Ti racconto una storia che viene da lontano

“Ti racconto una storia e viene da lontano” è il titolo di una raccolta di autobiografie di preadolescenti e adolescenti migranti arrivati nel nostro paese negli ultimi tre anni, che frequentano varie classi della nostra scuola: la scuola media statale di via Scialoia a Milano. La proposta della stesura delle autobiografie ai ragazzi stranieri – di cui qui presentiamo alcuni frammenti – segue l’esperienza positiva del Il“parlar di sé” realizzata nell’anno precedente, sia nelle classi multietniche come strumento di conoscenza reciproca e di relazione e scambio interculturale, sia nei piccoli gruppi di alfabetizzazione di alunni stranieri come strumento, più coinvolgente affettivamente, di esercizio linguistico e arricchimento semantico.

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In quell’esperienza, integrata con materiale audiovisivo amatoriale e familiare (le videocassette del matrimonio della zia o del cugino piuttosto che della festa scolastica nel proprio paese d’origine), era maturata in noi la percezione della profonda lacerazione di luoghi, di affetti, di consuetudini e costumi e della forte sofferenza che ne seguiva (come i racconti e i filmati ci rimandavano), da cui appunto l’idea di continuare, proponendo ai ragazzi di mettere insieme nella narrazione scritta quel rammenti condivisi nel racconto orale.
I nostri ragazzi hanno accettato con molto entusiasmo e volontà l’idea di ripercorrere in modo più organico le tappe della loro vita; non sono stati reticenti neppure laddove si toccavano, giocoforza, momenti e situazioni dolorose.
Ciò ha comportato per loro anche una scommessa e un lavoro non facile sul piano linguistico, dovendosi cimentare con una lingua scritta da poco conosciuta (per alcuni soltanto da pochi mesi). Per quanto i livelli di alfabetizzazione dei ragazzi fossero diversi, tutti hanno seguito un’identica modalità per raccontare la loro infanzia/adolescenza (la nascita e i suoi riti, il paesaggio e la casa, i ricordi e giochi d’infanzia, la partenza di uno o entrambi i genitori, i nonni, la scuola, il viaggio, il nuovo paese, il futuro), sono state loro proposte tracce molto graduate e via via più dettagliate, ideate dal ragazzi stranieri della scuola a uno stadio più avanzato di conoscenza dell’italiano. Si sono perciò rese necessarie parecchie riscritture del testo per l’autocorrezione degli errori, solo segnalati dalle insegnanti e che ogni ragazzo/a tentava, con i propri mezzi linguistici, di riparare.
L’intervento correttivo delle insegnanti si è limitato alla segnalazione degli errori di ortografia, di alcune costruzioni sintattiche, cercando però di preservare la genuinità dello stile linguistico, mentre si è cercato di non intervenire sul lessico se non per l’uso
assolutamente inappropriato di alcuni termini. Un lavoro di apprendimento della lingua italiana lungo e faticoso, ma sicuramente più gratificante e produttivo delle “cassiche” lezioni di grammatica. La conoscenza parziale della lingua italiana ha reso possibili produzioni del tutto personali e spontanee, dando luogo a frasi, alla scelta di vocaboli gradevoli e insoliti per ragazzi stranieri di prima alfabetizzazione.
Queste storie che vengono da lontano ci trasmettono atmosfere e realtà che spesso a scuola si intuiscono solo con la mediazione di patinati libri di geografia o di film più o meno esotici. Nel racconti autobiografici queste realtà invece si avvicinano a noi, prendono corpo: paesaggi e case vissute, feste che accompagnano le nascite, usi familiari e domestici, regole e costumi (!) di ambienti scolastici per noi inimmaginabili. Vediamo allora queste storie un po’ più da vicino – da noi raggruppate per tematiche ricorrenti – attraverso le stesse colorate espressioni dei ragazzi.

I luoghi

Il mondo degli affetti non riguarda solo i familiari e gli amici, ma si estende anche ai luoghi. Ognuno rimane legato qua si fisicamente agli spazi che per primi ha conosciuto e che “sente” anche a distanza.

“Mi chiamo E., sono nata nel 1983 in Bangladesh, a Dhaka, la capitale: m’ quella città ci sono più di tre milioni di abitanti. E’ una bella città, c’è tanto verde, tanti uccelli. E’ una città molto, molto calda e anche d’inverno non fa tanto freddo. Lì la gente ha le case molto grandi, e chi ha un palazzo di cinque o sei piani affitta gli appartamenti, non si può vendere un appartamento, ognuno ha il proprio palazzo” . (ME, anni 15, Bangladesh)
“In India l’estate è molto calda e l’inverno un po’ più fresco, in estate piove molto nel mio villaggio; c’erano tanti alberi diversi, a fianco della mia casa c’era un albero di frutta. Nella nostra fattoria avevamo tanti alberi di mango, vicino alla mia casa c’era un vecchio tempio e di fianco c’era un piccolo laghetto”. (P.M., anni 17, India)
“Quando ero piccolo abitavo con i miei genitori in una piccola città che si chiama Tarlac. Il mio paese era grande. La mia cosa era una capanna. Io ho abitato cinque anni in questa capanna”. (S.R., anni 15, Filippine) “Nella mia città, Lima, ci sono più alberi’ che a Milano, la mia città è tre volte più grande di Milano. Ogni casa ha il suo giardino. Nel mio quartiere le case sono ville da due a cinque piani’, la gente che sta abbastanza bene economicamente ha la piscina propria, invece le persone che non hanno denaro abitano M* periferia e affittano un’abitazione per vivere. Alcuni vivono sulle spiagge anche in abitazioni di paglia e legno. Le persone che non hanno neanche da mangiare vanno in un centro di accoglienza dove vengono aiutati” (S.B., anni 16, Perù)

La nascita e il nome

Riti di vita: ogni paese ne ha di particolari, alcuni gravi e impegnativi, altri insoliti e curiosi, sempre comunque ben augurali. Presso tutte le culture si invocano lunga vita, abbondanza, felicità e a volte anche bontà.

“Poi, quando ho avuto quaranta giorni, mi hanno portato fuori perla prima volta” (M.E., anni 15, Bangladesh)
“In Cina quando un bambino nasce ha già un anno perché si’ conta quando era nella pancia della mamma. Quando sono venuta m Italia ho dovuto dire che avevo un anno meno perché in Italia si’ comincia a contare l’età da quando nasci…” (H.X., anni 16, Cina)
“Dopo la mia nascita, la famiglia di mio nonno era molto triste e disperata perché pensavano che lo fossi un maschio, veramente la mia mamma era la più triste perché quando eri incinta le dicevano sempre che sicuramente era un maschio. Mio padre e sua sorella avevano già deciso di non farmi vivere, però dopo non so che cosa gli abbia -fatto cambiare idea e mi hanno dato il nome di E Dopo la mia nascita hanno deciso di mandarmi a casa di una nutrice per vivere insieme a lei, a Yu-Hu”. (J.Y., anni 14, Cina)
“Dopo la mia nascita ho avuto il cognome H. dato dalla mia famiglia, il nome J. che mi è stato dato da mia madre e Q che mi è stato dato da mio padre, perché una volta aveva letto un libro e visto questa parola e gli era sembrata buona e bella”. (H.J., anni 16, Cina)
“Dopo la mia nascita i miei genitori hanno fatto le pesche con la farina, queste si chiamano pesche della longevità e hanno fatto una festa. Sono venuti i parenti, gli amici e c’erano le pesche per tutte le persone. Questo significa che i genitori mi* volevano tanto bene e mi auguravano una lunga vita. Quando ho avuto tre anni il mio nonno mi ha dato il nome, voleva che quando crescevo sarei diventato una persona benevola e piena di pietà”. (L.F., anni 18, Cina)

La scuola

L’universo scuola qui si colora di immagini diverse: tempi, regole, impegni e responsabilità sono spesso fonte di sorpresa.

“Nel mio paese ci sono le scuole separate per i maschi e per le femmine. Solo m’ alcune scuole i maschi e le femmine studiano insieme ( .. ). Se un ragazzo o una ragazza non faceva i compiti la prof. prendeva un bastone e picchiava e tutti facevano i compiti. (S.L., anni 14, Sri Lanka) “La mia scuola in Cina era molto grande. In una classe c’erano 60 o 70 persone, ma i professori erano pochi. L’orario di studio era molto, molto pesante. Dopo le lezioni c’erano tanti esercizi da fare. Però a me piaceva la mia scuola, perché era bellissima, allegra e interessante”. (Y.W., anni 16, Cina)
“La scuola era grande, si entrava alle sette e trenta, poi dalle sette e trentacinque alle otto si pregava e si cantava l’inno della scuola, dopo aver cantato si andava m classe a studiare e ti insegnavano anche cose diverse dall’Italia, ad esempio a cucire, a fare le scarpe e i cappellini, a danzare e a fare Karatè. Si andava con l’uniforme, i pantaloni blu, la camicia bianca, un maglione rosso con un piccolo stemma e le scarpe nere. Quando un ragazzo non faceva i compiti le maestre lo picchiavano con la cinghia e gli tiravano le orecchie”. (A.I., anni 13, Perù)
“Quando comiciavo ad andare alla scuola media i miei genitori vennero in Italia (…). Fino alla terza media 10 abitavo a scuola. Andavo a scuola la domenica pomeriggio e tornavo a casa il sabato: per restare dovevo portare il cibo, i vestiti e tutto ciò che poteva servire. Quando tornavo a casa il sabato facevo un bel bagno e i compiti, la domenica mi alzavo presto, lavavo i vestiti e preparavo i cibi e i vestiti per la settimana successiva”. (L.F., anni 18, Cina)
“I maestri erano bravi’, ma erano vinti dalla stanchezza, perché in una classe c’erano 60 0 70 alunni. Nella scuola c’era una disciplina scolastica severa. Ogni persona non poteva portare le scarpe con il tacco e fare la messo in piega”. (Z.Y., anni 15, Cina)

Chi ci lascia, chi si lascia

Di fronte alla paura del viaggio e del nuovo che ti attende, le differenti culture di appartenenza dei ragazzi trovano momenti di forte contatto. Il distacco dalle persone care lasciate nel proprio paese (nonni e zii che spesso li avevano allevati) è stato per la maggioranza di loro contemporaneo e coincidente al ricongiungimento con uno o con entrambi i genitori che li avevano preceduti, spesso molti anni prima, nel cammino migratorio.

“Io sono rimasta con quei’ signori fino a 11-12 anni, quando mia mamma è rimpatriata per portare me, mia sorella e mio fratello a vivere in Italia con lei. Siccome sono andata a vivere con quei signori quando avevo tre anni, ho sempre pensato che fossero loro i miei genitori. Per me è stato molto difficile, quando sono arrivata in Italia, vivere con la mia vera famiglia, perché non avevo confidenza” (J.Y., anni 14, Cina)
“Quando ho avuto 12 anni sono venuto in Italia. Sono partito dallo Sri Lanka da solo con mia sorellina perché i miei genitori erano già a Milano per lavoro. Ho salutato i miei nonni che mi hanno abbracciato, poi davanti ai miei nonni ho pregato m ginocchio, poi mio nonno mi ha accarezzato e mi ha detto ‘studia bene e ricordati di me”. (S.L., anni 14, Sri Lanka)

Portar con sé qualcosa della prima vita

Una sorta di ritualità accomuna paesi diversi nella preparazione al distacco.

“Dallo Sri Lanka ho portato a Milano un quaderno con i testi delle canzoni che mi piacevano di più, che avevo copiato prima di partire” (S.L., anni 14, Sri Lanka)
“( .. ) siamo andati a comprare il chili che non c’era m’ Italia e altre cose per la casa tipo pentole di forma diversa da quelle italiane ( .. ). Mio nonno mi ha regalato un orologio e mia nonna mi ha preparato il cibo che mi piacevi di più e mi ha detto di non dimenticarmi di lei (..). Il nonno ci ha anche regalato una collana di fiori rossi come portafortuna” (P.D., anni 14, India) “Le mie tre amiche più care mi hanno regalato un paio di orecchini, un anello e una collana, e mi’ hanno detto che dovevo scrivere e non dimenticarmi di loro” (H.W., anni 14, Cina)

Il viaggio

Tutti
possiamo riconoscerci nel sentimenti ambivalenti di dolore lacerante per ciò che si lascia e di incontenibile entusiasmo per il nuovo che ci aspetta.

“Noi sapevamo che saremmo andati in Italia ( .. ). Finalmente un giorno è arrivata la lettera di mio padre (..). Con i miei* cugini in quel periodo eravamo sempre insieme perché eri rimasto poco tempo prima della partenza e non si sapeva quando ci saremmo rivisti (..). Quando 10 sono salito sul] automobile io ho pianto molto, perché non volevo lasciare il mio villaggio e i miei nonni ( .. ). Era il mio primo viaggio m’ aereo e lo ero molto felice!” (P.M., anni 17, India)
“Il giorno di Capodanno del 1998, al mattino, arriva mia zia e mi dice che dopo due ore sarei partita per l’Italia (..). Le mie zie non mi avevano detto niente perché avevano paura che io facessi qualcosa di poco piacevole, che me ne andassi prima di partire (..). Al momento dei saluti ho provato tristezza e felicità: tristezza perché non mi immaginavo che da un giorno all’altro sarei dovuto partire e separarmi dai parenti con cui avevo sempre vissuto, felicità perché dopo ben cinque anni rivedevo mia mamma”. (S.B., anni 16, Perù)

Dopo l’evento del viaggio, le autobiografie ci descrivono un mondo a noi più conosciuto: le storie “venute da lontano” diventano storie vicine, calandosi nella nostra realtà, vista però con gli occhi dell’ “altro”. E’ uno sguardo esterno, inconsueto e per questo per noi prezioso.

Le difficoltà

Dalle difficoltà linguistiche incontrate all’inizio, il senso estremo di solitudine di chi deve ricominciare da zero, quasi tutte le autobiografie raccontano, nelle testimonianze che seguono, di un inserimento nella nostra comunità scolastica sereno, in un clima di convivenza accogliente, confermando il valore positivo della presenza di diversi gruppi etnici nella scuola.

“Quando sono arrivato M* Italia avevo paura perché non capivo l’italiano (..). Non mi piaceva stare a casa da solo, avevo paura ad andare a scuola” (P.D., anni 14, India) “In Italia si devono fare tanti documenti e per me questo è difficile, capisco poco quando lì dobbiamo fare e poi ci* sono italiani cattivi* che non mi piacciono. In Italia mi trovo un po’ male quando i miei compagni non mi parlano” (H.W., anni 14, Cina)
Il primo giorno di scuola è stato molto difficile, non sapevamo la lingua, però la prof di lettere parlava inglese con noi. Dopo, piano piano, lo ho imparato alcune parole e adesso, dopo un anno, ancora non mi sento di parlare bene l’italiano, è più facile scrivere! Nella scuola ci sono tanti ragazzi stranieri, del Perù, delle Filippine, però in maggioranza sono ragazzi cinesi’. Mi è piaciuta molto questa scuola, anche i ragazzi italiani sono bravissimi” (P.M., anni 17, India)
In Italia mi sono piaciuti i mezzi pubblici’, perché sono comodi, mi è piaciuta la pizzi perché al mio paese non c’era. Non mi è piaciuto l’ambiente perché per strada ci sono tante cacche di cane e tanta immondizia. In Italia mi trovo così così, perché ho ancora pochi amici e non ho niente da fare quando sono libera. A scuola mi trovo bene perché gli M’segnanti e i compagni sono amichevoli”. (H.J., anni 16, Cina)

Il futuro

Abbiamo chiesto ai ragazzi di concludere le loro autobiografie ponendo quelle domande che gli adulti fanno spesso al ragazzi di quest’età: “Che cosa vorresti fare da grande?”; “Dove te lo immagini il tuo futuro?” Tutt’altro che scontate nel loro caso, le risposte, molto dissimili e varie, ci restituiscono la contraddittoria condizione di questa nuova generazione di emigrati che segue il precedente progetto migratorio di altri (i genitori). La loro età non giovanissima, infatti, li pone di fronte alla prospettiva di doversi formare e forse trascorrere la maggior parte della propria vita in un paese straniero, essendosi però già fortemente radicati nel loro paese d’origine. Le autobiografie si concludono così confermandoci la sensazione di ragazzi a cavallo tra due vite e due mondi; la loro dimensione desiderale interroga il nostro compito, confermando in ogni modo ulteriormente la potenzialità autoeducativa e trasformativa della narrazione di sé.

“Vorrei rimanere in Italia, perché qua c’è la mia famiglia. Se tornassi in Cina io non saprei cosa fare, dovrei studiare ancora il cinese” (L.J., anni 14, Cina) “Da grande vorrei’ lavorare in un ristorante. Io non vorrei stare in Italia, vorrei tornare nel mio paese perché lì ho i mei amici e i miei, familiari”. (H.X., anni 16, Cina)
“Io da grande vorrei fare il ragioniere, così imparo a fare tanti documenti e non avrò più problemi. Vorrei tornare nel mio paese, ma la mia famiglia adesso vive in Italia e mi dispiacerebbe lasciarla” (H.W., anni 14, C’ma)
‘A me piacerebbe quando sarò grande lavorate per fare i vestiti o forse le borse. Io voglio rimanere in Italia perché si* guadagna di più che in Cina”. (H.L. anni i i Cina)
In futuro penso di fare il cuoco e di fare dei Egli, poi di ritornare m. Cina e n’trovare i miei vecchi amici”, (Z.F., anni 13, Cina)
“Da grande io vorrei fare la modella, perché così potrei indossare tanti bei vestiti. Io vorrei rimancre in Italia perché qui c’è la mia famiglia e anche tanti amici” . (Y.C., anni 16, Cina)
“Per il mio futuro io ho tantissimi desideri, però mi piacerebbe fare l’insegnante d’inglese e anche mio nonno mi aveva detto ‘Tu dovrai fare l’insegnante d’inglese (..). Io penso che il mio Dio mi aiuterà a diventare un bravo insegnante d’inglese. Questo lavoro mi piacerebbe farlo nel mio villaggio, perché là ci sono tanti bambini’ che non sanno la lingua internazionale e io li aiuterei per la loro vita” (P.M., anni 17 India)

La raccolta di autobiografie ha ottenuto nella scuola un grosso successo: più di 150 copie, presentate alla festa di fine anno, sono andate a ruba nelle classi. In futuro, anche se il progetto è per ora solo abbozzato, intendiamo estendere l’esperienza del racconto autobiografico agli alunni italiani che hanno rivendicato anche per loro l’occasione di raccontarsi.