Quale… popolazione penitenziaria?

Di PAOLA NAVOTTI


Imponente e celata dal muro di cinta, la costruzione di un istituto penitenziario evoca la separazione tra due mondi: quello dei “cattivi” all’interno e quello dei “buoni” all’esterno. Ma tale separazione è solo fisica perché ciò che accade “dentro” non smette di smuovere la sensibilità personale e civile di chi è “fuori”, incoraggiando sempre più ad entrare nel merito. Per questo, di reportage sulla realtà carceraria italiana ce ne sono molti e, più o meno approfonditamente, aiutano a capire tutti quei problemi cronici che spesso, e drammaticamente, portano gli istituti penitenziari in prima pagina. Qui si vuole semplicemente offrire un lavoro di estrema sintesi che faciliti innanzitutto la messa a fuoco di quali siano i contorni del mondo “dentro”. I dati riportati provengono dai canali istituzionali del Ministero della Giustizia[1]; oltre che da Antigone[2] e da Nessuno tocchi Caino[3] (tra gli enti associativi più noti che si dedicano alla difesa dei diritti delle persone detenute). Pur essendo quasi tutti riferiti a marzo 2024, tali dati evidentemente sono in continuo aggiornamento e, dunque, occorre considerarli indicativi nel loro complesso.

In Italia ci sono 189 carceri. Le regioni con più istituti penitenziari sono la Sicilia (23), la Lombardia (18) e la Campania (15). Gli istituti penali per minorenni sono 17 in tutta Italia: al 29 febbraio 2024 i ragazzi detenuti in questi istituti erano complessivamente 523. Stando ai numeri forniti nel XX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione[4], riferiti al 15 gennaio 2024, gli stranieri presenti nelle carceri minorili erano il 51,2% dei presenti totali. Negli istituti di pena per minorenni non ci sono solo under 18, ma anche persone tra i 18 ed i 25 anni: ragazzi e ragazze che hanno commesso il reato quando erano minorenni e poi hanno raggiunto la maggiore età.

In base al criterio di 9 mq per singolo detenuto – che è lo stesso criterio per cui in Italia viene concessa l’abilitazione dei domicili privati – la capienza regolamentare delle carceri dovrebbe essere di 51.178 persone detenute, mentre le presenze effettive risultano di oltre 61mila, tra cui oltre 2.600 donne e 19.100 stranieri.

I condannati definitivi ammontano a 44.984 (di cui 13.491 stranieri); quelli non definitivi risultano 6.265 (di cui 2.147 stranieri); i detenuti in attesa di primo giudizio ammontano invece a 9.461 (di cui 3.375 stranieri). A costoro, si aggiungono 319 internati in case di lavoro, colonie agricole e altro.

Per quanto riguarda l’età delle persone detenute, la fascia cresciuta maggiormente è quella che va dai 45 ai 59 anni: con il 32,2% dei presenti, è decisamente la fascia più rappresentativa della popolazione carceraria.

In Italia il tasso di “recidiva” – cioè la propensione a delinquere di chi è stato dietro le sbarre – risulta altissimo. È recidivo il 68% dei detenuti, mentre nel resto d’Europa la quota va al massimo dal 15 al 20%. È un dato in effetti allarmante: in due casi su tre, chi esce da una prigione italiana tornerebbe al crimine. Tra i pochi detenuti che in prigione svolgono un’attività lavorativa (in media uno su tre) la recidiva è invece molto più bassa: tra l’1 e il 5% contro il 70% del resto della popolazione carceraria.

Nelle 189 prigioni italiane il record storico dei suicidi risale al 2023, quando i morti furono 84, addirittura 15 in più che nel 2001, anno del precedente record con 69 suicidi. Le cause sono note: condizioni di sovraffollamento (i tassi di affollamento più alti a livello regionale si continuano a registrare in Puglia: 152,1%; in Lombardia: 143,9%; e in Veneto: 134,4%), episodi e contesti di violenza, scarsa assistenza sanitaria e psicologica, difficoltà nel mantenere i legami familiari. Si aggiungono le situazioni di fragilità personale, come i disturbi psichiatrici, le dipendenze, i sensi di colpa e le angosce esistenziali. Spesso le persone detenute si sentono fallite: sanno che, quando usciranno dalla galera, difficilmente troveranno un lavoro, né una casa dove andare. Anche se ogni anno la polizia penitenziaria salva la vita a circa 1700 persone detenute che tentano il suicidio, solo da gennaio ad aprile 2024 si sono registrate nelle nostre carceri 30 morti volontarie: la media di un suicidio ogni 3 giorni. Se la tendenza dei primi 4 mesi si confermasse nel resto dell’anno, il 2024 farebbe registrare un altro record negativo e drammatico: in carcere ci si toglierebbe la vita ben 18 volte in più rispetto alla società esterna. Anche se – in base ai i dati dell’OMS del 2019 – l’Italia è uno dei paesi dove ci si suicida di meno; i dati del 2021 del Consiglio d’Europa rilevano che il nostro Paese è al di sopra della media europea per i suicidi carcerari. Dalle biografie delle persone che si tolgono la vita emergono in molti casi situazioni di grande marginalità: molte le persone giovani, o giovanissime; o di origine straniera; o anche con presunte o accertate patologie psichiatriche o di tossicodipendenza. L’età media di chi si è suicidato in un istituto penitenziario nell’ultimo anno e mezzo è di 40 anni. Gli stranieri, tenendo conto che la percentuale della loro presenza in carcere è ad oggi leggermente inferiore a un terzo della popolazione detenuta totale (31,3%), hanno un tasso di suicidi signi?cativamente maggiore rispetto agli italiani. In tutti gli Istituti dove sono avvenuti suicidi nell’ultimo anno e mezzo, si registra una situazione più o meno grave di sovraffollamento. A questo aumento della popolazione detenuta non corrisponderebbe però un aumento del numero dei reati: da gennaio a luglio 2023 sono stati commessi in Italia 1.228.454 delitti, il 5,5% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Se si incrementasse l’edilizia penitenziaria? Il problema non sarebbe comunque risolto. I tempi medi di costruzione di un carcere sono di 8-10 anni e il costo medio di 30 milioni di euro. Vale a dire: per i dati di sovraffollamento a disposizione, oggi ci vorrebbero circa 40 nuove carceri, per un costo di 1 miliardo e 200 milioni di euro. Somme a cui si dovrebbero aggiungere quelle per il personale di polizia penitenziaria, e per le altre figure professionali necessarie a far funzionare gli Istituti.

Le persone detenute passano la maggior parte della loro giornata in celle sovrappopolate e la possibilità di svolgere un’attività lavorativa o di altro tipo non è a disposizione di tutti. L’osservatorio di Antigone nel 2023 ha visitato 99 istituti penitenziari riscontrando una media pari al 32,6 % di persone detenute lavoranti, in lieve aumento rispetto all’anno precedente.

In tale complessiva situazione, il carcere di Bollate è sicuramente un’eccezione: pur presentando le stesse complessità delle altre realtà penitenziarie italiane, tuttavia è contraddistinto da numerose buone pratiche che, a cominciare dalla chiusura delle celle solo di sera e dall’ampio ventaglio di attività trattamentali proposte, ne fanno il modello carcerario italiano, in quanto finalizzato alla rieducazione del condannato e quindi alla sua graduale inclusione sociale. Come in effetti prevede l’articolo 27 della nostra Costituzione.

Esempio di integrazione e interazione con la comunità circostante, fin dalla sua apertura – nel 2000 – il carcere di Bollate ha visto nascere in un ventennio moltissime attività sociali, culturali e economiche: non solo il ristorante stellato “In galera”, citato perfino dal New York Times, ma tutte quelle cooperative che operano all’interno del carcere con l’intento di offrire ai detenuti competenze e nozioni di accesso al lavoro. Catering, ristorazione, coltivazione di piante, sartoria, assemblaggio di servizi di telefonia e di macchinette per la distribuzione di snack alimentari, produzione e vendita di oggetti di legatoria, falegnameria e lavorazione del vetro. A ciò si aggiungono svariate attività sportive, ricreative e culturali animate da circa 400 volontari e da decine di associazioni. Questo ampio ventaglio di opportunità trattamentali si affianca a due virtuosismi: un modello di sicurezza fondato sulla conoscenza dei detenuti e non su una costante vigilanza fisica da parte della Polizia Penitenziaria; e un’interazione continua con la comunità territoriale in tutte le sue forme (istituzioni pubbliche, imprenditoria, terzo settore). In estrema sintesi, l’amministrazione penitenziaria del carcere di Bollate diventa committente di servizi e, così, trasmette alla persona detenuta quel contenuto della pena che dà senso alla pena stessa. Questo contenuto, questo senso della pena, è ciò che fa la differenza tra Bollate e le altre carceri italiane.

Ma a tale senso avrebbe diritto ogni persona detenuta, ogni popolazione penitenziaria. Non solo quella di Bollate.

Note bibliografiche

[1] https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/statistiche#

[2] https://www.rapportoantigone.it

[3] https://www.nessunotocchicaino.it

[4] https://www.rapportoantigone.it/ventesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/