Tavola rotonda convegno marzo 1998

Il convegno sulla legge 285/97 si è concluso con una tavola rotonda, condotta dal giornalista Riccardo Bonacina, direttore del settimanale “Vita”, alla quale hanno partecipato la senatrice Anna Bernasconi della commissione Sanità e sicurezza sociale del Senato; Massimo Camiolo, psicologo, giudice onorario del Tribunale dei Minori di Milano; Giuseppe Centomani, criminologo, vicedirettore dell’Istituto Penale Minorile “C.Beccaria” di Milano, Salvatore Guida, presidente della cooperativa sociale Stripes, Aurelio Mancini, dirigente dei servizi sociali – area minori del comune di Milano; Virginio Marchesi, psicologo, dirigente Asl 1 di Milano; Fulvio Scaparro, psicoterapeuta, direttore scientifico dell’associazione Gea (Genitori Ancora).

Pubblichiamo qui di seguito gli interventi. Riccardo Bonacina: Al mio giornale sono arrivate lettere preoccupate riguardo al controllo della qualità dei servizi e all’effettivo e diretto incontro tra finanziamenti e bisogni. Come è possibile una verifica?

Anna Bernasconi: Si sta faticosamente cercando di passare da uno stato centralista – permanendo quadri nazionali di riferimento – a uno stato profondamente decentrato, nella convinzione che dare molte responsabilità ed autonomia agli organi istituzionali decentrati, sia uno dei livelli più forti di controllo da parte dei cittadini. è infatti molto meno facile da parte dei cittadini controllare l’operato dei parlamentari o del governo nazionale, piuttosto che controllare l’operato del proprio comune o di un territorio più ampio come può essere quello della regione. E’ chiaro che questo controllo dal basso operativamente ha un solo risultato che non è immediato, ma si attua a distanza di tempo, al momento della verifica elettorale.
Per anni, in quegli anni in cui c’era molta partecipazione, proprio la partecipazione è stata enfatizzata come elemento di controllo democratico. Io credo che ora occorra che i politici comincino a diventare degli interlocutori diretti. Da parte del Ministero ci sarà sicuramente un controllo che non può essere capillare, ma che sarà attuato attraverso incontri voluti dal ministro Turco con le regioni e con i rappresentanti dei comuni, per verificare lo stato di attuazione.
Un altro elemento di controllo è insito nella legge, che non prevede residui passivi. Si tratta di una cosa non di poco conto, in quanto significa che quelle regioni e quelle aree territoriali che non saranno state capaci di usare le risorse a disposizione non otterranno più i finanziamente, che, a loro volta, saranno riassegnati a chi è stato capace di fare. La legge, dunque non prevede né residui passivi né interlocutori incapaci.

Riccardo Bonacina: Dai lavori seminariali sono emersi interrogativi sul ruolo dei genitori. Le famiglie sono citate anche nella legge 285 come risorsa attiva nei processi educativi. In particolare, qual è la sua opinione in merito al ruolo e alla funzione del padre come protagonista dei processi educativi in un contesto dove la famiglia è spesso ferita e in crisi?

Fulvio Scaparro: La mancanza della figura paterna si evince quotidianamente. Coloro che lavorano nei servizi sanno che spesso a chiedere aiuto sono le donne e risulta difficile agganciare la figura maschile. I motivi sono molti: una lunga tradizione fa sì che sussista ancora una divisione dei compiti che non ha più ragione di essere. E’ un po’ come se ci trovassimo ancora in una corte rinascimentale con il principe che non vuole vedere il proprio figlio fino a quando non è abbastanza grande da poter usare la spada e andare a cavallo. Questo tipo di atteggiamento non ha nessun senso oggi, ma, con un po’ di ottimismo, è possibile vedere segni di cambiamento, cioè un coinvolgimento maggiore dei padri in alcuni ambiti, come l’educazione. Si è padri fin dal concepimento del figlio. I mezzi di comunicazione parlano spesso di “nuovi padri”, “nuovi figli”, “nuove famiglie”, ma non bisogna lasciarsi ingannare: le novità in questo campo sono in realtà impercettibili, più che altro, dei segnali incoraggianti.
Vorrei intravvedere una sorta di filo rosso che attraversasse l’opera dei legislatori, le famiglie, gli insegnanti e gli amministratori, e che si dipanasse nella cura non solo dei bambini, degli adolescenti e dei ragazzi, degli adulti, ma anche degli anziani, comprendendo per tutti questi tre concetti fondamentali: l'”accoglimento”, “la cura vera e propria” e la “promozione”, cioè l’aiuto all’autonomia.

Riccardo Bonacina: Professor Scaparro, la recente opera legislativa in ambito sociale è secondo lei più uno stimolo, oppure, all’inverso, raccoglie e organizza le esigenze che nascono dalla società?

Fulvio Scaparro: Spero che si stia recependo qualcosa che nasce dalla società: c’è la tendenza da parte di molti dei legislatori a partecipare a incontri dove vengono poste le esigenze e le richieste degli operatori. Talvolta capita che le leggi prevengano i tempi della società, creando qualche disequilibrio. Prendiamo ad esempio la legge sul divorzio, alla cui introduzione ho assistito direttamente, partecipando attivamente anche alle battaglie di allora. All’epoca quella legge era un po’ avanti rispetto alla sensibilità comune: sicuramente una parte dei voti a favore si fondava su una sorta di delega di fiducia ai partiti, non tanto sulla profonda sicurezza dei cittadini. Questo meccanismo non è di per sé negativo, ma presuppone un periodo di assestamento. Soprattutto nell’ambito della famiglia i cambiamenti non possono avvenire ope legis, ma bisogna lavorare in continuazione con le persone, ascoltare e scambiarsi opinioni. Importante è la sensibilità che il legislatore deve dimostrare e ultimamente mi sembra che nel campo del sociale e della famiglia l’opera legislativa agisca in sintonia con le richieste della società.
Per concludere, cito Ghandi, che parlava di “peccati sociali”: “Chi lavora con gli altri, insieme agli altri, in mezzo agli altri, deve tenere presente questi rischi: una politica senza principi, una ricchezza senza lavoro, il piacere senza conoscenza, la conoscenza senza carattere, il commercio senza moralità, la scienza senza umanità, la fede senza sacrificio”.
Per Ghandi, per Danilo Dolci e per tutti coloro che hanno in mente questo modo di intendere la vita non si può prescindere da certe condizioni lavorando nella società.

Riccardo Bonacina: Il professor Scaparro diceva ciò che accomuna genitori, amministratori, educatori e tutti coloro che si occupano degli altri. Massimo Camiolo, lei che è psicologo e giudice onorario del Tribunale dei minori di Milano, quanto ritiene che queste figure siano separate nella realtà?

Massimo Camiolo: La 285 non è una grande rivoluzione nei propri contenuti, ma nella nuova forma di coordinamento degli interventi e dei servizi che essa allo stesso tempo propone e impone agli attori del sociale. Molti degli interventi vengono già messi in atto quotidianamente, ma nuovi sono l’approccio e il metodo insiti nella filosofia sottesa alla legge 285.
Credo che tutti coloro che si occupano a vario titolo e nelle varie istituzioni dei problemi dell’infanzia, dell’adolescenza, delle famiglie in difficoltà abbiano la consapevolezza della frammentazione delle strutture di aiuto e non solo. Gli elementi che supportano, infatti, le situazioni di grave crisi familiare, evolutiva, comportamentale, sono riconducibili anche a un senso di frammentazione interno, cioè psicologico. Ma anche esternamente la frammentazione è avvertibile nelle relazioni che gli individui riescono a stabilire nella comunità e soprattutto nelle risposte che le istituzioni e i servizi sono in grado di dare, a causa di una programmazione rigida e non interconnessa tra servizio e servizio, tra istituzione e istituzione.
La grande rivoluzione della 285 coincide con il messaggio di unitarietà, ponendosi per la prima volta come legge che riguarda la tutela della prole e della specie, rivalutando parti politiche che fino a ieri sono rimaste ai margini di scelte legate all’aspetto sociale, sanitario e psicologico.
Il messaggio di unitarietà sta nelle proposte, ma anche nelle modalità di erogazione dei finanziamenti e nelle risorse messe a disposizione, ma bisogna andare oltre, creando unitarietà tra famiglie, servizi e cultura sociale.
L’articolo 7, lettera B dice: Misure orientate alla promozione della conoscenza dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza presso tutta la cittadinanza e in particolare nei confronti degli addetti ai servizi di pubblica utilità. Proprio in questo si legge il senso profondo della 285 e proprio perciò spero che alla 285 seguano la riforma dell’ordinamento giudiziario minorile, la riforma delle strutture giudiziarie e dei servizi che si occupano dei minori, giungendo a fondare “Il Tribunale della persona”, un’unica struttura che sommi in sé le competenze che riguardano i minori e la famiglia, all’interno della nuova cultura di unitarietà che altrimenti rischia di essere vanificata dalla frammentazione operativa.

Riccardo Bonacina: A proposito di unitarietà, di integrazione tra servizi messi in rete tra pubblico e privato sociale volevo chiedere al dottor Marchesi, dirigente della Asl 1 di Milano, con che strumenti si può applicare questa legislazione e come l’Azienda Sanitaria Locale può svolgere la funzione di coordinamento e di controllo della qualità dei servizi?

Virginio Marchesi: Nonostante vi sia in atto una fase di passaggio da stato a decentramento, sulla via del federalismo, come è stato sottolineato da coloro che mi hanno preceduto, personalmente mi trovo ad operare, al contrario, all’interno di un nuovo contesto di unificazione. In Lombardia, per effetto di un provvedimento legislativo regionale, dall’accorpamento delle Ussl sono nate le Asl, cioè le Aziende sanitarie locali, che pongono problemi organizzativi opposti a quelli del decentramento e difficoltà a chi si trova a lavorare in questi enti, soprattutto se con compiti istituzionalmente significativi.
Credo l’Asl debba imparare subito a affrontare uno dei temi che questa legge enfatizza, cioè il passaggio da un potere di gestione – che appartiene un po’ ad una tradizione dell’ente pubblico – a un ruolo che sicuramente non è solo politico, ma anche tecnico, cioè il compito di individuare i sistemi e gli strumenti per la collocazione delle risorse, le indicazioni di massima, di garantire ai cittadini un’omogeneità dei servizi nell’ambito dei loro territori di appartenenza.
I servizi sociali sono uno dei pochi settori in cui il cambiamento nasce con istanze interne al sistema e le leggi ne hanno preso atto: il sistema delle politiche minorili, ad esempio, si è generato nell’ambito di un sistema pubblico dove sono avvenute le fasi di sperimentazione, arrivando a identificare l’esigenza di un sistema unitario e omogeneo.
Oggi si delineerà dunque un’Ussl economicamente forte che tenderà a gestire e ad omogeneizzare, ponendosi come terreno di confronto delle complessità e delle diversità. Questa sarà la scelta che noi dirigenti dovremo portare avanti e, per quello a cui sto assistendo, nell’Asl 1 ci sono spinte perché vi sia un sistema di rispetto delle storie che gli operatori hanno costruito sul territorio e delle loro singole diversità e peculiarità.
Le Asl si troveranno a confrontarsi con un altro tema di cui non abbiamo ancora discusso: il rapporto tra cittadino e sistema sanitario ospedaliero o addirittura il sistema sanitario. In Lombardia, dove sistema sanitario pubblico e privato si sono scissi, l’integrazione non sarà più solo tra sistema socio-assistenziale, Ussl, ente comunale, ecc., ma avremo il nuovo problema di configurare il rapporto tra il sistema sanitario ospedaliero specialistico e il sistema territoriale Asl.
L’Asl sarà chiamata a non espellere sul territorio le utenze ritenute indesiderate e dovrà dividersi tra il diritto del cittadino di scegliere i servizi a cui rivolgersi e un sistema economico di efficienza, in cui l’aspetto contabile ed economico e il risparmio sono centrali e funzionali rispetto all’obiettivo della progettazione.

Riccardo Bonacina : In merito al rapporto tra servizio sanitario e servizio socio assistenziale, diamo la parola alla rappresentante del legislatore in questa sede, la senatrice Bernasconi.

Anna Bernasconi: La separazione lombarda tra Asl e ospedale e quindi non solo tra sociale e sanitario ci sta creando tanti problemi, poiché all’interno del sanitario vi sono due interlocutori con funzioni completamente diverse, dove l’Asl che non ha più strutture di fatto teoricamente dovrebbe gestire i soldi, mentre l’interlocutore delle prestazioni sanitarie è l’ospedale o il privato accreditato. Insisto col dire che si tratta di una scelta solo lombarda e se anche in Emilia Romagna ci sono alcune tendenze di riassetto del sistema sanitario, queste non sono dello genere. A livello nazionale si sta riscrivendo il decreto legislativo di riforma del sistema sanitario -a non senso dello scorporo- a cui anche la regione Lombardia dovrà adeguarsi.

Virginio Marchesi: L’ente pubblico deve scegliere i settori strategici da gestire, non può fare l’ente appaltatore. La scelta di liberalizzare il mercato non individua gli strumenti professionali, non attua la programmazione. Parlando di minori, la protezione non può essere solo un atto amministrativo, deve essere attuata sulla base di un progetto. Ci deve essere una sorta di gioco delle parti, dove la tutela di tipo tecnico si interseca con la competenza clinico-professionale.
Le Asl riusciranno ad avere una funzione di governo se riusciranno a gestire i servizi strategici, scegliendoli insieme ai comuni. E per i servizi strategici si intendono quei servizi essenziali, non necessariamente gratuiti, che sono risposte ai bisogni. Ci sono servizi ad alta complessità e ad alto costo che nessun privato può gestire in termini di efficienza o di efficacia. Noi abbiamo sul nostro territorio utenze che per basso indice di presenza sono utenze dimenticate: l’Asl deve gestire quindi questo tipo di nuove complessità, in quanto diventa strategico anche andare verso le utenze minoritarie.

Riccardo Bonacina: Il fatto che l’ente pubblico o l’Asl si concepisca sempre meno come gestore e sempre più come governo, quindi che svolga le sue funzioni più sul controllo e sul coordinamento, credo possa incontrare l’offerta delle realtà del privato sociale. Sentiamo Salvatore Guida della cooperativa sociale Stripes.

Salvatore Guida: Mi sento di condividere pienamente l’intervento di Marchesi rispetto alla distinzione tra scelte strategiche e scelte gestionali di ordinaria amministrazione. Aggiungo che, per quanto riguarda la maggioranza delle realtà qui rappresentate, cioè i comuni, esiste la possibilità e qualche volta la necessità di appaltare dei servizi, ma un errore va evitato: appaltare dei servizi senza avere la certezza di aver mantenuto o aver acquisito la competenza necessaria ad esercitare sia le funzioni di interazione e interlocuzione con il soggetto appaltatore sia le funzioni di controllo della qualità e della rispondenza agli obiettivi dell’amministrazione che ha fatto il suo progetto. In caso contrario, non siamo più a un discorso di interazione e di integrazione
tra privato sociale e pubblico, ma siamo semplicemente alla dismissione di responsabilità, o a quella che nel linguaggio un po’ barricadiero si chiamava la svendita del pubblico a favore del privato. A quel punto, se il comune rinuncia alla propria funzione, sia che si tratti di sociale sia di non sociale è sempre una svendita.
Vivendo personalmente un’esperienza duplice, all’interno del pubblico e del privato sociale contemporaneamente, conosco i rischi in entrambi i settori e, in più, vi assicuro che anche la cooperativa viene danneggiata se dall’altra parte non ha un interlocutore competente e se non trova un terreno comune su cui discutere, ma solo un linguaggio biecamente amministrativo. Lo stesso accade se non si riesce a far prevalere il concetto che non è possibile gestire un servizio senza includere ore per il coordinamento, per la programmazione, per la supervisione. Mancando questi elementi di qualità si stabilisce un rapporto mercenario che fa male alla cooperazione e fa malissimo al pubblico e soprattutto alla società.

Riccardo Bonacina: Per fare il punto sulla preparazione dell’ente pubblico in merito alle procedure mi rivolgo al dottor Mancini, che è dirigente del comune di Milano, prossima sede dell’authority no profit Ci sono accordi di programma, si sono stabilite procedure, cioè l’ente pubblico si sta attrezzando ad essere organo di governo, oppure no?

Aurelio Mancini: Conoscendo meglio la realtà di Milano, posso testimoniare l’esperienza delle altre 14 città che insieme a Milano sono direttamente assegnatarie dei fondi previsti dalla legge 285. Le amministrazioni si sono mosse molto, in alcune città sono stati creati degli assessorati con il compito di governare la gestione della normativa, a Milano si sta costituendo un gruppo di lavoro intersettoriale, interno all’amministrazione, il cui coordinamento sembra essere affidato ai servizi sociali. Questo è un elemento preoccupante, in quanto c’è il rischio, perlomeno a Milano, che l’applicazione di questa normativa tenda ad assumere caratteri eccessivamente sociali, mentre mi sembra che questa legge vada interpretata come investimento sulla normalità. Quando si parla di piano territoriale di intervento, immagino una programmazione che il sindaco titolare della zona attua per il proprio territorio e la propria città, partendo dall’analisi di uno stato di normalità e dei suoi bisogni.
Occorre lasciare da parte un vizio che noi operatori sociali ci portiamo dietro, cioè il fatto di vedere il disagio più diffuso di quello che è. Vero è che ci occupiamo di situazioni di disagio e che spesso ci occupiamo di situazioni in cui il danno è già conclamato, ma io interpreto questa legge come prevalentemente rivolta agli aspetti di normalità e come tale dà la possibilità alle amministrazioni locali e al sindaco in primo luogo di darsi un programma che partendo proprio dalla normalità e dall’obiettivo di tendere a stimolare e favorire tutte le situazioni di normalità intervenga anche nelle situazioni di disagio.

Riccardo Bonacina: Professor Scaparro, questa legge recepisce e sottolinea un’infanzia sempre più interlocutore attivo, sempre più protagonista. Gli operatori dovranno cambiare prospettiva, dovranno formarsi in maniera diversa, le università faranno qualcosa?

Fulvio Scaparro: Un’espressione incomincia a circolare: “bambino come interlocutore attivo”. Cerchiamo di capire che cosa significa: è un bambino attivo il bambino chiamato a testimoniare contro i genitori in tribunale, è attivo il bambino che fa parte dei consigli comunali per bambini, è attivo il bambino che porta un cartello in mano durante un corteo contro la scala mobile? Egli, insomma, è attivo perché è un piccolo cittadino, ma credo che nella legge 285 si intende altro, per il semplice fatto che non tende alla strumentalizzazione dei bambini. Cosa significa, dunque, nella pratica quotidiana “interlocutore attivo”? E’ ancora una frase da capire: da parte mia dico che anche il linguaggio potrebbe fare parte della formazione degli operatori, i quali hanno anche il compito di dare una consistenza operativa alle espressioni della legge. E’ necessario che anche sui temi della legge si faccia formazione: scambiare esperienze e i prodotti dei nostri lavori serve anche a perfezionare le leggi.

iccardo Bonacina: In Italia spesso si fanno leggi che prevedono lo stanziamento di miliardi e non c’è un capitolo che riguardi gli strumenti e la modalità di comunicazione. Questa mancanza è emersa anche dagli operatori. State prendendo atto di questo problema?

Anna Bernasconi : Credo che oggi sia necessaria la massima attenzione alla comunicazione, soprattutto ai mezzi telematici. In questo senso si stanno facendo sforzi in molti ministeri, come quello della sanità: talvolta, però sono gli stessi mezzi di comunicazione, soprattutto la stampa, che non diffondono l’informazione su ciò che sta avvenendo.

Riccardo Bonacina: L’introduzione della 285 è un fatto sicuramente positivo, ma resta molto da fare in tema di giustizia minorile, di tribunale alla persona, di tribunale per i minori.

Giuseppe Centomani: Le difficoltà ad interpretare il nuovo sorgono perché tendiamo a dare vecchi significati anche a fenomeni che sono palesemente nuovi. La mia preoccupazione rispetto alla 285 è che le visioni burocratiche delle leggi sul sociale prendano avvento, tendendo a sminuire il significato di novità e di rivoluzione anche terminologica insite in questa legge.
Ho l’impressione che le file centrali della giustizia minorile abbiano difficoltà a mettersi in connessione con altre parti dello stato e che non ci sia tradizionalmente disponibilità al confronto, al dialogo, a costruire insieme. Il dipartimento per gli affari sociali è visto come un concorrente piuttosto che come un collaboratore con cui progettare e realizzare un programma. Ci saranno delle resistenze dal punto di vista culturale e psicologico ad entrare in relazione, per la paura di perdere parti delle competenze acquisite. Per quanto riguarda il “Progetto ’98” e la prospettiva sulla gestione della giustizia penale per i minorenni, credo che inevitabilmente si debba cercare un collegamento con la nuova logica di promozione del benessere e dei diritti sociali che la 285 e l’impostazione del dipartimento degli affari sociali stanno diffondendo. Ci sono i primi segnali, anche se non c’è una consistenza tecnica inalcuni apparati dello stato come, il ministero di grazia e giustizia, capace di cogliere la novità e proporre delle risposte competenti che si integrino al nuovo corso.

Salvatore Guida: Le riforme non possono essere scritte e gestite dai riformandi. Finché per semplificare la situazione continuimo a far riformare i modelli da coloro che sono stati gli ideatori di quelli precedenti, la situazione diventerà sempre più complicata. Una provocazione: non sarà che questa 285 sembra meno complicata delle altre leggi e scritta in un italiano comprensibile perché nasce in un ministero senza portafoglio dove, essendoci meno spazio per la burocrazia, ci si è valsi dell’aiuto di altre competenze, estranee alla burocrazia ministeriale?

Massimo Camiolo: L’ottimismo e il pessimismo rispetto alla situazione presente e alle novità non sono che atteggiamenti emotivi e affettivi rispetto al rapporto tra le nostre aspettative e la possibilità di realizzarle. Ma il problema è stabilire quali aspettative abbiamo rispetto alla realtà presente. Credo che non si stia inventando niente: rispetto alla possibilità di intervenire sulle fasce marginali che premono sulla normalità e che spesso sottraggono risorse, non si devono costruire ricette estremamente complesse e articolate. Si tratta piuttosto di prendere atto della realtà, di come e cosa siamo e degli strumenti che abbiamo a disposizione. Bisogna essere realistici: in questo momento ci vengono forniti degli strumenti che non hanno poteri magici, ma che sono a disposizione per partire dalla realtà, per aggredirla, per cercare di portare a termine progetti che sono alla nostra portata. Prendiamo dunque atto della realtà per cominciare a batterci in questo progetto di unitarietà che prende di nuovo in mano il rapporto con l’infanzia e gli adolescenti.