La traduzione dialettale non è pedagogica

Di ROBERTO SCAGLIONE
(Assistente della Polizia di Stato e appassionato di scrittura)

L’ambiguità della traduzione si gioca nel doppio senso intrinseco al sostantivo medesimo, che equivale cronologicamente sia all’atto del tradurre, sia al testo tradotto. Si è generata così un’enigmaticità a cui taluni studiosi hanno preferito soccombere, tentando di elidere la confusione generata dall’ambivalenza di sostituire sinonimicamente l’atto del tradurre con il limitarsi solo alle definizioni più note.

Se la traduzione è già difficile e talvolta impropria nel passaggio traslato tra due lingue nazionali parlate, sarà di certo ancor più scadente se concerne il passaggio ben più ostico da una lingua nazionale a una delle corrispettive parlate dialettali, relative e confinate a zone geografiche che la globalizzazione ha genericamente contribuito a dilapidare. Se una traduzione simultanea non inflaziona molto l’originale parlato, poiché si propone d’interpretare quanto detto per renderlo approssimativamente chiaro a una platea di ascoltatori; viceversa, una traduzione scritta impone un rigore il cui reticolo si apre offrendosi a una molteplice varietà di spazi intertestuali. In tali spazi si crea, si accoglie e s’interpreta il testo di origine con successiva produzione di un testo nuovo: equipollente a quello di partenza, ma versato in un’altra lingua, detta “di arrivo” o “di destinazione”. Sicché la traduzione diviene, anche e forse principalmente, l’interpretazione dell’altrui discorso di cui s’intende recepire non solo il significato più evidente ed esplicito del testo di origine offerto, bensì carpirne – quando possibile – anche il senso nascosto e implicito nel pensiero dell’autore da tradurre, con la possibilità annessa di creare strutture semantiche (e quindi lessicali) atte a traslarne l’originale. Siffatto processo non risulta sempre facile giacché, rendendosi talvolta impossibile il mero “calco” mediante cui un’espressione è letteralmente tradotta, s’incorre facilmente in espedienti più immediati. Avremo così:

1) il “prestito”: consente di lasciare integralmente un’espressione del testo di origine, rilevandola in corsivo qualora se ne rinvenga l’assenza nel lessico di destinazione.

2) l’“adattamento”: si sostituisce la realtà socioculturale del testo di origine con una conforme o al più somigliante nel testo di destinazione.

3) la “compensazione”: si aggirano talune difficoltà stilistiche introducendo effetti espressivi in altri punti del testo di destinazione.

4) la “perifrasi”: supplisce una parola del testo d’origine con un gruppo di vocaboli, o talvolta con un’espressione, nella lingua di destinazione.

5) la “nota del traduttore”: oltre a fornire informazioni sui limiti annessi alla traduzione, chiarisce la dichiarazione della disfatta del traduttore, impossibilitato a tradurre termini “intraducibili”. In ossequio a chi – come già il filosofo Benedetto Croce e il letterato Eugenio Montale – sostiene l’intraducibilità dell’opera che prosegue ciononostante imperterrita, forse inconscia dei propri limiti già chiariti nei più comuni espedienti adoperati.

Questi ultimi non spiegano dunque, impossibilitati a farlo, come un dialetto locale potrebbe rendere perfettamente la traduzione di un’opera letteraria come pure di un semplice discorso in lingua nazionale, giacché la traslazione si vedrebbe depredata del lessico più aulico. Con ciò s’incorrerebbe nelle immense difficoltà in cui s’imbatterono gli autori romani nel tradurre le opere greche, nelle quali parecchi vocaboli risultavano intraducibili per incompatibilità storico-culturali. La civiltà romana, dapprima rurale e poi militare, era sicuramente patria del diritto, ma non delle arti che stava importando proprio dal contesto geografico ellenico. Così, come è noto, molti vocaboli greci subirono inevitabilmente traslazioni di fortuna, maculate da un variopinto connubio semantico tra l’interpretazione non proprio imparziale del traduttore e l’ibridazione di vocaboli tra radici e desinenze imbellettate alla buona: con coniazione forzata d’impropri neologismi, assai infedeli ai vocaboli di partenza. Se in tal caso la traduzione riguardava due lingue “nazionali” (considerando in qualità di moderne “nazioni” tali entità geopolitiche), ipotizziamo quanto potrebbe accadere traducendo proprio una lingua nazionale in uno dei suoi innumerevoli dialetti regionali: un abisso, crediamo, poiché ciascun dialetto locale si è sviluppato in tempi lontani e presenta in prevalenza termini specificamente idonei a quelle epoche.

La povertà lessicale del dialetto ne ostacola il divenire un valido supporto traslativo che consenta l’operazione traduttiva dalla lingua nazionale, il cui testo d’origine sarebbe certo impoverito dalla concreta assenza dei corrispettivi traducibili nei termini originali.

Da una parte, pare semplice improvvisare una traduzione dal dialetto alla lingua nazionale, cercando e trovando subito il termine (magari meno aulico possibile) che meglio ardisca a sostituire il vocabolo di partenza. Dall’altra parte, è improbabile che un vocabolo dialettale si presti a una traduzione dalla lingua di provenienza, cui non aderirebbe altrettanto facilmente per ovvi motivi linguistico-culturali. Se una traduzione dalla lingua nazionale subisce una simultanea riduzione formale nel ridimensionamento lessicale che la “volgarizza”, il dialetto ne viene viceversa accresciuto, previa scoperta dell’apposito termine che meglio lo “volga nuovamente” in altro idioma. Proprio la costante assenza di tali “traducibili” (ovvero i termini di destinazione approssimativamente corrispondenti a quelli di origine) genera la maggior difficoltà in ogni traduzione e specie in quella da lingua nazionale a dialetto.

Sussiste dunque un’impossibilità formale per cui traduzioni dialettali di opere didattiche, culturali e scientifiche, fungano da valido apprendimento pedagogico, laddove questo termine è adoperato come sinonimo di didattico, educativo, scolastico, istruttivo, formativo. Sembra così che la traduzione dialettale non consenta un corretto e completo apprendimento formativo, inflazionato da insufficienze lessicali che ne rendono empiricamente contestabile l’uso didattico-educativo ai fini formativi. In tale pedagogia dialettale vedrebbe dissipata gran parte – addirittura quella più nobile – dell’invidiabile repertorio lessicale della scuola.