Il rischio di essere liberi (e di educare alla libertà)
Di ALBERTO BONESSO
(Pedagogista, opera nell’ambito della tutela dei minori per la cooperativa Kirikù, coordinando educative domiciliari e progetti rivolti alla comunità)
La relazione che intercorre tra educazione e libertà è centrale anche all’interno dell’elaborazione dei valori e dei servizi che sono stati negli anni sviluppati a favore delle famiglie e delle politiche giovanili.
La prima mossa della mia riflessione muove da una considerazione riguardo alla possibilità di dirsi liberi, ovvero la facoltà di libero arbitrio. Tale tema, per nulla scontato nelle scienze contemporanee, investe una riflessione di natura metafisica, ma la sua traduzione in un piano pedagogico prevede un’analisi di tipo più epistemologico: dall’assumere la possibilità dell’atto libero derivano, infatti, differenti concezioni dell’umano e di ciò che è “bene” per l’uomo e la donna. Il tema della libertà è pertanto assiologico, nel senso che la possibilità della libera scelta è il punto di partenza per il nostro riflettere: da qui deriva una specifica concezione della vita umana e del ben-essere verso il quale tendere. Nel pensiero pedagogico occidentale che si sviluppa da tale assunto, non vi è un adeguarsi al fato per compierlo, ma il dover trovare, ascoltare, seguire le proprie intime peculiarità al fine di metterle a servizio di tutti. Si tratta di un punto fondamentale: se si parte dal presupposto che esiste la possibilità dell’atto libero, tale atto acquista rilevanza nella scelta individuale. Se dunque l’individuo ha facoltà dell’atto libero, il nucleo della libertà consiste nella possibilità di scelta. Tale possibilità, però, si sostanzia sempre in un contesto, in una storia che è corale, che è insieme di storie: non è pertanto l’individuo ad essere libero, ma la persona, cioè quella storia particolare che si sviluppa in vari contesti eppur ne trascende, cioè può compiere atti liberi. In estrema sintesi, l’importanza dell’atto libero viene ad essere necessariamente connesso con la storia di chi lo compie. Se si parte da una concezione individualistica, educare alla libertà diviene un ossimoro: educare, invece, è sempre un condurre o, meglio, un portare alla luce che – in ultima istanza – consiste nel dare direzione, proteggere e, in alcuni casi, limitare. Si può pensare di educare alla libertà solo in un’ottica personalistica, nella quale il noi anticipa l’io e lo significa, dandogli non solo contesto, ma anche sostanza. L’atto libero è possibile ed acquista valore nell’unicità di quella specifica persona, che lo compie in quel specifico modo e in quel specifico tempo, dando così vita ad un unicum. Rimanendo in questo solco di pensiero: essere liberi acquista senso specifico e “valore”, nel modo in cui favorisce il “noi” di cui l’individuo è composto. Più ampio è il “noi” a cui la libertà del singolo porta “giovamento”, più accresce il valore e il senso dell’essere libero.
Emergono due elementi cardine. Il primo: nell’accompagnamento all’adultità, è centrale sostenere l’ascolto delle intime peculiarità di ognuno. Per i greci si trattava di seguire il proprio demone (in Eraclito in particolare: «demone a ciascuno è il suo modo di essere»[1]) e nelle riflessioni successive, di matrice cristiana, di ascoltare la “chiamata”, ovvero la scoperta dei propri talenti. In entrambe tali sensibilità, la scoperta di sé è connessa ad azioni che prevedono una sorta di passività, o meglio una relazione all’interno dell’individuo, una dimensione dialogica interna: essere liberi è un modo di essere in relazione prima di tutto con sé stessi e, da qui, di essere in dialogo con l’altro. Per educare alla libertà occorre dunque “solo” rispondere all’altro: non nel senso di vincolarlo, ma di condurlo permettendone l’emersione, l’espressività. Per questo, educare alla libertà – cioè tendere alla liberazione – è possibile.
Secondo elemento cardine: le peculiarità personali acquistano valore, o carattere di preferibilità, solo nell’essere a servizio dell’altro. O, altrimenti detto: dirsi liberi è un modo di stare in relazione con gli altri, che tende a mettere a frutto di tutti il particolare modo di essere di ciascuno.
In sintesi: educare alla libertà è quella forma di accompagnamento all’adultità che mette al centro la scoperta delle proprie intime peculiarità, così che possano essere messe a servizio dell’humanitas.
Ma come si può sviluppare un approccio libero e liberatorio dell’altro? La mia esperienza all’interno della cooperativa Kirikù mi porta a suggerire innanzitutto tre indicazioni.
Educazione emotiva
È un ambito che riguarda l’intimo ascolto di sé stessi, quel seguire il proprio demone di eracliana memoria. Alla luce degli ultimi studi di neuroscienze, delle teorie dell’evoluzione, della biologia e delle teorie dei sistemi di flusso, Arrigo Sartori e Carluccio Bonesso in “La timologia[2]” approfondiscono il sistema emotivo, facendo emerge chiaramente che la nostra capacità di “riflettere”, o in senso largo di compiere scelte razionali, è sempre secondaria rispetto a quello che “proviamo”. Riducendo all’osso: il nostro pensare cosciente, dove la scelta libera si manifesta, è sempre informato dal nostro sentire. Appare chiaro che, se una scelta libera è una scelta della “volontà cosciente”, è necessario curare il sentire emotivo. «La libertà consiste in questo: nella capacità di dar corso a pratiche che mostrano – nel concreto – di oltrepassare la somma dei fattori condizionanti, pur esprimendosi nello spazio e nel tempo»[3]: così descrive Giuseppe Mari in Educazione come sfida della libertà, facendo intendere che tali pratiche si sostanziano nella scelta cosciente. Riconoscere le emozioni, dar loro un nome, saper riflettere prima di dare risposta: tutto ciò è prerequisito dell’atto libero e, pertanto, la competenza emotiva è necessaria per conoscersi e per seguire il proprio “demone”. Su questo tema crediamo che la società odierna italiana sia a buon punto: la bibliografia che parla di emozioni e di educazione emotiva è molto ampia; in generale, chi si occupa di educazione ha ben presente la centralità del fattore emotivo; sono inoltre sempre più presenti laboratori che – dalle scuole dell’infanzia, fino alle superiori e oltre – con il coaching vocazionale, sostengono la persona nella lettura del proprio sentire e nel discernere i propri desideri.
Educazione alla responsabilità (educazione alla cooperazione)
Potremo dire, come canta Lindo Ferretti in “Depressione Caspica” (canzone del Consorzio Suonatori Indipendenti): «la libertà è una forma di disciplina». Una volta che si è accompagnata la persona a riconoscere i propri talenti e si è sviluppata in lei una postura dialogica, in primis verso sé stessa, occorre accompagnarla a mettere le proprie caratteristiche a servizio dell’altro. Per fare ciò non si può solo lavorare in un piano individuale: se è il “noi” che dà forma all’“io”, per sostenere una postura dell’essere-per-l’altro è necessario un agire politico. Aver scelto di essere una cooperativa, cercando di dar vita ad assemblee reali in cui lo spazio di confronto sia autentico; dare centralità all’equipe come luogo in cui ciascuno possa portare le proprie passioni e i propri punti di vista, dove le difficoltà non siano mai lasciate al singolo, ma affrontate coralmente: ciò è il modo in cui alcuni educatori hanno deciso di declinare la propria libertà. Riuscire a dare soluzioni collettive a problemi che nascono nell’ambito individuale, è la via maestra per declinare meglio l’atto libero: per farne percepire la stretta connessione con le responsabilità e le scelte di tutti. Se fin dalle scuole primarie – attraverso laboratori ed esperienze concrete – si promuovessero i valori della cooperazione, o dell’ecologia (solo per fare due macro esempi), credo sarebbe un modo molto efficace per significare il senso di una educazione alla libertà.
Educazione al rischio
Tutte le agenzie educative e sanitarie (famiglia, scuola, enti privati con finalità sociale, amministrazioni, comunità locale, Ulss) hanno l’obiettivo di far approdare i giovani all’adultità accompagnandoli ad attraversare – e superare – i compiti evolutivi necessari. Fino agli anni 50 tale percorso era, per così dire, lineare: si imparava a stare dentro ad una logica e ad un futuro definiti da altri, gli adulti; e sia i compiti evolutivi (cioè l’acquisizione di quelle competenze che permettono di superare in modo positivo una certa fase di crescita), sia i compiti scolastici andavano di pari passo perché – già alla fine della 3° media – un ragazzo o una ragazza sapeva di entrare nel mondo del lavoro (spesso scelto dai genitori) e, dunque, nel mondo adulto. Oggi, per arrivare ad essere adulti, i giovani devono fare un grande lavoro di senso e di costruzione di sé: capire e scoprire le proprie competenze, scegliere dunque i propri valori di riferimento e portarli avanti. Si tratta evidentemente di un cambiamento positivo, che ha incrementato la libertà personale di ciascuno; tuttavia, come avviene per ogni complessità, tale trasformazione porta con sé elementi contradittori. Basti pensare alla contemporanea consapevolezza della centralità delle emozioni e della loro incidenza nello sviluppo: ciò è fondamentale, ma alcune “mode psicologiste” – presenti nella cultura generale e diffuse da una malintesa formazione alle relazioni interpersonali – rischiano di accentuare la creazione di spazi protetti, senza permettere una libertà concreta. Essere liberi, invece, è sempre un rischio: compiere azioni libere, che vadano oltre a meri calcoli, significa inevitabilmente anche poter fallire, sbagliarsi, fare i conti con la sofferenza, con l’imprevisto. Essere liberi ha certamente a che fare con il nostro percorso vissuto, ma anche con quello che vivremo in futuro e che oggi non conosciamo. Gli eventi che attraversiamo, infatti, spesso sono ricorsivi degli eventi accaduti, e così anche un trauma può acquistare senso non grazie ad esperienza evitata, ma grazie ad un’esperienza già vissuta, o che vivremo.
Molta pedagogia contemporanea si concentra su un’iper-focalizzazione dei compiti dei genitori, o sull’evitamento delle frustrazioni per i ragazzi. A maggior ragione nel tempo attuale, credo che sia necessaria una nuova riflessione di matrice pedagogica che sappia mettere al centro il valore del rischio che la libertà comporta. Ma questo è impossibile senza dare dignità anche alla sofferenza, alle difficoltà, ai limiti a noi interni o esterni: così si può capire cosa è necessario e cosa è superfluo; o si possono individuare anche nuove ritualità che permettano di valorizzare i momenti di passaggio per l’età adulta (compimento dei 18 anni, patente, ecc). Momenti che a mio avviso impongono a chi educa un cambiamento di postura, di sguardo sulla vita libera: certamente rischiosa, ma l’unica ad essere in fondo desiderabile.
Eran costretti, tutti,
a seguir lui, il solo
che avesse una lanterna
Ma all’alba,
tutti si sono dileguati
come fa la nebbia. Tutti.
Chi qua, chi là.
(C’è chi ha preso,
pare, una strada falsa.
Chi è precipitato. È facile.)
Oh libertà, libertà.
(Giorgio Caproni, “All’alba”)
[1] Ivano Dionigi, Segui il tuo demone, Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma 2020.
[2] Carluccio Bonesso, Arrigo Sartori, La timologia. Scienza delle emozioni. Verso una nuova comprensione dell’esperienza umana, Rubentino, Catanzaro 2013.
[3] Giuseppe Mari, Educazione come sfida della libertà, La Scuola, Brescia, 2013.