Le pari opportunità sono un principio giuridico per cui non ci devono essere ostacoli alla partecipazione economica, politica e sociale di qualsiasi individuo: a prescindere dal suo genere, da religione e convinzioni personali, da razza e origine etnica, disabilità, età, orientamento sessuale o politico e tutto ciò che può diventare fattore di discriminazione.
L’attenzione su questi temi viene da lontano. Nel 1957, infatti, il Trattato di Roma già specificava l’obbligo per ciascuno stato membro della comunità europea di assicurare l’applicazione della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e femminile.
Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) varato nel 2021, il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio ha introdotto il “Sistema di certificazione della parità di genere”, che mira a promuovere sia una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro, sia una maggiore qualità del lavoro femminile. L’obiettivo è anche ridurre quel gender pay gap (divario retributivo di genere), per cui – a parità di mansioni svolte – il salario annuale medio maschile è superiore a quello medio femminile.
Da una effettiva parità di genere siamo ancora molto lontani, ma siamo sulla strada giusta. In questa strada la Cooperativa Stripes ha sempre creduto e nel settembre 2024, quasi come un regalo di compleanno per i suoi primi 35 anni di attività, ha ottenuto la Certificazione per la Parità di genere da Kiwa Cermet Italia, uno degli organismi accreditati per gli schemi di certificazione ISO 9001[1]. Si tratta di un traguardo importante che riconosce tutti gli strumenti introdotti da Stripes. Non solo al proprio interno (basti pensare che, fin dagli esordi, ha avuto oltre il 90% di organico femminile); ma anche all’esterno, tanto da aprire nel 2023 il servizio di Stripes Corporate: un fornitore diretto al quale sia le aziende profit che no profit possono rivolgersi per realizzare progetti ad alto impatto sociale e inclusivo.
Cosa implica valorizzare sempre di più le persone e le loro differenze, andando oltre stereotipi e pregiudizi? A ciò CultureLink ha dedicato un incontro dal titolo “Conciliazione e cambiamento: donne, politica e welfare per un futuro di pari opportunità”. Se ne è parlato sabato 5 ottobre 2024.
Insieme a Gaia Baschirotto, responsabile Certificazione sulla Parità di Genere di Stripes Coop, hanno dialogato Franca Maino (Professoressa Associata presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano e Direttrice scientifica del Laboratorio Percorsi di secondo welfare); e Alessandra Grendele (Chief Commercial Officer, Head of Merchandise, Marketing, E-commerce, Pricing and Commercial Services di Carrefour Italia).
In quale contesto viviamo? In Italia la maggioranza delle donne desidera almeno 2 figli, un numero che basterebbe a garantire il tasso di ricambio generazionale. Nonostante questo, il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna) è pari a 1,24, diminuendo quasi costantemente negli ultimi 10 anni. Nel frattempo, continua a crescere l’età media al primo figlio: nel 2024 è pari a 32,2 anni, a fronte di un valore di 31,1 anni nei Paesi UE. Tra il 2040 e il 2060 gli anziani raggiungeranno il 33% (nel 2024 sono il 23%) del totale della popolazione.
Il nostro sistema di welfare continua ad essere sbilanciato: sulla famiglia, scaricandole addosso le responsabilità assunte dalle politiche sociali; in termini occupazionali, con meno donne impiegate rispetto agli uomini; e in termini organizzativi, con trasferimenti di responsabilità, invece che servizi concretamente rispondenti ai bisogni della popolazione.
Concentrate esclusivamente sul sistema pensionistico, le politiche familiari continuano a penalizzare i bisogni collegati alle fasi precedenti al ritiro dal lavoro: basti pensare alla mancanza di un reddito sufficiente, alle esigenze di cure sanitarie, ai disagi abitativi, alle necessità di formazione professionale. Nel 2024, non a caso, l’Italia risulta tra i paesi dell’Unione Europea con la più bassa spesa per famiglie e minori: siamo al quartultimo posto – prima di Malta, Cipro e Irlanda – in una classifica che vede in testa Germania, Polonia, Danimarca, Lussemburgo e Austria. Qualcosa però si sta facendo. Con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, l’Italia ha finalmente una legge di riferimento per affrontare il problema della non autosufficienza: il PNRR del 2023, per esempio, ha previsto 250.000 posti di lavoro per la fascia 0-6 anni. Perché? Perché conciliare famiglia e lavoro è una sfida sempre più difficile, tanto più nell’epoca di quell’intensive parenting che continua a sovraccaricare i genitori – in particolare le donne – di numerosissime attività educative e ricreative.
In Italia la parità di genere risulta ancora impari perché il nostro welfare è imbevuto di due fondamentali concezioni: paternalismo e maternalismo. Nella visione paternalistica spetta ai maschi il ruolo di garantire la sicurezza economica della famiglia, e allo Stato il compito di assicurare le condizioni per lo svolgimento di questo ruolo. Nella visione maternalistica, invece, spetta alla donna l’intera gamma delle attività di riproduzione sociale (al di là della gestazione), e allo Stato l’adozione di politiche pubbliche che incentivino e sorreggano lo svolgimento dei compiti riproduttivi. All’interno di una mentalità così, l’equità di genere non può che partire innanzitutto dal lavoro – cioè il mezzo principale per raggiungere il benessere – e dal diritto alla cura, cioè una condizione indipendente dallo status lavorativo.
Come è possibile per una donna continuare la propria carriera senza rinunciare alla maternità, o senza spostare sempre più in là il momento in cui diventare madre? È quanto testimonia la storia di Alessandra Grendele: madre di famiglia e manager apicale di Carrefour Italia. Originaria di Valdagno – paese nella provincia di Vicenza – Alessandra avrebbe potuto continuare l’attività di artigianato orafo della famiglia, ma desiderava qualcosa di diverso, addirittura andare a lavorare all’Onu. Da qui la decisione di studiare ingegneria gestionale. Una volta laureata, comincia a fare colloqui in aziende importanti, ma nessuna porta le si apre. In modo accidentale entra nel settore digitale del mondo bancario e così inizia il proprio percorso lavorativo, con ottimi riconoscimenti. Le due gravidanze hanno un effetto lavorativo opposto: al termine del primo congedo di maternità viene catapultata in un altro ufficio, con un’evidente mortificazione di ruolo; al termine della seconda, invece, la sua carriera procede senza alcuna diminuzione. Nel 2019 Alessandra arriva in Carrefour Italia e si dedica alla cosiddetta transizione alimentare: un mangiare sano e accessibile a tutti come fattore essenziale per salute e longevità. Alla mission sociale di questo lavoro Alessandra si appassiona sempre di più e ciò, unito alle sue competenze, la porta a ricoprire un ruolo di vertice, riuscendo anche a svolgere pienamente le sue mansioni di madre. Come ha fatto? Con 2 aiuti: quello dell’intero nucleo familiare, a partire dal marito, sempre disponibile a dividersi compiti e incombenze; e con l’aiuto delle politiche aziendali. Senza ciò ad Alessandra non sarebbe stato possibile, per esempio, rispondere alle esigenze scolastiche dei propri figli. Basti pensare che prima del 2020, cioè prima della crisi pandemica che ha introdotto l’abitudine ad usare la tecnologia digitale, le scuole non si rendevano conto che i colloqui con gli insegnanti in piena mattina o pomeriggio fossero impossibili per genitori entrambi lavoratori. Se chi era vicino ad Alessandra avesse scaricato addosso a lei le responsabilità familiari, invece che condividerle, come per fortuna è accaduto, Alessandra avrebbe dovuto inevitabilmente rinunciare a qualcosa. E così facendo ci avrebbe smenato non solo lei, ma anche tutte le comunità prossime a lei, innanzitutto quella lavorativa: dalla sua esperienza di madre lavoratrice, infatti, Alessandra ha promosso tantissime iniziative di inclusione, per esempio quella di concedere 12 giorni all’anno di congedo per le donne che soffrono di endometriosi dolorosa: una patologia che affligge in Italia il 10-15% delle donne in età riproduttiva ed è causa di infertilità nel 30-40% dei casi. La diversità di prospettive è una ricchezza; le pari opportunità si costruiscono sulla meritocrazia; la digitalizzazione è un elemento formidabile di inclusività: questi sono gli ingredienti fondamentali per una vera politica sociale. Il percorso di Alessandra Gredele lo dimostra, così come tante altre esperienze. Come la storia, per fare un altro esempio, di Isabella Conti, dal 2014 al 2024 giovane sindaca di San Lazzaro di Savena, dove è riuscita a offrire asili nido gratis e senza liste di attesa.
Come può un welfare pubblico tradizionale affrontare da solo tutte queste sfide? Ecco che entrano in gioco gli attori del terzo settore e le relative comunità territoriali che, mettendo in comune i propri dati, cioè co-progettando insieme allo Stato i servizi necessari, possono anche aiutarlo a realizzare una società più amica, più vicina a tutte e a tutti.
Gli esempi non mancano anche da un punto di vista accademico. Lo dimostra la strategia Fast, curata dalla professoressa Franca Maino. Si tratta di una strategia che unisce i 4 ingredienti fondamentali per un’equità di genere: politiche Familiari; Asili e servizi di qualità per l’infanzia; Servizi di conciliazione (anche attraverso il welfare aziendale contrattato e territoriale); Tempo (lavoro agile e politiche urbane che mirino ad una maggior apertura dei luoghi di lavoro, degli esercizi pubblici e di tutti gli spazi cittadini). Gli effetti positivi di questa strategia sarebbero anche economici: un incremento del 10% degli investimenti nel settore dell’assistenza all’infanzia e agli anziani, potrebbe produrre un incremento di 50 miliardi annui del PIL europeo; e altri 35 miliardi potrebbero derivare dalla maggior occupazione femminile.
In sintesi, il modello della strategia FAST propone di passare da un welfare riparativo – che cerca di rispondere ai bisogni manifesti – ad un welfare di prossimità: concentrato sulla prevenzione delle situazioni di vulnerabilità e, di conseguenza, sulla promozione del benessere individuale. Magari anche chiedendo alle famiglie di pagare parte di alcuni servizi.
Quindi: serve più pubblico, o più privato? Serve sia più pubblico, sia più privato. Servono nuovi ruoli per regioni e comuni, così che non siano più solo produttori o solo acquirenti di servizi, ma promotori di un’amministrazione condivisa fin dalla programmazione. Serve un nuovo ruolo per il terzo settore, così che non sia solo semplice fornitore della pubblica amministrazione, ma disposto a correre il rischio di essere misurato sull’impatto sociale, non appena sul servizio standard erogato. Serve infine un nuovo ruolo anche per il mondo delle imprese, con la promozione di un welfare aziendale realmente integrato nelle comunità territoriali.
Serve, in definitiva, una mentalità sussidiaria che pervada dalle cucine di casa, alle aule della politica.
[1] La certificazione ISO 9001 si riferisce a norme definite dall’International Organization for Standardization per delineare i requisiti per i sistemi di gestione della qualità all’interno di tutti i tipi di aziende. La ISO 9001 è lo standard internazionale più conosciuto e utilizzato per i sistemi di gestione della qualità. Questo certificato è come un marchio la cui presenza sancisce che le attività di un’impresa rispecchiano i requisiti minimi della norma: così i clienti possono essere sicuri di rivolgersi a un fornitore i cui prodotti siano verificati e verificabili in tutte le fasi di realizzazione. Tale certificazione non è obbligatoria, ma il suo possesso sta diventando sempre più indispensabile per far fronte alle competitive sfide del mercato. In tutte le gare pubbliche dello stato, negli appalti e nell’affidamento di forniture importanti, si richiede il possesso della certificazione Iso 9001.a
Tra paternalismo (spetta ai maschi il ruolo di garantire la sicurezza economica della famiglia) e maternalismo (spettano alla donna tutte le attività di riproduzione sociale), lo Stato cosa può fare? Il terzo settore cosa può fare?
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