Da zero e senza sconti

Perché per le maestre non si discute: chi parte da zero parte da lì, e se un bambino è nella loro classe, è perché nello zainetto un talento, un suo patrimonio di identità e capacità di relazione, ce l’ha.

Paola Pessina*

Qui si racconta una storia, quella di un quartiere; e lo stupore di un incontro che si rinnova da anni: quello con le donne-maestre della scuola del quartiere. Adesso si dice scuola primaria, ma quando questa storia è cominciata la chiamavano tutti elementare.

Di elementare tra quelle maestre una cosa c’era, e c’è ancora; ed è l’unica, perché tutte le altre con cui hanno a che fare sono vicende e faccende parecchio complicate, che richiedono tutta la loro competenza e il loro impegno. La certezza elementare è questa, per le maestre che si sono avvicendate negli anni: con i bambini del quartiere si deve ricominciare ogni volta da capo. Ovvio: dopo ogni quinta, una maestra riparte da una prima, dunque da zero. Ma in quel quartiere non si tratta solo di questo.

Perché qui parliamo del quartiere “oltrestazione”, quello tagliato fuori dal centro da una linea ferro- viaria, da una tangenziale, da una qualunque delle infrastrutture impietose e impetuose che fanno a fette le periferie. In ogni comunità urbana, c’è un quartiere “oltrestazione”. Per definirlo con le parole testuali del- la tabaccaia, fedele custode della storia di quel pezzetto di periferia, è il quartiere dove “chi comincia da zero comincia da lì”. E la tabaccaia ricorda bene di aver visto, ancora ragazzina, cominciare da lì per primi i veneti, scappati dall’ennesima alluvione del Po e dell’antica miseria: si erano integrati presto con gli autoctoni, poveri con poveri, e soprattutto gran lavoratori con gran lavoratori. Nella scuola di quartiere le maestre avevano pazientemente insegnato ai bambini nuovi l’ortografia italiana, che raddoppia le magre consonanti pronunciate nel dialetto dei loro genitori. E li avevano visti nel tempo sistemarsi bene, le casette ordinate col giardino e la macchina pulita nel box.

Poi erano arrivate, a cercare la loro occasione, famiglie un po’ da tutte le regioni del sud: e qui la faccenda dell’integrazione – bisogna ammetterlo – si era fatta parecchio più complicata per le maestre e per tutti quanti; ma nell’oltre- stazione ci hanno impiegato non più di due generazioni a risolverla, perché comunque nell’epoca delle grandi fabbri- che non c’era tanto da badare alle differenze nei dialetti, visto che in officina dieci ore al giorno alla fine ci si intende tutti; più in fretta ancora quando il figlio di uno di qui si fa una morosa figlia di siciliani, il parroco li sposa e battezza nipotini che sono uno spettacolo, capaci di farsi viziare dalla nonna della capo- nata esattamente come da quella della cotoletta. E tutti quanti vanno alla scuola elementare di quartiere, e poi all’ora- torio, a giocare nella stessa squadretta di calcio; e portano i nomi in voga – Jessica, Christian, Kevin, Deborah – che non sanno né di caponata né di cotoletta.

Poi, eh già, poi…

Poi , “quelli che cominciano da zero” han cominciato ad arrivare sempre più da lontano: dal nord Africa – tutti marocchini, nella definizione sbrigativa della tabaccaia -, dall’est Europa – tutti rumeni, sempre nel catalogo-base della tabaccaia -, dall’America latina: e adesso la tabaccaia alla soglia della pensione non ci prova neanche più a operare distinguo; li chiama “quelli là” tutti in blocco e si capisce che la definizione

comprende chiunque entri a comprare sigarette e gratta-e-vinci, ma in italiano sa dire giusto “buongiorno”. Quando lo dice.

A imparare l’italiano, però, almeno quello della tv, i bambini sono più svelti dei loro genitori; e sono disponibili a integrarsi, perché non hanno la mini- ma idea di che cosa significhi la paro- la “integrazione”. Ma lo sanno bene le maestre, che nella scuola di quartiere si inventano di anno in anno progetti sempre più creativi e coraggiosi – e faticosi, certo – per tener dentro (si dice “includere”, per la precisione) tutti, per non lasciare indietro nessuno. Perché guardando negli occhi ciascuno dei “loro” bambini ne conoscono il nome; e non esiste, per le maestre, che nella loro classe si chiami un bambino “quello là”.

Su questo non mollano, le maestre. Non fanno sconti. E non molla neanche il parroco, anche se “quelli là” adulti non sono affatto facili da includere nella vita della comunità: sono sempre più diversi, per lingua cultura e religione; e “i nostri” sono sempre meno disponibili a ricominciare da capo con quelli che ancora una volta cominciano da zero, inducendo tutti a sentirsi diversi in mezzo a diversi. Che, diciamolo chiaro, non è affatto una bella sensazione.

Nel quartiere oltrestazione da una quindicina d’anni abitano anche alcune famiglie rom: fuggite dalla ex Jugoslavia ai tempi del conflitto, imparentate tra loro, han comprato a caro prezzo terreni agricoli da italiani, e vi hanno edificato chi la baracchetta, chi una casetta con i nani da giardino: tutte costruzioni abusive. Di che cosa campino esattamente non si sa e si preferisce non saperlo. Ma in quartiere tutti conoscono per nome i bambini rom, e sanno chi sono le loro mamme. I bambini infatti ci vanno tutti

Eppure lo dicono tutti che i Rom non possono integrarsi, non vogliono integrarsi. Sono i più diversi dei diversi. Irriducibilmente diversi. E verso la piccola comunità rom a un certo punto la diffidenza sempre latente monta in pro- testa, in rancore. Le maestre lo sanno, e aumenta in loro la preoccupazione che i bambini risentano del clima ostile che si sta generando. Proprio adesso che si sta preparando la consueta festa scolastica di fine anno. Speriamo che non succeda niente di brutto, a rovinare la festa.

E invece qualcosa alla festa succede. Sulla pedana allestita in palestra va in scena uno spettacolo a lungo preparato nelle ore di laboratorio, che ha per og- getto la storia del baco da seta: in Lombardia generazioni intere di bambini hanno partecipato ad allevare il magi- co ed esigente vermicello, spellandosi le mani a raccogliere le foglie dei gelsi, rimanendo svegli a darle da mangiare ai bachi giorno e notte, affrettandosi a raccogliere i bozzoli al momento giu- sto. Perché i bambini del passato non andavano a scuola e lavoravano con i grandi in campagna, se erano poveri. E le maestre hanno raccontato questa sto- ria ai loro alunni, che dei bachi da seta, prima, non sapevano niente: nemmeno i pochi con nonni lombardi. E li hanno portati, insieme a un’associazione che si occupa di storia locale, a vedere gli ultimi quattro-gelsi-quattro che ancora sopravvivono nella cascina malandata in mezzo ai condomìni, dove per altro abitano un paio di famiglie di compagni di un’altra classe, che hanno ascoltato in cerchio in cortile, anche loro curiose, le storie di fatica ma anche di giochi e di loro, senza neanche telefonino e tv.

I genitori presenti alla festa di fine anno – più mamme che papà, e tra le mamme in ultima fila timidamente an- che le mamme rom – sono un po’ in an- sia e un po’ in imbarazzo: anche loro sono in qualche modo uno spettacolo, perché rappresentano lo spaccato del quartiere, nella precaria molteplicità delle sue componenti sociali, etniche e culturali. Sulla pedana tutti i bambini hanno il loro ruolo nella recita: ed è curioso vedere piccoletti color cioccolato con il cappello di paglia, somiglianti in verità più a nipoti dello zio Tom che a contadinelli lombardi da “albero degli zoccoli”, accanto a Vlada, una bimba bionda perfetta nella pronuncia del- le proprie battute: per lo spettacolo a scuola la mamma ucraina non ha inter- rotto neanche stamattina il suo lavoro di badante, anzi ha portato con sé anche la signora Emilia con l’inseparabile deambulatore.

Dijana con la sua treccia nera, e Juri con gli occhi di carbone – i piccoli rom – magrolini e vivaci, sono i leaders della danza I bambini sono palesemente diversi l’uno dall’altro. Ma rispondono senza sforzo al copio- ne comune tante volte provato con le loro maestre. Al centro della pedana c’è Alberto, italianissimo: avvolto nel- la pellicola trasparente, sta più o meno immobile: non ha particolari battute da dire o movimenti da fare. E’ lui, il baco da seta, tutto il movimento è costruito attorno a lui, perno della scena; e tutto fila liscio. Fino a quando Alberto non comincia ad agitarsi ed è evidente che sta per mettersi a urlare. In pieno spettacolo. La mamma di Alberto è tesissima, in prima fila accanto alle maestre registe. La recita si interrompe.

Ma mentre sorpresa e sgomento si fanno strada tra i genitori presenti in palestra, maestre e bambini non fanno una piega. Sospesa la danza, Dijana si avvicina ad Alberto e lo prende per mano; e Alberto adagio si calma, accanto alla piccola rom. Si vede che i due bambini hanno tra loro una sintonia speciale. Qualcuno degli adulti, prima sconcertato, adesso ha gli occhi lucidi. Un’altra bambina, evidentemente preparata per un’evenienza come questa, si fa avanti verso gli spettatori e prega tutti di stare tranquilli: su invito delle maestre spiega: “quando Alberto fa così, è perché è molto contento”. E perciò se grida non c’è da preoccuparsi: sta an- dando tutto bene. Lo spettacolo finirà tra poco senza problemi. Le maestre accennano di sì con la testa verso i genitori che le interrogano con gli occhi. Perché è evidente a tutti che il più diverso tra i bambini sulla pedana è lui, l’italianissimo baco da seta. Ad Alberto è stato diagnosticato un disturbo dello spettro autistico: eppure quest’anno ha vissuto giorno per giorno dentro la sua classe, con i suoi compagni, ognuno a suo modo diverso. Insieme a quelle maestre che non mollano, che non si arrendono a considerare nessuno dei loro bambini “quello là”. Che nello spettacolo di fine anno hanno cucito con filo di seta e di tenacia una parte su misura per ciascuno di loro. Per quel che ciascuno di loro può dare. Nessuno escluso.

Perché per le maestre non si discute: chi parte da zero parte da lì, e se un bambino è nella loro classe, è perché nello zainetto un talento, un suo patrimonio di identità e capacità di relazione, ce l’ha. Uno, almeno: se non quel bambino, quel figlio di uomo, non sarebbe nel mondo. Se c’è, tra gli altri umani, deve avere con sé il suo bagaglio di potenzialità. Magari minimo, ma perciò ancora più impegnativo da scoprire e sviluppare: un suo talento ognuno l’ha in consegna. Certezza elementare e senza sconti.

Non ne fanno, di sconti, le donne-maestre, né per i bambini, né per le famiglie del quartiere, e tanto meno per se stesse: nessuna di loro fa finta che i bambini a lei affidati siano astrattamente tutti uguali. Nella realtà, nascere in una famiglia “di qui” o “di là”, essere figli di chi è arrivato prima, o invece di chi è arrivato ultimo, di chi un lavoro ce l’ha – e sicuro – o invece di chi non ce l’ha (o ce l’ha quando capita) fa le differenze, eccome se le fa. Sul piano dell’a- vere, nella scuola ci sono bambini che portano cinque talenti, chi ne ha in dote solo due, chi ne ha uno e forse neanche quello. E pure risultare intelligenti, fisicamente agili, facili ad apprendere non dipende da ogni individuo in sé, ma dal patrimonio genetico, dal contesto fa- miliare, dall’ambiente in cui si cresce: le maestre sanno che anche sul pia- no dell’essere non si parte tutti uguali, tanto meno tutti in pole position. I loro alunni sono molto diversi in questo: c’è Alberto che sul banco ha da mettere, a fatica, il suo fragile talento; Juri e Dijana a loro modo ne hanno due, che è già il doppio; Vlada forse ora tre da giocarsi, magari anche di più in prospettiva. E altri partono avvantaggiati, con cinque talenti tondi, per fortuna. Per sorte, appunto, non per merito.

E loro, le donne-maestre, che di quei talenti si sanno custodi – non padrone – umilmente, pazientemente, tenacemente, fanno il loro mestiere: insegnano ai bambini, uno per uno, come riconosce- re e far fruttare la dote con cui sono venuti al mondo; puntano a dieci per chi     è partito da cinque, chiedono quattro chi è partito da due. Esattamente. Non di più e non di meno. Senza sconti. Non  si accontentano finché non hanno portato i loro alunni uno per uno al punto cui ciascuno può arrivare davvero: il massimo, per la gioia sua e la soddisfazione di tutti, nella festa di fine anno.

Così nella recita comune l’applauso premia allo stesso modo chi ha interpretato la sua parte, principale o secondaria che sia. Le donne-maestre non valutano i risultati per la quantità accumulata, ma per la qualità dei percorsi seguiti: e se qualcuno è arrivato al livello quattro, mentre altri si sono spinti fino al dieci, la lode e il premio sono uguali, perché la giustizia delle donne-maestre non gratifica in base a ciò che ciascuno dimostra di possedere, e nemmeno rispetto a ciò che ciascuno dimostra di essere, ma considera il premio in base a ciò che ciascuno ha saputo dare. E se la misura è il dare, nessuno parte svantaggiato: neanche Alberto, che ha dovuto mettercela tutta per essere il miglior baco da seta della scuola. Senza sconti. Persino i genitori presenti questa le- zione l’hanno intuita. Chissà se adesso la faranno propria.

Accorgendosi che per ciascuno, ma soprattutto per chi parte più fragile con il suo solo talento, non c’è cosa più paralizzante che sentirsi valutato con la banalità del traguardo posto a un’altezza uguale per tutti, più demotivante di una logica di competizione. Chi dalla vita ha ricevuto di meno, intimidito dai giudizi senza sconti di chi è già arrivato, finirà per seppellire anche il talento che ha, scoraggiato dal metterlo in gioco, nella convinzione di non avere i numeri per partecipare allo spettacolo con gli altri.

Perciò   le   donne-maestre   seminano coltivano e riseminano senza mai per dere la speranza, senza dar tregua anche all’ultimo, anche a chi ha un solo talento: lo alimentano di fiducia e tenacia finché trovi energia e risorse per giocarselo nella festa di fine anno, in mezzo agli altri. Senza sconti per lui, mettendolo al centro, e senza sconti per gli altri, insegnando loro a danzargli attor- no, se occorre: perché ciascuno, in quel quartiere di periferia dove chi comincia da zero comincia da lì, possa dare tutto quello che ha da dare.

Perché ciascuno esca dal proprio bozzolo e faccia il suo volo da farfalla, con le ali che gli sono date. E il cielo si riempia dei colori diversi che la vita assegna a ognuno di noi, pur facendoci tutti nascere bruchi.

 

*Già docente e amministratore locale a Rho (Mi) ora Vicepresidente Fondazione Cariplo e Presidente Comunitaria Nord Milano.