Un teatro fantasma

C’è differenza tra il ricevere un riconoscimento e l’essere riconoscibili. Ho conosciuto molte persone che fanno teatro per i bambini e che soffrono del fatto che difficilmente il loro talento verrà mai riconosciuto dalla critica e dal teatro ufficiale. E’ la sindrome del fantasma. Il fantasma sa di esserci, ma fa fatica a farsi vedere. In un mondo che pone al centro della vita quotidiana un valore adulto come la competitività, i bambini non possono essere che fantasmi.

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A quasi tutti i bambini piace vincere, tuttavia non sono competitivi. Chi lavora con i bambini, lo sanno tutti gli insegnanti, difficilmente vede riconosciuto il valore del proprio lavoro quotidiano. E’ molto più facile che sia identificato con i fantasmi. E un adulto fantasma allora cosa può fare? Andare avanti per la propria strada, convivere con i fantasmi e scoprire che ognuno di loro è diverso dall’altro. E che la loro diversità li rende piano, piano, ad occhi attenti, perfettamente riconoscibili.
“Non incontrerai mai due volti assolutamente identici.
Non importa la bellezza o la bruttezza: queste cose sono cose relative. E’ tutta la vita che merita rispetto.
E’ trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per se stessi”.
(Tahar Ben Jelloum) Quando penso ai fantasmi, mi vengono in mente quelli classici, quelli con il lenzuolino e i due buchi per vedere, dietro ai quali si nascondono occhi curiosi e stupiti. Come quelli di ET quando va alla festa di Hallowen. lo quegli occhi nei nidi li ho visti tanti volte.
Sono gli occhi di Michelangelo del Nido Lunetta che a 14 mesi vide tutto lo spettacolo in piedi, mani sui fianchi, mostrando, forse a causa dei suo nome così impegnativo, una fierezza indimenticabile. In questi anni di “nido e teatro” ho conosciuto tanti piccoli fantasmi, palpabili, ma imprendibili. Come Matteo del nido Turrini. Adesso Matteo deve avere finito la terza media, però i suoi occhi, visti per una sola volta, hanno occupato un posto fisso nella mia memoria.
Quando ho finito lo spettacolo, mi ha preso per mano e mi ha guardato.
Poi, sempre senza parole, ci siamo salutati. In silenzio.
I silenzi di un bambino del nido sono stravolgenti per un adulto. Sono piccole poesie che costruiscono un’esperienza. Non possiamo valutarle secondo parametri estetici adulti. I silenzi di un bambino fanno parte di un’altra cultura e la loro ricchezza è nella semplicità di essere solo silenzi. Poesia “semplice” come un haiku zen. “Quanto silenzio: la neve disegna ali di
anatre mandarine” (Shiki). Mai come nell’esperienza del “nido e teatro” ho sentito il pubblico come compagno di pista. In tredici anni il piacere è rimasto intatto. Questo forse è stato reso possibile dalla visceralità di un pubblico che c’è o non c’è, che accetta o rifiuta con manifestazioni forti. Che ha un particolare ritmo di respirazione, che ha paura o non ce l’ha, che piange per un niente, che ti impone di aspettarlo, di dargli tempo, di non aggredirlo, di farti conoscere, di misurare tutto e poi lasciarti andare. Che ti chiede di essere profondamente rispettato. Non puoi essere un attore che soddisfa se stesso e la propria vanità di governare lo spettatore. Non potresti divertirti e il gioco sarebbe incredibilmente noioso con un pubblico che non sa nulla del cerimoniale. O il piacere lo trovi durante lo spettacolo o non lo trovi più e la replica diventa noia. In questi anni posso aver avuto più o meno voglia e lo spettacolo può essere venuto più o meno bene, ma quei 40 minuti di spettacolo sono stati ripetutamente momenti magici. Senza quel pubblico, senza quell’incredibile e naturale capacità di ritornare avrei sentito ben poco. Una ragione eccellente per continuare, per cercare di capire sempre di più cosa possa significare per un attore stare davanti ad un pubblico. Ad un pubblico infantile, in particolare.
Forse significa “immergersi in un fiume di emozioni”. Come quelle vissute da Riccardo detto “il baciatore”.
Riccardo, nido Anna Frank, poco più di due anni. Altezza sotto il metro, Riccardo era un grande spettatore. Stava seduto sul tappeto al centro della prima fila con occhi attenti e sguardo serissimo, quasi accigliato.
A metà dello spettacolo, d’improvviso, si voltò verso un compagno e senza chiedere nulla, lo prese, lo tirò verso di sé e lo baciò. Poi si voltò di nuovo verso la scena e non si mosse più fino alla fine.
Due settimane dopo, altro spettacolo. Riccardo era sempre al centro della prima fila. A metà spettacolo il grande baciatore si è ripetuto. è cambiato il compagno, ma tutto il resto è stato uguale: abbraccio, bacio alla Red Butier e così via.
Al terzo appuntamento l’ho aspettato al varco, attendendo con impazienza di arrivare a metà spettacolo. E lui non mi ha deluso.
Abbraccio, bacio e ritorno in posizione.
Ho pensato che il bacio fosse il modo di dare spazio alla sua profonda emozione.
Altri baci, altre emozioni
. Asilo nido di Monfalcone, maggio 1991. Lo spettacolo era “Desideri – Il lupo e la luna”. Nato come spettacolo di Danza e Narrazione, a metà della tournée, si era trasformato in uno spettacolo di sola narrazione, perché la ballerina, girando per nidi, si era ammalata di varicella. “Desideri” senza danza era un lungo racconto di 45 minuti. Una storia passionale e intensa. Un puzzIe sul fondo e una piccola sagoma di lupo in mano. Dieci minuti dopo aver iniziato lo spettacolo, un bambino si è alzato, si è avvicinato e mi ha baciato. Continuando a raccontare l’ho riaccompagnato a sedere. Pochi attimi e il bambino si alza di nuovo, mi abbraccia e bacia la sagoma del lupo.
Di nuovo lo accompagno a sedere, ma la cosa si ripete. Io non capivo come facesse un bambino così piccolo ad essere così veloce. Come facesse a sfuggire al mio sguardo mentre si alzava, dato che lo tenevo d’occhio. Non l’ho capito fino a quando ad alzarsi non sono stati due bambini, che si sono avvicinati, mi hanno abbracciato, baciato e hanno baciato il lupo. Allora ho scoperto che avevo a che fare con due gemelli duenni assolutamente identici, che si davano il cambio, in un gioco di emozioni tutto loro.
Alla fine dello spettacolo le educatrici mi dissero che erano rimaste molto stupite, perché i due bimbi avevano incontrato grandi difficoltà nell’inserimento e avevano sempre mostrato molto timore per tutti gli adulti non conosciuti. Ma i fantasmi hanno reazioni imprevedibili e soprattutto sono imprendibili.
Se dovessi cercare una definizione per i bambini dei nidi mi verrebbe da dire che sono “imprendibili”. L’imprendibilità è qualcosa di più dell’imprevedibilità. E’ propria dei pazzi, dei poeti e soprattutto dei bambini piccoli. I pazzi e i poeti a volte sanno raggiungere una dimensione parallela, ma penso che solo i bambini piccoli conoscano tutte le porte d’entrata per “l’Altrove”. E’ lì che si trovano quando noi li aspettiamo nel nostro spazio conosciuto.
I bimbi si muovono senza orientamento in uno spazio relazionale che è ancora tutto in definizione. Non solo seguono rotte anomale, ma si fanno beffe delle nostre coordinate adulte, entrando ed uscendo dalle porte “dell’Altrove”.
Come faceva Alessio, detto Pepe. L’ho incontrato per la prima volta facendo “Fuoco” all’Ada Negri. Età di Pepe: 13 mesi. Erano ormai tutti seduti ed io stavo preparandomi ad iniziare, giocando seduto con una pentola piena di frutta finta. Avanzando sul sedere il lattante è arrivato fino ai miei piedi nudi ed ha incominciato a giocare con loro e con la frutta. Perso a giocare con lui ho ritardato l’inizio. L’ho rivisto un anno dopo, primo anno di laboratorio con un gruppo di semidivezzi. lo e le educatrici stavamo proponendo ai bambini “il mare” ed eravamo tutti ritualmente in silenzio, a testa bassa, “tentando” di sentirci pesci nell’acqua. All’improvviso ho sentito un applauso ed un “bravi” solitario e non ho potuto fare a meno di rompere la consegna ed alzare la testa. Alessio era in piedi e applaudiva da solo. Quelle giornate di laboratorio con i bambini sono state intensissime. Con Pepe un continuo cercarsi. E’ passato un altro anno e siamo arrivati al 1991, secondo anno di laboratorio all’Ada Negri. Età dei ragazzi dai due ai tre anni. Il laboratorio quell’anno è finito in marzo. Sono tornato all’Ada Negri due mesi dopo, a metà maggio, con lo spettacolo “Desideri”. Mentre montavo le scenografie, vidi arrivare Pepe. In mano aveva una piccola valigia (di quelle di plastica trasparente dei plum cakes), piena di animali: un serpente, un’aquila, un pinguino, una foca, un cammello… Era la “sua valigia del teatro”, fatta assieme ai suoi genitori, senza che nessuna delle educatrici lo sapesse. L’aveva preparata per venire al nido quella mattina in cui, dopo due mesi, c’era di nuovo il “teatro”. Rito o casualità?
Cercare di stabilirlo non è poi così importante, vorrei invece sottolineare l’imprendibilità di Alessio e la sua imprevedibilità. A rendere i bambini piccoli così imprendibili è anche la nostra difficoltà a stabilire con loro un contatto verbale. Un bambino del nido sta vivendo in quella particolare fase dell’uomo in cui si assumono miliardi di informazioni e i sistemi per processarle. Quella fase in cui inizia a strutturarsi il linguaggio. Il bambino, fino ai tre anni, è in piena esplorazione. Sta ancora cercando di comprendere come utilizzare quel dono affascinante che è la parola. Ma sta anche cercando di comprendere il mondo che lo circonda.
Fare teatro con ragazzini del nido esalta il “processo d’identificazione” in Akela, il vecchio lupo del “Libro della giungla”. E’ la magia della rupe, dello sguardo profondo dei cuccioli. Akela parla e non si preoccupa se i cuccioli stanno comprendendo. Lui sa che per i cuccioli è importante la voce dei vecchio lupo e la magia della rupe. Come, cosa e quanto “comprenda” un bambino piccolo dei messaggi adulti è un altro fantastico mistero. I cuccioli vogliono imparare. E non è una voglia piccola perché loro sono piccoli. I cuccioli si guardano attorno e assorbono come spugne.
I piccoli e anche i piccolissimi sono ottimi spettatori.
La prima infanzia è un luogo lontano e il teatro può essere uno dei tanti modi per cercare di raggiungerlo. Ciò che ti spinge verso il teatro è l’assoluto bisogno di esprimerti, la necessità di raccontare idee e pulsioni, l’insofferenza a celare dubbi e domande esistenziali, l’impossibilità di separare il presente, le tracce passate e le visioni future. Forse nel fare teatro, ogni volta che si va in scena o ogni volta che si prende in mano un testo si esprime il desiderio di rinascere. Sogno impossibile, desiderio proibito. Eppure i bambini rinascono ogni mattina, quando si svegliano, e in ogni momento della giornata quando aggrediscono quello che fanno come se fosse sempre la prima volta. E tanto più sono piccoli, tanto più questo appare in tutta la sua evidenza.
E’ una visione del teatro. Una visione personale di un linguaggio, che non vorrei dire unico, ma sicuramente preziosissimo, per avvicinare gli uomini. Ritengo che il teatro sia il linguaggio più umano che esista, perché impone agli esseri umani di stare l’uno davanti all’altro, senza artifizi, senza troppe sovrastrutture, cercando di mettere in contatto tutte le relative diversità. Senza difendere posizioni di privilegio o di potere. Vale in un rapporto educativo, vale in un rapporto teatrale. Lo credo che un teatrante per ragazzi dovrebbe interpretare il suo ruolo, il suo “mestiere”, come un’occasione
continua per incontrare i bambini e contaminarsi.
Sono un sostenitore dell’importanza della specificità del teatro per ragazzi. Senza voler creare delle categorie, perché non mi piacciono le categorie. Mi piace l’idea che un attore continui a lavorare su un terreno specifico. Il mondo, anche il mondo teatrale, è troppo vasto, troppo grande. Mi piace pensare che per un periodo della sua vita un teatrante lavori definendo dei limiti al suo operare. Perché se stai cercando di incontrare i bambini, che è già una cosa “impossibile”, non puoi contemporaneamente cercare d’incontrare tutti gli altri “pubblici”. Proprio per la sua specificità, per il suo bagaglio di memorie credo che il teatro per ragazzi sia assolutamente da salvare. Farlo sviluppare, farlo anche rinascere se occorre, rinnovandolo profondamente.
Andiamo verso un nuovo tempo e spero che il teatro per ragazzi possa essere sempre più pieno di adulti che vogliano continuare a crescere insieme ai bambini, cercando di calibrare sempre meglio le proprie proposte, senza stancarsi di continuare a progettare, a portare e a raccogliere passione e saperi, ad essere dei “serbatoi” che attraversano i mondi dei bambini.
Un teatrante “serbatoio”, un mediatore che raccoglie saperi infantili e adulti da un “luogo” per metterli a disposizione di altri bambini e di altri adulti in un “altro luogo”.
Perché il teatrante possa esercitare questo ruolo di “mediatore culturale” è necessario che abbia la possibilità di stare con i bambini, cercando di assorbire i loro saperi. Ma imparare ad assorbire dai bambini e trasmettere loro altri saperi richiede tempo. Il tempo per approfondire la propria sensibilità. Senza sensibilità il mediatore non riesce a incuriosirsi e ad incuriosire e senza “curiosità” ogni processo di crescita o di apprendimento si irrigidisce e si ferma.
Fare teatro per i bambini piccoli è un’esperienza preziosissima per un adulto, perché impone di mettersi a disposizione, di essere continuamente pronti a modificarsi per allacciare i contatti più alti, perché permette di far rimbalzare nella testa pensieri leggeri e gradevoli come quelli racchiusi in una nota frase di David Cooper:
“Ho insegnato ad Heidi che ha quattro anni il linguaggio degli alberi, a stringere la mano ad un ramo di quercia, a dire ciao e ad ascoltare le risposte degli alberi, sempre così sbalorditivamente diverse. Quello che ha insegnato a me va molto più in là”.