Un passo dopo l’altro, dopo l’altro, dopo l’altro… (intervista alla coach Rossana Andreotti)
Mettere a tema la propria esperienza con chi è in grado di accoglierla e valorizzarla è la condizione essenziale per crescere, per fare un passo avanti e, nello stesso tempo, un passo “dentro”… cioè per scoprire le proprie risorse. Il metodo strutturato del coaching, così come scientificamente descritto, facilita tale splendido doppio passo.
Intervista a ROSSANA ANDREOTTI (Professional Coach, Supervisor Counselor, Mediatrice familiare)[1]
A cura di Paola Navotti
Il metodo del coaching affonda le proprie radici nella maieutica socratica, volta a sviluppare la propria conoscenza non attraverso definizioni, ma con domande volte a tirar fuori (e-ducare appunto) le potenzialità di chi si ha davanti. A quale scienza appartiene il coaching?
In prima battuta, definirei il metodo del coaching come disciplina umanistica, chiamata a confrontarsi con le dimensioni della complessità e della soggettività che caratterizzano il fenomeno delle relazioni tra esseri umani, all’interno dei sistemi di cui fanno parte.
Pensando al coaching in azione[2], lo definirei anche un’arte, perchè dà spazio a una relazione in cui le unicità soggettive di coach (allenatore) e coachee (colui o colei che si allena) possono collaborare in modo creativo e generativo.
Allo stesso tempo, il coaching beneficia dei risultati di numerosi studi evidence-based[3], quali ad esempio quelli sviluppati nell’ambito delle neuroscienze[4], che forniscono evidenze empiricamente fondate a sostegno di specifici elementi del metodo (ad esempio il ruolo positivo del feedback di rinforzo nel favorire gli apprendimenti)[5].
Soprattutto in età adulta, quando il già saputo aumenta proporzionalmente con gli anni, applicare il metodo del coaching può sembrare quasi impossibile: come lo si impara? Di che si tratta?
Il coaching si basa su un metodo strutturato che ne caratterizza la cornice e l’ossatura. Concetti cardine come quelli di “obiettivo” e di “piano di azione” rappresentano elementi che potremmo definire “tecnici” e caratterizzanti. Allo stesso tempo, l’efficacia del coaching non è determinata dalla mera applicazione “algoritmica” di un metodo, bensì dalla creazione di una alleanza tra esseri umani: il coach, esperto del metodo e della relazione e il coachee, esperto del poprio tema/problema. Tale alleanza permette di instaurare una relazione facilitante che favorisce il processo di cambiamento, purchè il coach rispetti i tre criteri utili alla mediazione del significato: reciprocità, intenzionalità e trascendenza. In questo clima di fiducia e alleanza, il coachee può sperimentare il valore di nuovi significati, di valutare cosa gli accade quando la sua cornice cambia e se quanto accade corrisponde al cambiamento desiderato. Questo “cosa gli accade se” è il cuore del processo di coaching: è l’inizio della nuova consapevolezza, lo spartiacque fra impossibile – prima – e possibile, dopo.
Per quanto riguarda l’apprendimento del metodo del coaching da parte di adulti già molto strutturati in termini di conoscenze, convinzioni e abitudini, ritengo interessante menzionare il concetto di “spiazzamento del coach”. Si tratta di una postura cognitivo-relazionale che il coach è invitato ad adottare nei confronti del tema/ problema della persona con cui sta lavorando, al fine di destrutturare (per quanto possibile) il proprio “già saputo” e favorire nuove scoperte di sé e di chi ha davanti.
Nella relazione, dunque, il coach ha un ruolo ben diverso da quello del consulente, di colui cioè che – sulla base delle proprie conoscenze ed esperienze sul campo – offre spiegazioni e soluzioni al problema di un cliente.
L’apprendimento del metodo del coaching avviene dunque sia sul piano del saper fare, sia su quello del saper essere: su quest’ultimo, in particolare, il coach costantemente allena e verifica[6] la propria postura[7].
Che differenza c’è tra talento e performance?
Nel metodo del coaching umanistico evolutivo [8] in cui mi sono formata, viene posta particolare attenzione all’allenamento del potenziale della persona che decide di intraprendere un percorso di coaching. Ciò presuppone una chiara comprensione e distinzione di concetti – a volte utilizzati in modo non specifico – quali: risorsa, potenziale, talento e performance.
Più in particolare, possiamo definire il talento come una risorsa maggiormente sviluppata che consente di raggiungere risultati eccellenti con una certa facilità e con la possibilità di sperimentare soddisfazione nel farlo. In questa accezione, il talento è una risorsa pienamente disponibile, pronta per essere messa in azione con maestrìa e con risultati eccellenti.
Non è tuttavia scontato che il talento – immaginabile come la predisposizione di un terreno fertile – sia poi effettivamente messo in campo ed agìto. Il talento può essere o non essere riconosciuto, rinforzato, allenato nell’ambiente in cui, ad esempio, il bambino o il ragazzo cresce. Il tema di maggiore interesse – molto complesso, oltre che affascinante[9] – è l’origine dei talenti. In estrema sintesi, potremmo dire che fin dalla nascita i neonati posseggono un potenziale che, pur essendo molto ampio in termini di risorse sviluppabili, è tuttavia già influenzato dalla componente genetica e di esperienza intra-uterina, oltre che dalla componente caratterizzante il temperamento[10]. Nel corso della vita poi, il processo educativo e di socializzazione all’interno della famiglia, in ambito scolastico, nei gruppi di pari e in generale il bagaglio di esperienze (e la loro ri-elaborazione soggettiva), di stimoli, di rinforzi e di modelli: ciò contribuisce a “spianare la strada”, oppure ad ostacolare l’emergere delle risorse-talenti e il loro successivo allenamento.
La performance può invece essere definita come il risultato – positivo o negativo – osservabile dell’azione messa in campo. Ad esempio, la risorsa-talento di saper suonare il violino si esprime in azione avendo come risultato la performance di un’esecuzione musicale. La performance ha perciò le seguenti caratteristiche: è percepibile dagli altri mediante i sensi e l’esperienza; inoltre, può essere oggetto di valutazione secondo criteri di tipo soggettivo (“mi è piaciuta l’esecuzione”), o secondo standard definiti in modo convenzionale (“l’esecuzione rispetta i canoni tecnici e interpretativi della scuola di musica”).
Nell’esperienza educativa quotidiana, sia in relazione a se stessi, sia ai propri figli o allievi, capita spesso di vedere talenti che non esitano in nessuna specifica prestazione. Perché non tutti i talenti diventano performance?
Perché una risorsa-talento si manifesti in termini di performance eccellente, occorre che essa sia riconosciuta, accolta e rinforzata come una opportunità positiva, cioè portatrice di benefici per la vita della persona. E’ il caso – stando a un esempio di questi giorni – del tennista Jannik Sinner che, secondo il processo sopra descritto, ha potuto sviluppare la propria risorsa-talento fino a vincere gli Australian Open. Osservare le caratteristiche uniche di un individuo e creare un ambiente sicuro in cui ognuno possa esplorare – senza sentirsi sotto performance test – le proprie attitudini e interessi: facendo ciò, gli educatori possono favorire la sperimentazione ampia delle proprie risorse, anziché l’iper specializzazione precoce.
Lo scopo del massimo rendimento è per lo più associato a un numero: un voto, a scuola; un punteggio, in ambito lavorativo. Posto che misurare sembra inevitabile e anche necessario, quando un numero risulta fuorviante, non descrittivo della realtà che descrive? Esistono metri non numerici di valutazione?
In tutti gli ambiti il tema della valutazione del rendimento (o performance) è complesso: quanto è difficile infatti sintetizzare in un solo numero una pluralità di fattori e di piani di osservazione! Nella valutazione occorre innanzitutto distinguere il piano del “cosa” e il piano del “come”: un ragazzo può ad esempio consegnare un compito di matematica senza errori (“cosa”) avendo però copiato interamente il compito dal compagno (“come”). La valutazione del rendimento non è dunque solo riferita al livello della prestazione espressa, ma anche a quello dei comportamenti messi in campo per raggiungere il risultato. Quale prospettiva decidiamo di adottare nella valutazione? Uno standard definito da raggiungere? Una crescita nel rendimento? Lo sviluppo di potenziale della persona?
Nella mia esperienza di coach e di valutatrice della performance in ambito aziendale, i fattori chiave per una buona valutazione sono quelli di esplicitare chiaramente, anche con esempi concreti, gli obiettivi da raggiungere, gli ambiti che verranno valutati e i criteri di tale valutazione.
Ogni obiettivo può poi essere monitorato nel suo raggiungimento utilizzando la tipologia di indicatori più appropriati: numerici per le prestazioni con caratteristiche di tipo quantitativo (ad esempio il fatturato di vendita in ambito aziendale); oppure, nel caso di fenomeni di tipo qualitativo, in termini di maggiore o minore vicinanza ai comportamenti organizzativi desiderati.
I voti a scuola secondo lei andrebbero mantenuti?
Se con “voti” intendiamo l’assegnazione di soli punteggi numerici da parte degli insegnanti nei confronti degli alunni, alla luce delle considerazioni fatte sopra, ritengo che l’utilizzo dei soli voti possa essere limitante. Lancio alcuni spunti, alcuni già oggetto di dibattito e/o di sperimentazione: prevedere una fase preliminare di auto-valutazione da parte dell’alunno, sulla base degli obiettivi formativi e dei criteri di valutazione in precedenza esplicitati, così da favorire maggiore ingaggio, partecipazione e responsabilizzazione. Prevedere processi di valutazione a 360° che consentano di raccogliere e scambiare feedback tra i partecipanti al processo formativo (alunni e insegnanti) in una prospettiva di osservazione multi-focale. Arricchire la valutazione sintetica a punteggi numerici con il feedback e il feedforward, che prevedono uno scambio di informazioni più ricco, nel rispetto della complessità del fenomeno dell’apprendimento umano. Educare sin da subito ad una cultura costruttiva dell’errore, inteso come occasione di apprendimento e rilancio. Infine, definire obiettiviformativi personalizzati, in particolare all’inizio dell’esperienza scolastica, nel rispetto delle diverse velocità all’interno della traiettoria di sviluppo di ciascun bambino.
I primi corsi di formazione di coaching, come in effetti richiama subito il termine, sono stati usati in ambito sportivo: cosa significa allenare la mente?
Possiamo in effetti attribuire l’origine moderna del coaching a Timothy W. Gallwey con il suo libro Il gioco interiore nel tennis. Come usare la mente per raggiungere l’eccellenza[11]. Il metodo di allenamento utilizzato nel coaching è di tipo ricorsivo: per passare dalla situazione attuale (“presente percepito”) ad uno stato di “futuro desiderato” è necessario definire obiettivi (specifici, misurabili, realistici, motivanti, definiti nelle tempistiche), tracciare una traiettoria di cambiamento, identificare risorse (già disponibili all’uso o da allenare), esplorare opzioni strategiche, elaborare piani d’azione e, infine, agire. La componente dell’azione è fondamentale, poiché è dalla messa in campo agita e monitorata che si riparte distillando apprendimenti e affinando le componenti sopra menzionate per arrivare a un nuovo piano di azione.
L’indicatore guida nel processo di coaching diventa quindi quello della “mobilità”, ossia del progressivo spostamento dal punto di inizio percorso, verso l’obiettivo desiderato.
L’allenamento della mente (che coinvolge in modo integrato anche le componenti delle sensazioni corporee e dei vissuti emotivi) consiste dunque in un ciclo ripetuto di analisi dei dati di realtà, esplorazione di ipotesi e scenari, messa in campo di azioni e metariflessione[12].
È come se la scuola non finisse mai, potremmo dire pensando a quanto la vita ci chiede sempre di imparare: chi è il discente, il coachee?
Il termine coachee è spesso sostituito dall’espressione partner di coaching, che meglio illustra la natura paritaria della relazione, fondata sulla reciprocità. Tale reciprocità favorisce l’instaurarsi di un’alleanza co-creativa, in cui l’apprendimento è continuo e – soprattutto – non è unilaterale (anche il coach si pone in una posizione di apprendimento e di “non sapere” a priori).
Pensando alla mia esperienza nella formazione degli adulti, ritengo che tale posizione di alleanza nell’apprendimento, senza ruoli rigidi, possa essere molto utile. In questo modo i discenti vengono coinvolti, responsabilizzati e valorizzati, uscendo da una posizione di assorbimento passivo di nozioni e tecnicismi.
[1] Si occupa in particolare di benessere organizzativo e di sviluppo di percorsi di carriera professionale sostenibili.
[2] Coaching: processo volto ad accompagnare la persona nella definizione di piani di azione, finalizzati al raggiungimento di obiettivi auto-determinati, mediante lo sviluppo e l’allenamento del suo potenziale, all’interno di una relazione facilitante che essa instaura con il coach. Cfr.Pannitti A., Rossi F., L’evoluzione del Coaching. La teoria del Meta-potenziale CARE ©, Franco Angeli 2019 (pp. 17-18).
[3] Pannitti A., Rossi F., “L’essenza del Coaching. Il metodo per scoprire le potenzialità e sviluppare l’eccellenza”, Franco Angeli 2012 (p. 17).
[4] Rif. Wilson, “Enciclopedia del Coaching”, Edizioni Polo didattico 2014 (pp. 65-71).
[5] La principale associazione a livello globale nell’ambito del coaching, ICF, ha promosso recentemente una ricerca per misurare l’impatto del coaching su basi scientifiche: https://www.coachingfederation.it/news/articoli/misurare-limpatto-del-coaching-su-basi-scientifiche_209.
[6] Rispetto al tema della verifica della postura del coach, nella comunità dei coach stanno negli ultimi anni fiorendo riflessioni sullo strumento della supervisione, già adottato con beneficio da altre figure professionali nelle relazioni di aiuto.
[7] In Pannitti, Rossi 2012 (pp. 42-47) viene ad esempio descritta la postura nella relazione di coaching come basata su accoglienza, ascolto, alleanza e autenticità.
[8] Metodo sviluppato da INCOACHING © https://www.incoaching.it/coaching-evolutivo/
[9] In Pannitti, Rossi 2012 (pp. 96-113) vengono menzionate a tale proposito: la “Teoria della ghianda” di Hillman, i “Character Strenghts and Virtues” di Seligman, la teoria del “flow” di Csikszentmihalyi.
[10] Per temperamento si intende l’insieme delle tendenze innate dell’individuo a reagire agli stimoli ambientali con determinate modalità anziché altre.
[11] Rif. Wilson 2014 (pp. 31-36).
[12] Metariflessione intesa come capacità di ripercorrere la propria esperienza, esplicitando le strategie utilizzate, i processi cognitivi e i vissuti emotivi.