprendimenti mancati: dov’è il problema, allora? Si tratta di attendere il farmaco adeguato. Ci vogliono pazienza e fiducia. Tuttavia, se usciamo da quest’ipotesi, non ci è difficile scorgere nella storia di ogni soggetto drammaticamente sofferente, i segni palesi, ben visibili del maltrattamento cui è stato sottoposto. Lo si dice gravemente malato misconoscendo quel che la clinica, anche più banale, mostra: il soggetto malato è un soggetto che è stato fortemente e pesantemente maltrattato, cioè trattato male dalle figure genitoriali, violentato, abusato, ridotto dalla madre e dal padre a semplice oggetto del loro godimento: replicante, oggetto feticcio, abbandonato, perversamente sedotto.
La fenomenologia è ampia, il concetto meno: maltrattare il bambino, così come ogni altro essere umano, significa ridurlo a oggetto, a cosa. Che tutto questo avvenga per il suo bene, non muta in nulla lo statuto dell’operazione. La malattia psichica, lo si dimentica spesso, risponde di un’etica che la segna e la marca. La storia non si cancella, ma è la carne viva in cui prende forma la soggettività di ciascuno, a partire dal bambino. Perchè, allora, quest’attenzione, improvvisa e massiccia, al maltrattamento dei minori? Ipotizziamo una causa e qualche conseguenza.
La prima: l’inconsistenza che alimenta il discorso educativo nella nostra epoca fa sintomo della precarietà delle asserzioni che in proposito l’attraversano, magari colorate di venature perbeniste e democraticiste. Più in generale, esse raccolgono lo spirito, nel senso weberiano del termine, di una società dominata dalla religione dell’economia e da tutto quel che ne consegue. Il mondo non è un’azienda, ricordava poco tempo fa Claudio Magris. Ma se lo è e se lo tende a diventarlo, ciò è in virtù di un vuoto che lo abita in maniera sempre più massiccia. Mancano ideali, dice qualcuno. A noi sembra che manchino più le passioni. Società fondamentalmente e malcelatamente triste e disillusa, senza vero entusiasmo.
Non ci si stupirà allora che, a fronte di un disagio sempre più manifesto, non si riesca a dire quel che si dovrebbe o si potrebbe fare o tentare di fare con i bambini. La pedagogia nera, come la chiama Alice Miller, satura bene e ricompatta il deserto illimitato e confuso che altrimenti emergerebbe dall’insieme del (preteso) discorso educativo contemporaneo. Basta ascoltare una famiglia o entrare in una scuola, per rendersene immediatamente conto. Più semplice invece costruire e inveire contro un nemico, a tutti gli effetti al limite della sopportabilità, organizzando in parallelo una buona causa: quella della difesa dei bambini, nei cui riguardi ergersi e autopromuoversi difensori d’ufficio. Se il male trova un’incarnazione, si è dispensati dall’interrogarsi su cosa possa essere il bene. Chi non è desideroso di arruolarsi nelle sue legioni?
Non occorre tuttavia demonizzare. Il maltrattamento esiste e il porvi attenzione è essenziale. Tuttavia, due brevi annotazioni si impongono. Una, l’accentuazione esasperata da parte dell’opinione pubblica sul tema finisce per parlare il linguaggio proprio alle masse, nel senso in cui ce lo indicava Freud. La complessità lascia il campo alla superficialità, al sensazionalismo. Commuoversi o stupire è più importante di capire. Le masse, così come i bambini mal trattati, vogliono tutto e subito.
Risultato: il dibattito si semplifica e si connota sempre più in una forma ideologica che si nutre di quelle contrapposizioni schematiche, manichee che tantoappassionano: magistrati contro operatori, famiglie affidatarie contro comunità e così via. Due, la semplificazione introduce una necessità, particolarmente sentita nella società dell’immagine, di visibilità. Occorre insomma ridurre il maltrattamento a un dato o a dei dati oggettivabili, meglio ancora se in grado di scatenare perversamente l’immaginario collettivo. L’abuso sessuale che non costituisce in sé e per sé l’unica forma di maltrattamento, viene elevato a comportamento elettivo ed emblematico del maltrattamento. Lo sciacallaggio psicosociale fa sì che l’operazione stessa attraverso cui si isola nel marasma dell’infelicità e del dolore di vivere una piccola parte di esso, evidenziandola come una realtà a sé, trovi un correlato immediato sul piano operativo nei termini di una possibile risposta. Chi definisce l’iperpeculiarità del problema è altresì chi si propone e impone, autolegittimandosi come l’interlocutore più adatto a risolverlo o quantomeno ad occuparsene: “siamo degli specialisti dell’abuso”, ci dicevano giorni fa taluni operatori di un certo centro, pubblicizzando loro iniziative. ‘Specialisti in che senso?’, veniva da ironizzare. Le istituzioni chiudono un occhio, quando non due: hanno trovato specialisti “ad hoc”. Cosa chiedere di più? Rivoluzione e/o tragedia.
Veniamo a una storia. Si tratta di una donna confusa, smarrita. Il preside non riesce a contattarla: fissa l’appuntamento poi non si presenta, si rifà viva dopo un mese chiedendo un incontro cui poi non verrà. Il figlio è folle; cosa che lei misconosce totalmente: è solo questione di volontà, dice. Non studia, ma forse non sa bene nemmeno quel che dovrebbe studiare: i libri, li ha ancora? i quaderni? Lui gira a sua volta sperduto, tra i boschi, lasciato a sé stesso, alla sua deriva. Mette in atto comportamenti lesivi a sé, agli altri. La madre vi risponde dalla sua stessa follia: passaggi all’atto, agiti violenti e incontrollabili. E’ supportata dai servizi sociali, quasi in apparenza controvoglia. Il ragazzino non ha nulla, sostiene. Frase che non si può dire, presa alla lettera, che non contenga un germe di verità. Se la prende con lui, rivendicando la sua, di lei, vicenda familiare. Denuncia con rabbia lo stato d’abbandono e di violenza in cui è vissuta, lo stesso clima che circonda, in verità, l’esistenza del figlio.
Si infervora nell’accusa, quando viene interrotta dallo squillo del suo cellulare. Sono le insegnanti della scuola materna frequentata dal figlio più piccolo: stanno chiudendo, e suo figlio, è ancora lì. Le altre madri hanno già preso il loro. Lei dov’è, mentalmente, psichicamente? Risponde che arriva (non è certo la prima volta, commenteranno acidamente le maestre, che succede) si era dimenticata. Lei, la dimenticata dai suoi genitori, che si dimentica del figlio, chiede scusa, si alza, dice che deve andare a “ritirarlo”.
Si congeda.
Che dire di quest’umanità dolente, indifendibile, fatta di figli maltrattati, ma anche di genitori maltrattanti? Chi è il minore, talvolta più lucido del genitore, e chi è l’adulto? Come se ne esce, si può domandare. A patto ovviamente di poterlo fare. Bisogna innanzitutto pensare di potervi, in qualche modo, entrare. E’ qualcosa che riguarda tutti, non solo chi se ne occupa.
Riassumendo ci pare che due concezioni si contrappongano tra loro. La prima risente di una lettura della strategia complessiva d’intervento che si appoggia e prende spunto dal discorso giudiziario. L’operatore diventa e si propone come la lunga mano del tribunale stesso: è con la legge. Il vantaggio è duplice: da un lato, l’operatore esce dal pantano d’impotenza cui la sua pratica lo consegna, appoggiandosi ad una parola (in apparenza) forte e decisiva, dall’altro, soddisfa, a fronte di un orrore devastante, un’esigenza elementare, quasi istintiva di giustizia: individuare per poi isolare il male e punirlo.
Un’ambiguità è così dissolta, giacché l’isolamento
del male in cosa consiste se non nel ritradurre l’intero quadro patologico per come si presenta nei termini propri al discorso scientifico di tipo induttivo. L’equivocità che confonde e dissimula le posizioni soggettive lascia il campo a un casualismo serrato. Isolare il male è individuare causa ed effetti nell’evento che è accaduto. Il male sussiste perchè c’è una causa, ma soprattutto perchè tale causa è riconducibile (e dunque isolabile) in rapporto a un individuo in carne ed ossa. La costruzione della casualità del male approda alla costruzione del nemico, nel senso che Carl Schmitt darebbe alla parola. Sapere che il male è così isolabile significa supporre che il male è controllabile, non foss’altro su un piano cognitivo. La legge supporta, almeno fantasmaticamente, l’idea di una chirurgia che non necessita di alcuna anestesia: l’effetto svanirebbe.
Si pasticcia attorno a un punto, quello cioè che tende a fare, al fondo, di un atto normativo, un’ingiunzione imperativa, affermazione che deriva invece, non da un tribunale, ma da un soggetto autorevole: non in generale, ma tale agli occhi del soggetto. L’efficacia dell’atto legislativo si garantisce a partire dalla sua applicazione. Ma la sua applicazione non dice assolutamente nulla del ritorno del medesimo sul soggetto: colpirlo, attraverso un decreto, è una cosa, come e in che modo tutto ciò produca qualcosa al suo interno, è un’altra.
Discorso giuridico e percorso del soggetto possono ben trovarsi intrecciati tra loro, ma non sono identificabili o meccanicamente consequenziali l’uno con l’altro. Confonderli o assimilarli è pericoloso, qualunque sia il fine. Non ci si rende conto che quel che ha di mira un atto legislativo, per quanto sacrosanto e indispensabile, non può di per sé avere realisticamente come obiettivo una trasformazione (quale?) del soggetto.
Bisognerebbe avere la doverosa umiltà di chinarsi sulle vicende e sugli esiti di tanti, troppi minori rimasti per anni e anni presso una comunità, quando non addirittura passati da una comunità a un’altra, per temperare una certa arroganza interventivista.
La seconda concezione risulta, confrontata alla prima, meno eclatante e dirompente. Se muove da una consapevolezza, essa è più propria alla dimensione della tragedia che non a quella del radicalismo risolutorio.
Il maltrattamento del bambino è il maltrattamento dell’uomo, la prova estrema della sua incapacità a vivere e a dominare la pulsione di morte che lo abita: che ciò accada per mille ragioni, non muta la sostanza dei fatti. Saperlo vuol dire che si può e si deve intervenire, ma con la coscienza dell’immane lotta in cui si è impegnati e rispetto a cui non c’è legge o prevenzione che tenga. Ciò può forse permettere di ripensare la globalità degli interventi in termini più lucidi e meno emotivi, vagliando con attenzione le situazioni caso per caso, senza dogmatismi preconcetti, senza soluzioni a priori. Occorre pensare a come non distogliere troppo in fretta lo sguardo dall’orrore, per quanto nauseante possa essere, ben coscienti che l’orrore non se ne andrà. Solo chi accetterà di misurarsi con questo inferno, senza diventarne complice, sarà in grado di offrire un aiuto. Il male non è semplice. E il senso di colpa e di vergogna che abita le vittime dice più cose, per chi abbia la pazienza di ascoltarle, del riduttivismo cieco cui la retorica giustizialista ci vorrebbe ricondurre. Ritorna alla mente il consiglio del vecchio Spinoza: riguardo agli affetti umani, non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire. Per noi, questo comporta una direzionalità prioritaria, quella cioè che ci viene indicata dalla clinica.

Sul trauma

Le tesi giustizialiste trovano infatti un loro adeguato supporto a livello di alcune tesi cliniche o semplicemente pretese tali sul piano della pubblica opinione. Sussiste infatti una linea di continuità, in proposito. Se il male è, come tale, isolabile sul piano etico, riportandolo univocamente al soggetto incriminato, se ne deduce che, per quel che riguarda il bambino (cioè la vittima), la medesima operazione è automaticamente possibile. Isolare il male è qui isolarlo in quanto male subito come fattore a sè stante. Esso è isolabile all’interno del soggetto, così come all’esterno, lo era l’aggressore in quanto causa della sofferenza medesima. Esso ha un nome e una pratica consequente. Lo sintetizza in maniera, a dir poco imbarazzante, la stessa Marinella Malacrea nel titolo di un suo testo sull’argomento: trauma e riparazione. Cioè lesione e ricucitura. Siamo ancora una volta consegnati a un semplicismo chirurgico inquietante.
Ma è proprio così?
La tesi è facile e seducente, sin troppo. Quasi uno slogan: la violenza subita dal minore è traumatica. Il minore non è colpevole, sostengono i più audaci non lo è mai, per definizione. Cosa vuol dire, dunque? Che non è un soggetto? Come può diventarlo allora?

  • Il bambino deve rielaborare il trauma.
  • La rielaborazione ha un effetto catartico che annulla o dovrebbe annullare gli effetti del trauma.

Ma che cos’è un trauma? E soprattutto chi, per conto di quale soggetto (bambino o adulto), decide della portata traumatica di un evento? La nozione di trauma appartiene al discorso medico. Come fa intendere Freud in Al di là del principio del piacere, il trauma è espressione diretta di un accadimento violento che iscrive una lesione nel corpo del soggetto. Recuperato o ritradotto in termini psichici, il trauma muta di statuto. Esso non ha più come riferimento unico ed esclusivo un corpo, in quanto dato oggettivabile, ma è il soggetto, a partire dalla risposta che riesce o non riesce a mettere in atto in relazione a un evento doloroso, il luogo elettivo rispetto a cui collocare il trauma. Non c’è più, come in medicina, un trauma in sé. Il trauma, è rapportato al soggetto, senza di cui il trauma stesso viene a perdere consistenza. Ne consegue che ciò che fa trauma non corrisponda, a prioristicamente, a un ordine prestabilito di gravità oggettivabile, vale a dire individuabile senza il soggetto.
Il trauma in medicina non può prescindere da una risposta dettata dall’urgenza, il trauma psichico non può non tener conto, per l’attivazione di un possibile trattamento, di un tempo che può anche ben essere di ritardo, nella misura in cui implica la necessaria rielaborazione da parte del soggetto. Il non rispetto di questa temporalità rischia di sovvrapporre un intervento, supposto buono, a un altro, effettivamente perverso, schiavi però della medesima logica e debitori entrambi a una comune invasività. Crediamo, per altro, che, dal punto di vista strettamente terapeutico, una simile operazione possa render conto dell’installarsi di un transfert negativo da parte del minore, coglibile in molti trattamenti. Purtroppo in questi casi, sia la giovane età del paziente, sia l’episodio di cui è stato oggetto, vengono sovente chiamati in campo per giustificare, invece di interrogare, le cosiddette resistenze del bambino, a fronte della domanda insistente dell’interlocutore affinché ne parli (perchè dovrebbe?) e se ne liberi. Anche qui, ancora una volta, si ritorna all’idea ingenuamente “naif” che dell’evento traumatico ce ne si possa liberare, come, se si trattasse di cacciarlo via, addossandolo immaginariamente all’altro.
Non ci si libera, non si esce dal trauma. Caso mai è vero il contrario, dato che, al fondo, il compito della cura è quello di entrarvi per reperire le coordinate che l’hanno reso possibile, quelle cioè rimaste mute o prigioniere di una fantasmatizzazione incerta ed ambigua. Il trauma non può e non deve andarsene, ma trovare un senso possibile, una parola. Tutto questo comporta un tempo: il tempo necessario, non prescrivibile a priori. C’è una complessità che non è riducibile semplicemente all’ordine di una reticenza o di un’omertà “giudiziaria”. E’ la complessità che abita il soggetto e che non può essere ridotta al semplice “non lo vuole dire”.
Crediamo che due errori vadano qui evitati. Il primo è quello che mira a appiattire il registro della verità su quello della constatazione e dunque del sapere o, se vogliamo, della verità intesa nel senso poliziesco del termine, costituita dalla corrispondenza tra il detto e i fatti. Diverso spessore assume al contrario la verità allorchè ci si riferisce, come insegna la psicoanalisi, al soggetto. Cosa vuole il soggetto? Cosa desidera? Qual’è la sua effettiva posizione? Messa in rapporto al soggetto, la verità mostra sfaccettature differerenti, entro cui convivono enunciati contrapposti e dove, nel contempo, la parola medesima si trova confrontata con il muro silente dell’indicibilità, di quello che non si può dire, ma anche e soprattutto di quel che non si riesce a dire.
Il secondo errore non può prescindere dal primo. L’elaborazione dell’accadimento traumatico non può
essere pensata nei termini di un atto puro e univoco, come la confessione di un delitto nel finale di un giallo. Alla nozione di atto e alla temporalità che gli è propria va sostituita quella di processo. L’elaborazione dunque si dispiega e si riarticola lungo un lavoro la cui terminabilità non è nè ipotizzabile, nè ipotecabile. Il trauma domanda una rieleborazione che permetta al soggetto di riaccostarsi alla vita e alla sessualità. La rielaborazione non è la riparazione. Curiosamente il termine riparare deriva dal latino “reparare”: letteralmente procurarsi di nuovo. Cioè, ripetere? Solo successivamente, pare, significò restaurare.

Conclusioni

La storia è la storia. Come insegna la Bibbia: i padri hanno mangiato l’uva acerba, i figli hanno i denti guasti. Le colpe degli uni, ricadono sugli altri. Non occorre eliminare la complessità che la storia introduce. Porre l’accento sui fenomeni di ripetizione generazionale legati al maltrattamento non dev’essere l’occasione per orientare l’intera questione nel quadro di un determinismo ferreo. L’idea insomma che i soggetti maltrattati saranno obbligatoriamente dei soggetti maltrattanti, reintroduce nel nome della storia un’esclusione che si rivela, ancora una volta, inaccettabile, quella, aprioristica, del soggetto.
La ragione, diceva Freud, parla con voce bassa e dice sempre le stesse cose. Non esiste una cura “ad hoc” per i soggetti maltrattati. C’è invece un andamento “ad hoc” della cura per ogni soggetto, maltrattato o meno. Lo specialista è uno specialista della soggettività e dell’ascolto, non del maltrattamento. Non si tratta e non si deve inventare un dispositivo terapeutico apposta. La ghettizzazione e la segregazione del soggetto ne sarebbero l’inevitabile corollario. La cura, nell’accezione psicoanalitica, ha una sua logica e una sua precondizione che è di natura etica. Non può essere violata per nessun motivo, pena lo svuotamento del senso proprio alla stessa. Bisogna capire cosa si può o si deve fare per rimettere in gioco il soggetto e le sue questioni a partire da un disagio che viene a palesarsi, diffidando delle apparenze ed incontrando ciascun soggetto, ciascun bambino uno per uno, come se fosse la prima volta. Rendersi disponibili all’ascolto e dunque alla sorpresa può essere essenziale anche e proprio dinnanzi all’esternazione di un orrore che sembrerebbe quasi imporsi tautologicamente all’interlocutore con la forza dell’evidenza. Tutto è lì, tutto è già lì. La soluzione è una soluzione per e con il soggetto. Il rischio è alto.
All’operatore, spesso solo, tocca l’ingrato e avventuroso compito di provare a offrire al soggetto maltrattato l’occasione di rintracciare quella che potremmo definire come una possibile via d’entrata alla relazione con l’altro sessuato, ripristinando l’intreccio tra sessualità e amore, al posto di quello, perverso e nichilista, tra sessualità e violenza. Non è facile, ma occorre provarci. Per desiderio, probabilmente più che per dovere. Lo vuole l’inconscio, per chi ha tempo e disposizione per starlo a sentire. Come scriveva Holderlin: “ma dov’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.