Questa di Marinella è una storia vera
“Cento linguaggi per l’Educazione” è un premio biennale che la Cooperativa Stripes ha inaugurato nel 2019, in occasione del suo trentennale e in memoria del suo fondatore, Salvatore Guida. L’iniziativa è nata dal desiderio di promuovere, attraverso molteplici linguaggi artistici, la produzione culturale, la fruizione e la divulgazione del tema dell’educazione. La seconda edizione del concorso, nel 2021, è stata dedicata al linguaggio della scrittura: con il titolo “Sono qui. Piccole e grandi storie di cura”, 20 partecipanti si sono cimentati, tramite la forma letteraria del racconto breve, a descrivere cosa significhi avere a cuore il destino di un altro. Pubblichiamo “Questa di Marinella è una storia vera”: racconto della terza classificata.
Di ILARIA COLASANTI
«E come è andata a finire?» – chiedevo ogni volta, perché l’epilogo della storia era sempre diverso, inaspettato. Alle volte Marinella continuava a parlare, a voce bassa, sempre più stanca. Spesso, invece, socchiudeva gli occhi e si appoggiava allo schienale. Era il segnale convenuto. Era come se dicesse basta, senza proferire altre parole. Mi alzavo lentamente, la salutavo lieve, perché il nostro incontro per quel giorno era finito. I primi tempi bastava un cenno, anche se lei non lo vedeva. Un commiato quasi freddo, a dispetto del fiume di parole intime che mi avevano travolta. Ma, col passare dei giorni, la distanza tra noi era diventata appena percepibile: una traccia nella sabbia, un granello di polvere che aleggiava nella stanza. La signora Marinella aveva quasi novant’anni, mani piccole solcate da vene azzurre. Un viso ancora bello, segnato dagli anni e dalle molte vite che le erano passate accanto. Tantissimi capelli bianchi, una nuvola di cotone con remote striature di nero corvino, a testimoniare che anche lei era stata giovane, una volta. Una ragazza battagliera, così libera da rifiutare due o tre matrimoni importanti che l’avrebbero messa al riparo dalla miseria in cui era nata. Il suo cuore, invece, aveva scelto Davide, che da bambino giocava con lei nei caruggi oltre il porto, sempre sporco, randagio come un gatto, la parlantina svelta, il sorriso fatto di denti inspiegabilmente bianchi, allineati come confetti. E mentre i gabbiani volavano alti, l’acqua del porto era verde come i suoi occhi.
«Quel giorno ho avuto un presentimento – mi ha detto in un tardo pomeriggio di cielo color Piombo – ma l’ho ricacciato indietro per non rovinare quella felicità così rara, quel momento immobile come una foto, talmente nitido che adesso potrei descriverti tutto, tutti i particolari più piccoli; inutili, del resto».
«I posti sì, quelli sono cambiati. Il molo dove ci siamo stretti fino a soffocare è stato cancellato dalle cose moderne. Da lì partivano i pescherecci, sai Ninin, quando il mare era ancora pieno di vita, bastava prendere il largo e lasciarsi la città alle spalle». Ha tossito, si è schiarita la voce: «La cosa più bella di tutte è la città vista dal mare, il golfo accogliente come l’abbraccio di una madre, specie nelle giornate limpide. Due o tre volte Davide mi ha fatto salire a bordo di nascosto, prendeva il largo solo per tornare indietro, mostrarmi la bellezza autentica, imperfetta perché vera, sdraiata sui monti e rivolta verso l’infinito».
Ha sorriso in modo impercettibile. «Che ci sia bonaccia o tempesta, Genova è sempre la Superba; così diceva e alle volte cantava quella canzoni da marinai».
Quella canzone non l’avevo mai sentita da mio nonno, eppure anche lui da giovane aveva navigato. Avrei voluto chiederle di cantarmela, ma Marinella era stanca, troppe parole, troppi ricordi. «Ci vediamo giovedì – le ho sussurrato piano, appoggiandole lieve un bacio sulla guancia. Sapeva di pulito, un profumo leggero di sapone, simile a quello dei panni stesi quando ero bambina. Mia nonna li allineava come soldatini pronti a sfidare la tramontana e il sentore di marsiglia si disperdeva intorno, portato dal vento. Il vento che soffiava così forte, ogni anno, si portava via un po’ della sua forza; un giorno la nonna ha deciso di lasciare la sua vita precedente, trovando una compagna di stanza che in un certo senso le assomigliava molto. Nella casa di riposo sulle colline scoscese verso il mare, erano insieme ancora vive, ancora uniche. Alle volte le sentivo scherzare su chi sarebbe andata via per prima: era un modo irriverente per sfidare la morte e la paura. Da quando la nonna non si è più svegliata, Marinella si è presa un pezzettino del mio cuore. Le portavo i libri della biblioteca, quelli che mi erano piaciuti; ne discutevamo a lungo, alle volte oltre l’orario consentito. Sembrava fossimo anime affini che trovavano nella pagina scritta la chiave per capirsi. Nel frattempo era arrivata l’estate e quel giorno sono arrivata da lei con una copia di Moby Dick.
«Questa è una storia di uomini e balene – mi ha detto – ma credo che lo scrittore volesse anche parlar d’altro. L’ho letta molto tempo fa.
Non portarmi più libri che parlano del mare. Il mare è mutevole e tradisce». Il mare per me era un’altra cosa: mi trasmetteva pace o il giusto grado di inquietudine. Ma per lei era diverso. «Alla fine quel presentimento era giusto. Lui aveva gli occhi colore del mare e il mare un giorno l’ha preso con sé. I marinai tornano tardi, tornano quando possono, diceva la gente. Ho aspettato tanto, più di quanto fosse logico fare. Poi, un giorno, ho chiuso tutte le imposte, anche se il vento soffiava violento. Certo, ero troppo giovane per fare la vedova. Ho avuto altri uomini, perfino un marito. Ma un amore così… non l’ho mai più riprovato. Sarà che non ho avuto il tempo per abituarmi a lui. Anche quando era vivo, andava e veniva. Riusciva sempre a sorprendermi. È successo anche con alcuni romanzi che tu mi hai fatto conoscere. Finché una persona riesce a stupirsi, non è ancora stanca di vivere». Lei sapeva che il tempo si stava accorciando eppure amava le tracce di bellezza che ogni giorno portava con sé. Sono passati quasi due anni da quando Marinella ha smesso di raccontarmi le sue storie. L’ultimo giorno le ho accarezzato i capelli: erano tanti, setosi, ci affondavo le dita.