Il dover essere è un elefante nella stanza
Di RICCARDA ZEZZA
Fondatrice Lifeed e autrice di “Maam-la maternità è un master”
«Auguro a tutti di avere dei genitori come i miei. Mi hanno sempre permesso di scegliere, non mi hanno mai messo sotto pressione anche quando praticavo altri sport».
Jannik Sinner, tennista, vincitore degli Australian Open 2024.
Sono diventata madre senza sapere che cosa avrebbe significato per me, davvero. Lo sono diventata tardi, a 36 anni, con fatica e con fortuna, spinta più dall’istinto che dalla ragione.
Fino a quel momento ero stata bambina, ragazza e adulta nella convinzione che la mia identità dipendesse interamente da me, ma quel “me” si componeva soprattutto dello sguardo degli altri. Mi sentivo al centro del quadro: sempre visibile, sempre vulnerabile, sempre in cerca di una definizione. La maternità mi ha investita come un treno e, invece di uccidermi, mi ha rimessa in moto in modo completamente nuovo.
Col senno di poi, 16 anni più tardi, forse so spiegare che cosa è accaduto. Quello che all’epoca mi era sembrato solo uno spostamento sulla mappa della mia esistenza – che mi aveva tolta da un centro che mi rendeva fragile per mettermi a un margine da cui mi sembrava di essere diventata forte, capace di creare e di prendermi cura – era stato in realtà ben più di questo.
La maternità mi aveva dato una definizione che aveva trovato il suo posto insieme alle altre parti di me: come risultato, tutta la mia identità ne era uscita più forte.
Invece di diventare “tutto ciò che ero”, essere madre è diventato uno strato della mia identità: vederlo come tale mi ha resa consapevole che questo siamo tutti, strati su strati di identità che si combinano, si alternano, si mettono in relazione scambiandosi risorse, e che ci definiscono in un modo sempre troppo ampio per qualsiasi etichetta.
Che cosa c’entra questo col talento dei bambini? Da madre, da studiosa e da imprenditrice rispondo: tutto.
Le etichette che diamo a noi stessi riguardano anche il modo in cui vediamo e definiamo gli altri, in modo particolare gli altri a cui consentiamo di definirci. L’etichetta genitoriale, che a me è arrivata per un caso ben povera di definizioni, definisce il modo in cui pensiamo di dover essere genitori e pensiamo che debbano essere, di riflesso, i nostri figli.
Il dover essere è l’elefante nella stanza: è quell’insieme di regole e pregiudizi che abbiamo assimilato in modo implicito e che, tutte insieme, costruiscono un “ruolo” nel nostro immaginario, definendone confini, limiti, linguaggi, attitudini, possibilità.
Un solo ruolo viene così scolpito da altri, dal passato, dalla società, dalla cultura, in un modo che ci rende difficile farlo nostro e ci spinge, invece, ad adattarci a lui. Per questo succede che una madre finisca col sentire che la maternità ha preso il posto di tutte le altre parti di sé, o che un padre non trovi posto a una dimensione paterna che resta confinata in spazi marginali, anacronistici.
È lo sguardo dei genitori, poi, a proiettare un ruolo sui figli. Se ci aspettiamo che non dormano, probabilmente non dormiranno. Se ci aspettiamo che ci contestino, faremo cose che li porteranno a farlo. Se, urlando, gli chiediamo di non urlare, anche loro urleranno.
La mia è pedagogia spicciolissima, da ignorante: da madre che ha fatto la sua esperienza senza avere ruoli ingombranti a cui ispirarsi, inventando quasi da zero il mio essere madre e riferendomi, per farlo, al mio essere anche molto altro: una compagna, una figlia, un’amica, una sorella, una manager, una studiosa…
Con questa consapevolezza, anche i miei figli sono stati da subito per me molto più che solo figli miei. Erano in potenza qualsiasi cosa, e definirli da parte mia sarebbe stato porre loro un limite da subito: rinchiuderli dentro alle miedefinizioni.
Mi ha lasciata senza fiato invece scoprire che, appena nati, loro erano già tutto. I figli non iniziano ad essere persone dopo un po’: lo sono da subito. E, come tutte le persone, sono in potenza infinitamente di più di quel che ogni giorno viene loro consentito di esprimere, o viene loro chiesto di essere. I bambini piccoli possono essere qualunque cosa e poi, giorno dopo giorno, un po’ alla volta, ottimizzano in base alla realtà che li circonda. Biologicamente, riducono il numero di connessioni tra i neuroni, le sfoltiscono, le rafforzano, mentre si formano un’idea del mondo e di chi possono essere.
I primi confini li trovano in casa, proprio dai genitori, e poi ne trovano altri a scuola, e poi da ogni altro riferimento intorno a loro: come tanti specchi che rimandano un’immagine di sé, del loro essere e del loro poter essere.
Il paradosso è che – proprio oggi che abbiamo così tanti specchi, sia noi adulti che loro bambini – la nostra immaginazione su chi potremmo essere ne esce limitata, ristretta nelle tante mono dimensionalità che ogni specchio ci rimanda. La scuola vede solo studenti, i social vedono solo produttori/consumatori, e la famiglia vede in loro il riflesso imperfetto di un ruolo genitoriale che non ha potuto arricchirsi di nuove narrazioni perché è rimasto sullo sfondo, tra le cose non dette, non aggiornate… e anche un po’ tabù.
Il primo ad attraversare una crisi del talento è infatti il ruolo genitoriale: intrappolato in una definizione di performance che rischia di lasciare fuori il vero potenziale dell’essere genitori. Non possiamo non parlare dei genitori, infatti, se vogliamo comprendere i bambini. Qual è la performance implicita dell’essere genitori? Qual è lo stereotipo, quali sono i confini del ruolo e quale è invece il suo potenziale, la sua possibilità di significato?
Oggi è più facile che si parli di altro: essere genitori non fa notizia. E quindi il significato di questo ruolo è parziale e confuso: residuale, non il frutto di una volontà di definizione che, grazie alla potenza del linguaggio, attribuisca potere a questo ruolo, e non in modo univoco e riduttivo.
Se si sceglie di avere un figlio, si sceglie di prendere su di sé un ruolo nuovo, ingombrante, di responsabilità e di creatività, pieno di vincoli, ma anche di possibilità. Se non ci si sofferma a comprendere che cosa questo significhi per l’identità di un adulto – se il ruolo genitoriale non trova lo spazio di una propria narrazione moderna, attuale e “grande”, sfaccettata, complessa, in relazione con le mille altre cose che oggi possiamo essere – allora sul figlio proietteremo lo stesso schema limitato di possibilità, uno stereotipo insomma.
Lo costringeremo dentro alla definizione stretta in cui costringiamo noi stessi: e se proietteremo grandi aspettative di performance, sarà solo la proiezione di un limite in cui senza saperlo abbiamo rinchiuso noi stessi.
Forse era così anche in passato: ma la nostra è un’epoca in cui il cambiamento è continuo e le possibilità di essere sono troppo numerose, per questo le definizioni sono sempre parziali e limitate, e occorre invece aprire la mente a tutte le possibilità.
Lo sguardo ampio, la mente aperta, sono infatti due caratteristiche del prendersi cura. Danno il coraggio di vedere le cose (e le persone) non per farle corrispondere a un’etichetta, ma rimanendo sempre disponibili a immaginare tutto ciò che potrebbero essere, e lasciando libero lo spazio perché ciò possa accadere. Lo sa bene chi ha più di un figlio e si accorge che il modo di prendersi cura dell’uno può essere radicalmente diverso da quello di prendersi cura dell’altro. I figli infatti sono semi e possono fiorire in tutte le direzioni: note e sconosciute. Proprio come noi.
Ma, come facciamo fatica a tollerare l’incertezza perenne di questo sguardo su noi stessi, così facciamo fatica ad applicarlo su quelli che amiamo. Noi vorremmo sapere che cosa è giusto, a cosa aspirare per loro: vorremmo che la strada fosse chiara, per poterci incamminare insieme a loro e poi lasciarli proseguire. Allora la proponiamo o la cerchiamo nei loro gesti, nei loro modi di essere.
Ma la strada non è chiara: come potrebbe esserlo? Non lo è perché adesso sappiamo, per esempio, che anche il modello dei nostri genitori e dei loro genitori non era un assoluto.
Abbiamo raggiunto un livello di cultura che ci fa “vedere” che molti dei vecchi valori possono e devono essere messi in discussione, che “quel che ci ha portato fin qui non è ciò che ci porterà nel futuro”.
Oggi più che mai, i figli sono pura possibilità, che si esprimerà in un mondo e in un modo che non sono i nostri. Ma allora, che cosa ci rimane?
Ci rimane tutto: ci rimane la potenza di uno sguardo, il nostro, che li fa esistere, perché li ama a prescindere. Ci rimane anche che ciò che siamo è per loro già una strada: un poter essere che diventerà inevitabilmente parte di loro, anche solo per scegliere di essere diversi. Ci rimane che, maggiore è la nostra consapevolezza delle tante cose che siamo, bene e male, forti e fragili, temporanee ed essenziali, più libertà daremo a loro di essere a loro volta tante cose: forti e fragili, perfetti e imperfetti, in continuo cambiamento.
La nostra esistenza è una mappa da cui si muoveranno per andare altrove. I nostri talenti sono un’ispirazione da cui discostarsi o da assimilare, ma comunque con cui prendere le misure per guardare il mondo. Ma sarà il “loro” mondo e lo vorranno diverso dal nostro: le loro capacità e i loro sogni sono come alberi che cresceranno altissimi se non gli faremo ombra con i nostri.
Che cosa poi voglia dire successo, che cosa voglia dire talento oggi, o anche domani: noi adulti sappiamo di avere le idee confuse. Abbiamo abitato la storia scritta dai nostri padri e dai nostri nonni, e la penna ci è un po’ scappata di mano al momento di scrivere la nostra. Così, può succedere che uno sguardo genitoriale che cerca di riconoscere il talento “riduca” le dimensioni di un figlio, invece di liberarle.
Avviene invece il contrario se alla dimensione di cura (di un figlio, ma anche di altri) riconosciamo quella caratteristica di generatività che ci spinge a far crescere persone più forti di noi, che ci sopravvivano. Se ci ricordiamo, insomma, che il gesto più essenziale del mettere al mondo è quello di lasciar andare.
Da anni, con il metodo del Life Based Learning e con la piattaforma Lifeed, studiamo le competenze che i ruoli di cura migliorano e come sia possibile trasferirle da un ruolo all’altro: per esempio dall’essere genitore all’essere manager e viceversa. Ebbene, i dati raccolti da oltre 70.000 partecipanti alla piattaforma rivelano che essere genitore è un’esperienza di leadership: contiene tratti di responsabilità, di presenza, di visione. Ma anche essere figlio lo è. Chi lo avrebbe mai detto? Quella tra genitori e figli è una storia ancora tutta da scrivere, e lo sarà sempre.
Ogni genitore lo è per la prima volta e ogni figlio (che è figlio per la prima volta) è un atto di potenza: ma non del genitore, della vita stessa.
Quello che siamo viene prima di quel che facciamo: è più importante ed è la fonte di infinite possibilità, anche se purtroppo non ne parliamo mai.
E il consiglio migliore che potrei dare a un genitore, quello che hanno dato a me, è: «Ama e fa ciò che vuoi». Ma soprattutto ama, senza paura.