Omaggio (triste) alla pecora Dolly…

Di PAOLA NAVOTTI

Il 5 luglio 1996 nasceva Dolly, la pecora bianca più nota al mondo perché la prima nata da madre surrogata. Presso il Roslin Institute dell’Università di Edimburgo in Scozia, il professor Ian Wilmut e il suo team riuscirono in un’impresa scientifica unica: dopo 276 tentativi falliti, trasferirono una cellula e il suo nucleo prelevato da una pecora Finn Dorse, dal muso bianco, nell’ovulo privato del suo nucleo di una pecora donatrice, una Scottish Blackface dal muso nero. L’embrione così ottenuto fu trasferito nell’utero di un’altra pecora. Per arrivare a Dolly (chiamata così in onore della cantante country Dolly Parton) vennero creati 227 embrioni: solo 29 crebbero al punto di poter essere trasferiti nell’utero di una madre surrogata e solo uno ce l’ha fatta. Il 22 febbraio 1997 la nascita dell’animale clonato fu annunciata al mondo intero, comunicandone subito la portata rivoluzionaria: lo sviluppo di una cellula può non essere irreversibile. Dolly non trascorse la sua breve vita libera in un prato verde, ma sotto il costante occhio clinico di medici e analisti al Roslin Institute. Il suo sviluppo fu costantemente monitorato per osservare i sintomi di invecchiamento precoce e di artrite che Dolly manifestò molto presto. Eppure, riuscì addirittura a procreare. Dolly morì per un virus che causa malattie polmonari: fu addormentata il 14 febbraio 2003, all’età di sei anni; imbalsamata e poi esposta nel Museo Nazionale di Scozia.
I primi interrogativi sulle cellule, il loro funzionamento e il ruolo nella trasmissione delle caratteristiche in un organismo, si erano registrati già molto prima dell’esperimento su Dolly. Negli anni ’30 del 900, l’embriologa tedesca Hilde Mangold era riuscita a trasferire parti di un embrione in via di sviluppo in altre parti dell’embrione: fu chiaro che alcune cellule hanno la capacità di indurre la formazione di organi, altre hanno la capacità di rispondere. Un lavoro che valse il Nobel alla medicina non a lei, ma al suo mentore Hans Spemann, che cofirmò la ricerca. Tra gli anni ’50 e ’80 vennero effettuati ulteriori esperimenti che portarono alla clonazione di rane, anfibi e topi.
L’annuncio dell’arrivo di Dolly provocò all’epoca – ma ancora oggi – sentimenti contrastanti: tutto ciò che si può fare è buono, cioè rispettoso della natura e del suo corso? Perchè ha ancora senso porsi e porre dubbi di natura etica? Il Parlamento Europeo nel 2015 ha vietato la clonazione animale e ciò, di fatto, dà una risposta chiara alle domande che ci stiamo ponendo. Lo stesso capoprogetto di quel team, il dottor Wilmut, sulle pagine del Time era stato di fatto il primo ad esternare perplessità etiche (oltre che scientifiche): «Anche se usi lo stesso metodo nel modo più coerente possibile, potresti ottenere alcuni cloni con gravi anomalie e alcuni che ne hanno solo di minori».
Ad ogni modo, gli studi sulla clonazione sono andati avanti e due ricerche, in particolare, hanno segnato un passo in avanti nelle tecnologie di clonazione, fino a quel momento applicate solo a partire da animali vivi. Il National Institute of Science americano finanziò con 4,7 milioni di dollari un progetto per la clonazione di polli che crescono in fretta, con poco cibo, resistenti alle malattie; e una equipe italiana riuscì nella clonazione di un muflone, animale a rischio di estinzione, partendo da cellule prelevate da una mucca morta 48 ore prima. Nel gennaio 2028, fecendo un salto ai nostri giorni, la notizia delle prime due scimmiette clonate: Zhong Zhong e Hua Hua. Annunciata sulla rivista Cell dall’istituto di neuroscienze dell’Accademia cinese delle scienze a Shangai, la loro nascita ha aperto alla possibilità di ridurre il numero dei primati usati nella sperimentazione animale. Già 19 anni prima, negli Usa, un primate era stato clonato: Tetra, femmina macaco ottenuta con la scissione dell’embrione, una tecnica che imita il processo naturale all’origine dei gemelli identici. Zhong Zhong e Hua Hua, invece, sono gli unici primati clonati con la tecnica di Dolly, cioè il trasferimento del nucleo di una cellula dell’individuo “da copiare” in un ovulo non fecondato e privato del proprio nucleo. Fino a tale esperimento, ogni tentativo sulle scimmie era fallito perché i nuclei delle loro cellule differenziate contenevano geni che impedivano lo sviluppo dell’embrione: i ricercatori cinesi li hanno come riattivati con interruttori molecolari ad hoc. Ciò porterà a una riduzione del numero dei campioni necessari per fare le misurazioni necessarie e, di conseguenza, ridurrà il numero di animali sacrificati per ogni esperimento. Tuttavia, molti dubbi – etici e scientifici nello stesso tempo – persistono. Quello più macroscopico: essere identici, senza mai cambiare il “modello base”, non rischierà di interrompere quel talento naturale dell’adattabilità su cui ha sempre viaggiato l’evoluzione? Quest’ultima, in effetti, non sempre è direttamente proporzionale a quella volontà di potenza (e la memoria corre velocemente a Nietzsche) che facilmente diventa violenza.