Liberi… di non sentirsi a casa
La nostra personalità continua a formarsi dall’elaborazione del vissuto personale. Spesso lo sottovalutiamo, a volte perfino ce ne vergogniamo; eppure, il nostro vissuto è alla radice del nostro stare al mondo. Nulla è da minimizzare: neanche una canzone, neanche il fare controvoglia una cosa. Questa è l’esperienza che Dafne Guida ha raccontato di sè nel testo Nel segno di una canzone. Autobiografie musicali e creazioni di sé, a cura di Francesco Cappa e Angelo Villa (Mimesis, 2021). Ne pubblichiamo alcuni stralci, per la profonda convinzione che la somma libertà a cui è dedicato questo numero sia possibile per tutti: nelle piccole cose che, invece, piccole non sono.
di DAFNE GUIDA
(Presidente e Direttrice Generale della Cooperativa Sociale Stripes)
Io accendo il fuoco / tu metti i fiori nel vaso / che hai comprato oggi.
Fissando il fuoco / per ore e ore / mentre ti ascolto / suonare le tue canzoni / per me tutta la notte / solo per me.
Vieni qui vicino a me ora / e riposa la mente per soli cinque minuti.
Tutto è bene / una stanza così confortevole /l e finestre sono illuminate /dai raggi di luce che passano attraverso / gemme ardenti per te / solo per te.
La nostra casa è una casa molto, molto carina / con due gatti nel giardino / la vita solitamente è così difficile /ora tutto è facile / per merito tuo / … e nostro.
Crosby, Stills, Nash & Young, Our House, 1970
Ho iniziato a suonare il pianoforte quando avevo sette anni e ho suonato tra alti e bassi fino alla fine del liceo. Non credo di essere mai stata un modello di pianista: non avevo trasporto, suonavo in modo “freddo”, didascalico e non appassionato, non usavo i pedali e, soprattutto, mi annoiavo molto e non facevo nulla per nasconderlo. Però il suono delle mie sonate piaceva moltissimo alla amatissima nonna, sofferente, che abitava al piano di sopra: in suo onore, sia prima che dopo la sua scomparsa, mi sono spesso ritrovata a far correre le dita sul piano, nonostante il desiderio di suonare non fosse bruciante come sa essere un vero desiderio. Ricordo che nel giro di poco tempo le sonatine in sol di Bach e la “Per Elisa” di Beethoven – con le interminabili ripetizioni dovute ai continui errori commessi – avevano inferto un colpo mortale alla mia autostima e alle mie velleità musicali.
La noia albergava nei miei gesti ripetitivi. Il tedio e il senso di vuoto avanzavano provocando sbadigli perpetui dai quali a fatica mi liberavo quando la mia insegnante di piano veniva a casa, alle cinque del martedì e del giovedì, a impartirmi delle interminabili lezioni.
Fu in uno di quei pomeriggi autunnali, che la mitica Puricelli, maestra di piano dalla imperscrutabile età anagrafica e dagli improbabili copricapi colorati, si mise in testa di insegnarmi a suonare Our House. Perché lo fece? Me lo chiedo ancora adesso.
Probabilmente colse che in quello spazio destrutturato rappresentato dalla mia noia evidente fosse possibile chiedermi di fare un passo avanti, una ricerca di senso, un gesto creativo. Oppure, molto più semplicemente, si annoiava anche lei e voleva darci un taglio. Mi parò davanti lo spartito quasi all’improvviso descrivendomi quell’immagine di pace domestica; mi raccontò di un uomo (a cui diedi il volto barbuto di Graham Nash) che accendeva il fuoco; di una donna (la mitica Joni Mitchell con la chitarra sulle ginocchia e la minigonna) che cercava un vaso per mettere i fiori appena acquistati; e mi rivelò che quella canzone sarebbe stato davvero un bel regalo da suonare a Natale ai miei genitori.
Per chi la conosce e per chi la ascolterà, è bene sapere che la base musicale di Our house gira tutta intorno a pochi accordi, piuttosto semplici e ripetitivi. Eppure, per un lungo periodo Our house rappresentò per me la fuga dalla ripetizione, dall’esercizio sterile e faticoso delle mie dita, dal baratro del solfeggio, dalla dittatura del metronomo. Delle parole non seppi nulla per molto tempo, ma un giorno la sfida arrivò: tradussi con la maestra di piano il testo e mi si aprì un mondo. Mi vedevo mentre cercavo i fiori invernali da mettere nel vaso che mio marito ed io avremmo comprato ad una fiera dell’antiquariato. I significati di quel vaso, tra il mito di Pandora e l’eredità immortale delle porcellane cinesi Ming, raccoglievano le fantasie di una dodicenne che si affacciava alla vita piena di domande sul matrimonio e la vita coniugale. In quel vaso e nella casa così carina descritta nella canzone, cacciai dentro allora – e mi ritrovo a farlo ancora – i piccoli piaceri domestici e la banalità della felicità.
Ricordo con piacere il debutto natalizio in coppia con mia cugina (lei sì una vera pianista) e i complimenti dei nonni e degli zii. La casa descritta nella canzone diventò per me la casa dei desideri, il punto di arrivo di una vita.
Mio padre, imperscrutabile e stonato, amante dell’opera e non incline ai motivetti alla Woodstock, non sembrò gradire granché la mia performance, ma fu proprio questo a farmi riflettere, successivamente, su quanto fossimo diversi io e lui. Mio padre non amava le canzoni in inglese e fieramente le storpiava ilare e provocatorio. Gli capitò di dirmi che perdevo tempo con quel ritornello melenso e che proprio non coglieva l’armonia vocale che tanto decantavo. Nel frattempo, io cominciavo a detestare i pezzi classici e le sonate da preparare per gli esami di armonia. All’altisonante pathos del “Chiaro di luna” di Beethoven opponevo nel mio immaginario la banalità del gesto di cura rivolto al gatto, al fuoco, al fiore.
Riascoltando oggi in Our house quel vaso misterioso da riempire di cose belle, rivedo la ragazzina curiosa che ero e, con lei, tutte le bambine e le giovani donne incontrate in questi anni nei servizi educativi e nelle scuole lombarde. Delle “Novelle Pandora” che, non resistendo alla curiosità, scoperchiano il vaso facendone uscire tutto quello che vi è contenuto: tutte le calamità del mondo. È soltanto sviluppando la capacità di richiudere il vaso colmandolo di fiori che è possibile tenere sul fondo il bene più prezioso: la speranza.
Tante volte nei miei pomeriggi da mamma ho ascoltato il dolce break strumentale di Our house, ho canticchiato il suo ritornello semplice e ho suonato gli accordi sul vecchio John Grey e Sons che ho portato con me nei miei frequenti traslochi. Our house è la canzone della mia casa. Casa che anche così si è popolata di dolcezza e si è riempita di luce, accompagnando i miei superflui e sinceri gesti di affetto genitoriale. Assecondare il desiderio di accendere il fuoco della relazione, accomodare il vaso e accogliere la luce del sole è ancora un gesto di cura che rivolgo a me stessa e a coloro che incontro perché si sentano sempre a “casa loro”. Proprio come io imparai a sentirmi a “casa mia” mentre suonavo uno strumento per amore dei miei genitori, e non certo per indomita passione. Imparare quella canzone fu il solo modo per accettare che vi fosse un luogo incomprensibile dove non accadeva nulla di memorabile: dove semplicemente “sostavo” nella attesa di diventare grande; dove tutto poteva accadere proprio perché, di solito, non accadeva mai nulla.
Quando ho compiuto 18 anni ho comunicato ai miei genitori che avrei smesso di suonare il pianoforte: non perché si fosse esaurita la mia passione musicale, ma perché suonando non mi ero mai “sentita a casa”. Oggi posso dire che almeno una volta, suonando Our house a dispetto di tutti, a casa mi ci sono sentita. Quella casa è ancora dentro di me, a rappresentare il luogo in cui ambientare i miei gesti creativi, di cura e di attenzione. A farmi soprattutto ricordare quanta libertà possa generarsi da un legame. Da un vincolo guardato non come qualcosa da subire, ma come gradino: segno di fatica e insieme di ascesa.