Tra donne e uomini – dialogando con Marco Deriu

Dialogando con Marco Deriu

Apriamo un nuovo spazio sulla rivista e il suo nome già chiarisce i temi, i contenuti, le riflessioni e i dibattiti che in queste pagine, in ogni numero, intendiamo ospitare. E uso non a caso la parola ospitare perché la mia intenzione è quella di accogliere in questo spazio diversi contributi e voci, di donne e uomini, secondo anche differenti modalità: riflessioni, dialoghi, interviste, narrazioni di esperienze.

Sappiamo, infatti, che esiste ormai anche nel nostro Paese una realtà di dialogo tra i due generi, che è diffusa anche se forse frammentata: diversi gruppi, con propositi diversi ma accomunati dal desiderio – emerso negli ultimi anni – di stabilire dialoghi e confronti tra donne e uomini sui cambiamenti dei soggetti sessuati e sulle loro relazioni.

Ma non solo gruppi più o meno organizzati, vi sono anche incontri tra singoli e singole, dibattiti, attenzioni e interventi su giornali, riviste, libri dedicati al tema di questo nuovo dialogo. Non molti in verità, ma a mio parere in crescendo anche come visibilità.

Ritengo un passaggio necessario questo confronto tra i generi, tra le donne e uomini che desiderano il mutamento e desiderano realizzarlo in un dialogo – difficile e complesso – condiviso, se pure mantenendo anche il luoghi e i tempi della separatezza.

Avviamo dunque questa nuova possibilità di incontro e conversazione a distanza, che spero nel tempo raccolga interesse. E desidero iniziare con un dialogo con Marco Deriu, che negli scorsi mesi ha organizzato un evento complesso e molto interessante: una due giorni presso l’Università di Parma con relazioni e interventi che si sono aperti a molte tematiche – a partire da quella della violenza degli uomini sulle donne – introdotte da parole che hanno acquisito significato nel dialogo di questi anni, discusse poi nel confronto con donne e altri uomini. Mi sembra che questa iniziativa possa aiutarci a comprendere quali sono i temi principali che animano il confronto tra sessi, quali criticità e quali risorse occorre si mettano in luce perché questo confronto continui. E a partire da qui, dalle parole che scambio con Marco e da questo numero di Pedagogika spero veramente che si possa contribuire ad arricchirlo.

Come già accennavo questo spazio è libero e ospitale agli interventi di donne e uomini che vorranno scrivere, ma vorrei accogliere anche informazioni, segnalazioni di eventi, libri, naturalmente sempre nel segno di questo dialogo. Potete quindi scrivere a pedagogika@pedagogia.it all’attenzione di Barbara Mapelli perché quanto vi interessa venga pubblicato.

Per la due giorni di Parma hai fatto un grande sforzo organizzativo, e di fatto sei riuscito a riunire insieme la maggiorparte di uomini e donne che hanno partecipato al dibattito e al dialogo comune tra i generi in questi anni. Credo con te che la scelta sia stata giusta perché è tempo che si faccia una riflessione complessiva su quanto si è pensato, fatto e discusso nel confronto tra i due generi. Ma non solo un bilancio evidentemente, anche un lavoro per proseguire: puoi indicarmi alcuni degli obiettivi specifici che ti sei proposto?
Il seminario di Parma del 14-15 novembre scorso cercava di fare il punto su un aspetto chiave delle relazioni tra uomini e donne, ovvero la questione della violenza maschile contro le donne. Certamente oggi si parla molto della questione della violenza ma ho l’impressione che il modo in cui se ne parli sia al tempo stesso riduttivo e fuorviante. Da una parte se ne parla fondamentalmente dentro la cornice dell’emergenza. Non mi riferisco solo alle politiche di securitizzazione e all’inasprimento delle pene, ma al fatto che si tratti questi eventi come qualcosa di eccezionale, perdendo di vista il legame tra queste violenze e la normalità delle nostre relazioni. Quello che voglio dire è che molte delle convinzioni, delle rappresentazioni e degli schemi di pensiero che ho trovato negli uomini autori di violenze che ho intervistato si ritrovano in forme molto simili in molti altri uomini, compresi operatori sociali, medici, rappresentanti delle forze dell’ordine o delle istituzioni. Da una parte si tratta dunque di codici e modalità di pensiero molto diffuse e profondamente radicate. Dall’altra la violenza non è isolabile solamente nel gesto violento dei maltrattamenti o delle violenze che arrivano ai servizi o ai mezzi di informazione. C’è una violenza strutturale nei rapporti tra uomini e donne che è incorporata nel linguaggio, nella divisione sessista del lavoro, nelle tradizioni religiose patriarcali, nei sistemi politici e nelle strutture materiali e simboliche più profonde. Questo non significa vedere la violenza dappertutto o non distinguere tra forme di violenza molto diverse, con gravità e impatti molto differenziati ma significa tuttavia comprendere queste connessioni e la forza che ne deriva rispetto alla possibilità di impedire o contrastare questo fenomeno. Senza questa coerenza e ridondanza sarebbe difficile spiegare la persistenza e la tenacia della violenza maschile contro le donne. Dunque se vogliamo fare dei passi avanti dobbiamo interrogare la violenza come una questione culturale profonda, come una questione di civiltà. Intendo un modello di civiltà tra uomini e donne, tra il maschile e il femminile che attraversa come un filo rosso la nostra storia.
Da un altro punto di vista, riconoscere le radici culturali e sociali di questa violenza significa riconoscerne anche una storicità. Per quanto radicata nella nostra storia essa non è necessariamente un orizzonte ineliminabile. Si tratta al contrario comprenderne i codici, i valori, il significato che essa ha rappresentato e rappresenta per poterla meglio affrontare, cercando di ispirare agli esseri umani una prospettiva differente. Da qui il titolo di queste due giornate: “Disonorare la violenza. Le radici culturali della violenza maschile“. Occorre rendere la violenza maschile sulle donne qualcosa di inaccettabile e intollerabile nella testa e nelle coscienze delle persone. È un cambiamento che richiederà del tempo, ma occorre nominarlo, pensarlo, prefigurarlo, per avvicinarlo e renderlo plausibile.

Ho condiviso, tra le tue scelte, le due modalità principali: lavorare sulle parole e partire dalla parola maschile per trovare rispondenze nell’interlocuzione femminile. Le parole, il linguaggio sono state senz’altro uno dei centri di interesse, una crucialità su cui abbiamo a lungo pensato, prima noi donne e poi insieme con gli uomini. Prendendo in considerazione parole che hanno assunto nel tempo significati irrigiditi e stereotipati, lavorandoci fino a sfinirle per mutarle: inventandone altre? Certamente il linguaggio comune è per il momento uno strumento inadeguato, che non rispecchia ancora l’evoluzione del nostro essere nel mondo e dell’essere in relazione tra i sessi. Un lavoro immenso, ma le parole hanno ancora sensi diversi tra donne e uomini, anche tra noi che da anni ci ‘parliamo’ in uno sforzo comune? Sta qui uno degli obiettivi che ti sei proposto con la scelta durante il seminario di dare prima la parola (le parole) agli uomini e chiedere poi alle donne di interloquire? Una sorta di rovesciamento di quanto è finora avvenuto, poiché il movimento degli uomini ha avviato le proprie pratiche e riflessioni a partire dalla ‘parola femminista’, ne ha ripercorso – in parte – alcune forme e strategie. Ma è così? e quali le differenze?
Si, hai colto bene i punti centrali. Le parole non sono solo mezzi attraverso cui esprimiamo o veicoliamo i nostri pensieri agli altri, ma sono anche la materia attraverso cui prendono forma i pensieri. In qualche misura pensiamo attraverso il nostro linguaggio. Qualche anno fa scrissi un libro che si chiamava Dizionario critico delle nuove guerre. Era un tentativo di mostrare come il linguaggio, le parole, le categorie linguistiche che usiamo per parlare della guerra e dei conflitti contemporanei fanno già parte della guerra, delle sue armi, dei suoi conflitti, delle sue violenze. Credo sia la stessa cosa per la violenza maschile sulle donne. Il modo in cui nominiamo la nostra esperienza sessuale, interpersonale, famigliare, sociale, politica contribuisce a forgiare il nostro pensiero, le nostre identità, le nostre attese. Non si tratta solo dei singoli vocaboli ma delle connessioni e dei rimandi che si instaurano, attraverso quelle che Foucault chiamava “formazioni discorsive”. Per esempio le connessioni inconsce che facciamo tra donna, femminilità, debolezza, vittima, vulnerabile, insicura, bisognosa di protezione, di controllo, pura, impura ecc… O al contrario le connessioni tra maschilità, virilità, eroismo, sacrificio, forza, onore, seduzione, conquista, protezione, possesso, gelosia, ecc… La realtà è che pensiamo tutti attraverso questi schemi, spesso perfino quando cerchiamo di prenderne le distanze. Quindi diventa fondamentale riflettere sul linguaggio e sulle categorie linguistiche e concettuali che adoperiamo il più delle volte in maniera automatica e irriflessiva. Non si tratta naturalmente di mirare ingenuamente a un linguaggio purificato dalle ambiguità o dalla violenza, ma di aprire un terreno di riflessione e discussione anche relativo al nostro linguaggio in modo tale da instaurare una dinamica creativa e positiva, un ripensamento e una reinvenzione senza fine del modo in cui ci esprimiamo affinché si produca un linguaggio all’altezza della coscienza e della civiltà che auspichiamo.

A questo proposito c’è un tema che mi sta molto a cuore, una forma che possiamo condividere, almeno come impostazione generale, tra donne e uomini: lavorare insieme, formare gruppi e occasioni di confronto tra i generi, mantenere però al contempo momenti di separatezza, per incontri e riflessioni solo all’interno di un genere. Penso che tu sia d’accordo e mi sembra che così stia procedendo anche il movimento degli uomini, credo che non si debba perdere l’equilibrio tra questi due impegni poiché mi sembra che l’uno nutra l’altro, mi piacerebbe sapere qualche tua riflessione a questo proposito
Io credo che sia fondamentale che la questione della violenza maschile sulle donne non rimanga una questione “femminile”, che riguarda solo chi la violenza la subisce. Occorre una consapevolezza sociale maschile che faccia venir meno le forme di complicità, di tolleranza, di giustificazione. E allo stesso tempo è fondamentale che gli uomini che hanno a che fare con culture e forme di socializzazione intrise di violenza contribuiscano a ripensare e a superare queste mentalità. Quello che voglio dire è che l’assunzione di uno sguardo riflessivo e critico può permettere agli uomini di riscoprirsi una competenza in questo campo, che aiuti a contrastare la pervasività di questo fenomeno. Proprio perché la violenza fa parte dei percorsi di socializzazione e apprendimento maschile, perché struttura valori, rappresentazioni e aspettative, gli uomini possono riconoscerne, aspetti, sfumature, logiche e dinamiche.
Non bisogna poi dimenticare che la violenza si sviluppa nelle relazioni. Non è solo una somma di atti ma ha le sue dinamiche e processualità. Penso che da questo punto di vista solamente lavorando insieme e integrando il punto di vista e il vissuto degli uomini e delle donne, si possa conoscere più a fondo questo fenomeno. Tuttavia questa collaborazione, questo lavoro comune è possibile solamente se ciascuno fa la sua parte, se ciascuno mostra di saper interrogare se stesso, la propria cultura di genere, le forme di relazione tipiche del proprio genere. Solo uomini e donne consapevolmente autoriflessivi possono trovare la fiducia, la curiosità e l’interesse per lavorare assieme. Dunque come dici tu è necessaria una dialettica tra il lavoro che si conduce nello spazio simbolico, psicologico e sociale del proprio genere e quello che si dispiega nel lavoro con l’altro sesso. Le due cose si richiamano perché non c’è consapevolezza di sé senza riconoscimento della relazione con l’altro. E viceversa.

Infine uno snodo obbligatorio, ma molto complesso, una specie di fantasma che si aggira tra noi e che conosciamo perché, almeno noi ‘vecchie femministe’, ne abbiamo a lungo dibattuto: il lavoro che stiamo facendo, che potremmo sbrigativamente definire di fondazione di una nuova civiltà tra donne e uomini, ha chiaramente una straordinaria valenza politica, ciò non toglie che ben difficilmente può conformarsi alle forme tradizionali della politica stessa, anzi vi si oppone. Allora come dare visibilità, incidere, muoversi nel pubblico senza rischiare di perdere la nostra identità, il senso complesso e profondamente trasformativo della nostra ricerca?
La questione è molto complessa e non è facile rispondere brevemente senza ridursi a dire banalità. Quello che mi sento di dire è che da una parte occorre un lavoro profondo di interrogazione dei fondamenti su cui si è costituita una politica non solo senza le donne, ma in buona misura contro le donne e contro ciò che rappresentano. Voglio dire che non è sufficiente denunciare i limiti della politica maschile se non si capisce a fondo che cosa del simbolico femminile fa problema fino all’angoscia nell’esperienza maschile e nell’idea maschile della politica. Al fondo io credo che ci sia nell’idea di politica maschile, la concezione di un individuo che può rappresentare lo stato o le istituzioni solo in quanto emancipato o disposto a trascendere i suoi legami e i suoi doveri famigliari. C’è la pretesa di lasciar fuori o non farsi condizionare da tutti quei vincoli che ci legano alla cura e alla manutenzione delle relazioni fondamentali e che disvelano la nostra inevitabile vulnerabilità e dipendenza dagli altri. Le sole relazioni che si  riconoscono e che contano sono quelle che si costruiscono razionalmente e strategicamente nello spazio pubblico. Non quelle che ci legano al nostro mondo domestico, ovvero alla nostra nascita. L’esclusione del femminile e la conservazione di una certa antropologia politica sono profondamente connessi. L’esperienza femminile e l’autorità femminile per me richiamano un sapere delle relazioni e una consapevolezza dell’interdipendenza. Quello su cui mi interrogo dunque è la possibilità rendere pubblico assieme un senso di autorità non narcisistico ma nutrito di relazioni e con questo un senso diverso delle relazioni tra uomini e donne. Non si tratta secondo me di portare queste relazioni nello spazio politico delle istituzioni tradizionali, quanto piuttosto di fare in modo che queste relazioni diventino talmente significative da creare un nuovo senso dello spazio pubblico, con forme, prassi e valori differenti. Ovvero occorre avere fiducia che queste nuove relazioni possano diventare esse stesse istituenti, anche se questo potrebbe richiedere del tempo e dei rischi.