Appunti da un viaggio tra le isole della memoria

Asini e “conti di guerra”

Cinquanta sono ormai gli anni che mi separano dagli stringimenti di cuore che ci prendevano alla sera, nel trappeto del nonno, quando, per non essere mandati a letto troppo presto, ci nascondevamo tra le balle di paglia dell’asino Filippo. Era costui un asino speciale, un po’ tonto e svagato, anche se non privo di un suo particolare ingegno: quello di saltar fuori all’intrasata, d’improvviso, in silenzio e mordicchiarti quella parte di vestito, di capelli o di chissà che altro gli capitasse a tiro. Non sempre riusciva a dosare la pressione e mio zio Pino ci rimise, tra urla e pugni, una falange dell’indice. Dopo quest’episodio era diventata tassativa, per me e i miei cugini, la proibizione di scendere nel trappeto, ormai diventato una stalla, dopo che la spremitura dell’ulivo non si  faceva più con la macina di pietra ma nei moderni frantoi dotati di motore a scoppio. Eppure, quel posto aveva un suo poco spiegabile fascino anche nei pomeriggi estivi, quando la luce fioca, proveniente dalla spessa e sporca vetrata, protetta dai ferri battuti del sopraporta, arrivava filtrata d’un colore dorato; a tratti, quasi spariva quando ci passava davanti qualcuno, chè la vetrata era poco più alta della battuta di terra sulla quale passavano i carretti e le commari per andare verso il paese. Dentro quella buca, scavata nella terra e circondata da muri di pietra, c’era ancora la macina, la ruota dentata e la trave che, legata al basto dell’asino, un antenato forse di Filippo,  un tempo aveva garantito il necessario movimento. Di questi usi, nel ‘50, potevamo solo sentirne raccontare il nonno perché noi, fortunati, eravamo nati quando ormai c’erano i motori e non potevamo capire quanto le bestie, ed i cristiani, avevan lavorato per cavar fuori qualcosa dalla terra. “Vedrete”, ci diceva il  nonno, “verrà un giorno che dal balcone, con una specie di radio a valvole, da lontano potrete lavorarla la terra e allora avrete il camice bianco come i dottori, ma forse è meglio che studiate e fate davvero i dottori, che macari  ‘sta cosa della radio è una minchiata che viene in testa a me e sta’ a vedere che poi ve la pigliate con me”.

Non so dire se nel nostro insistere per andare ad ammucciarsi, a nascondersi, tra le balle di paglia del trappeto, ci attirasse di più la tensione per la paura/desiderio del buio o quella del farla in barba a Filippo che là dentro la faceva da padrone o se, di più, quello che, sotto sotto, ci intrigava fosse la prospettiva sicura della strapazzata da parte del nonno che però, invariabilmente, si concludeva in un supplemento di racconti di com’era un tempo e come era stato difficile quella volta a Messina quanda la terra era tremata e lui ci faceva il soldato. Ci intrigavano questi racconti che cominciavano con un borbottìo e finivano con un sorriso sotto i baffi bianchi, specie quando la nonna, burbera normanna, figlia di macellai – come il marito non si stancava di ricordarle – ci  veniva  a prendere per le orecchie per accompagnarci nello stanzone sopra il trappeto, dove noi quattro cugini avevamo i nostri due lettoni. La frase con cui la nonna metteva fine alle nostre serate di racconti davanti alla tannura, il focolare di pietra, era, invariabilmente, di rimprovero a lui: “Cu è lu bamminu, tu o iddi?”. E lui di rimando: “Ci divertiamo: io faccio la parte del bambino e loro quella dei grandi, ma tranquilla, scherziamo e domani mattina li aggiusto io!”. E le risate, tra noi, mentre ci sfregavamo le orecchie e orgogliosamente dicevamo che, tanto, non ci aveva fatto male e che, quando saremmo stati grandi, avremmo fatto il contrario, con i nostri nipoti: “prima le orecchie e poi i racconti”. Eravamo convinti che la tirata d’orecchie, al di là della sequenza, fosse qualcosa da garantire comunque e che, insieme ai “conti di guerra” e alle storie dei campi, alle frittole e alle marmellate, fosse l’unica vera funzione per la quale esistevano i nonni.

La stanza segreta

Nella cucinona dabbasso, in un angolo prossimo al sottoscala, era venuto giù un pezzo di calcinaccio, magrissima mescola di terra, sabbia e calce, sporcata da strati sovrapposti di colore. Sotto, magica apparizione, si intravvedeva il rosso spento di vecchi mattoni pieni: fantasticammo su che muro fosse e su cosa, al di là, ci potesse essere! Mia sorella, più grande di noi tutti – aveva dieci anni e un po’ – sosteneva che tutti gli altri muri, sotto l’intonaco, avevano le pietre e non i mattoni, e quindi qualcosa, questa stranezza, doveva significare! Non eravamo avvezzi a molte riflessioni, ci prendeva di più l’azione e l’azione fu quella di mettersi a grattare, chi con una cazzuola senza manico trovata nel sottoscala, chi con una vecchia raspa da falegname e chi, infine, col proprio temperino. Dopo poco, il muro di mattoni, tutto attorno all’originario e sguercio occhio di rosso, era bello ripulito dal vecchio intonaco. “E adesso?”, fece Peppino, tirando mia sorella per una manica. “Adesso, prendete la scopa e ripulite tutti i calcinacci, se no niente cena” starnazzò zia Carmela, discesa in cucina proprio in quel momento. Non so dire se il senso di colpa e il mio disagio pesassero quanto la paura di saltare la cena: fatto sta che, piangendo, diedi di piglio alla ramazza di erica, perenne sentinella ritta vicino all’acquaio, e provai a raccogliere, tutti in un punto, i resti del nostro sommario restauro. Aiutato da mia sorella e dai cugini, in pochi minuti, sotto l’occhio vigile della zia, rendemmo un po’ più presentabile il sottoscala. Fummo portati a lavarci e, a mo’ di punizione, messi a fare i compiti. Intanto mio nonno passeggiava, le mani intrecciate dietro la schiena, intorno al tavolone. Lo guardavo da dietro il sussidiario e cercavo di capire se fosse, anche lui, arrabbiato con noi: fatica inutile, direi oggi, perché raramente l’ho visto sinceramente contrariato per qualcosa che ci riguardasse. Era tollerante, e lo diceva, anche se non ricordo se usasse proprio questa parola; però diceva che in quarant’anni di lavoro, come direttore del carcere e proprietario di jardini, frutteti che dava a mezzadria, “… tanti vitti cosi storti, ca ci nni voli pi maravigghiarimi”. Quel giorno, però, doveva essere incuriosito da quel che c’era passato per la testa e si vedeva che aveva voglia di parlare, di raccontare. Mia sorella lo pregò, in forma di domanda: “niente hai da raccontare sulle stanze segrete?” Come no! Aveva, già pronta, una storia di quando, a dieci anni, bambino lui e suo fratello, di poco più grande, avevano avuto un’avventura simile alla nostra. Loro erano stati più fortunati, almeno secondo il nostro punto di vista, e nello stesso cucinone, tanti anni prima, avevano fatto la stessa scoperta. Indisturbati dai grandi, anzi furbescamente incoraggiati, ci parve di capire, erano andati oltre il semplice scrostare l’intonaco e si erano, addirittura, aperti un varco, raggiungendo uno stanzino buio, senza finestre e con un terribile odore di rancido. Fatta luce con la lucerna ad olio, avevano trovato due giare e quattro quartare, riempite d’olio e murate da chissà quanto tempo: forse una scorta messa in salvo in qualche buona annata di olive cariche. A questo punto del racconto la tensione era ormai altissima e noi pendevamo dalle baffute labbra di nonno Turi, che continuò, pressappoco, con queste parole: “… non ci contentammo di aver trovato l’olio. Altri tre muri c’erano, e uno rispondeva vuoto. Cominciammo a grattare e togliere i sassi. L’ultimo non ne voleva sapere: ‘na botta col manico del martello e cadde dall’altra parte, con un gran rumore di vetri rotti. Eravamo entrati, con l’ultimo sasso, dentro la cristalliera della vicina di casa, Donna Maratresa Zappìa. Scappammo, ma alla sera, nel silenzio di chi sapeva e non parlò, ci toccarono quattro nerbate per uno e saltammo la minestra. Fummo costretti, l’indomani, sotto la guida di un parente mastro muratore, a tirar su il muro di mattoni che avete trovato oggi. Era il 1894, quel muro ha sessant’anni ed è meglio lasciarlo dov’è. E andiamo a mangiare ‘ché, per questa volta, vi è finita bene”. Che invidia provammo!