In tutti gli ambiti – naturali, o professionali – in cui viene esercitata, l’educazione è affascinante perché si pone come un atto di speranza. E proprio la speranza è il motore della vita psichica ed affettiva: fortifica il desiderio, attiva la motivazione, in una parola mette in movimento la vita. Chi spera non è un ottimista nato, ma una persona che ha vissuto in un contesto educativo: sa accettare i propri limiti e quelli altrui; sa attendere con lo sguardo fisso sulla meta; soprattutto sa che ogni percorso è fatto di passi graduali, per superare i quali occorre a volte appoggiarsi a qualcuno. Fiducia, ascolto, comprensione, empatia, condivisione di significati, inclusione: queste innanzitutto le virtù generative di bene cui educatrici ed educatori sono chiamati. A tutto ciò CultureLink ha dedicato un incontro dal titolo “L’educatore tra scuola e territorio”.
Se ne è parlato sabato 5 ottobre 2024 insieme a Raffaele Mantegazza (Professore di pedagogia presso l’Università di Milano- Bicocca), Cristina Palmieri (Direttrice del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca; docente di pedagogia generale e sociale), Simone Finotti (dirigente scolastico del Liceo “C. Cavalleri” di Parabiago) e Gianluca Salvati (pedagogista Stripes Coop).
Per stare nei contesti, è necessario per gli educatori padroneggiare competenze che permettano di entrare in relazione con moltissimi mondi e molto diversi tra loro: la scuola, il domicilio, fino ad arrivare ai luoghi più informali come le attività extra scolastiche e familiari. In tutti questi ambiti l’educatore è in continuo movimento, sia a livello fisico che emotivo. Se, infatti, ogni contesto richiede di adattarsi alle proprie dinamiche operative, tutti i luoghi portano con sé anche un bagaglio di emozioni e di stili di relazione con i quali sintonizzarsi. Il pedagogista itinerante nel territorio si muove insieme ai solidi valori fondativi della propria professione: questi valori contaminano i luoghi che incontrano e, a loro volta, si lasciano contaminare dagli spunti e dalle riflessioni che emergono nel viaggio educativo. Quali sono i valori che guidano chi educa? Il motore più forte è il voler smentire quel senso di impotenza e rassegnazione nei confronti del male che abita il mondo. “È sempre andata così”, “l’uomo è destinato ad essere cattivo” …: sono affermazioni che costruiscono muri imponenti di fronte alla speranza di un cambiamento positivo. L’idea che in fondo sia “tutto inutile”, è proprio la convinzione che gli educatori si propongono di distruggere. A prescindere dalla storia personale e dalle azioni negative del passato, c’è quindi un presupposto sacro: credere che chi si ha davanti può cambiare, e che possa farlo ancora meglio se c’è qualcuno pronto a camminare insieme a lui. L’educazione così diventa uno strumento per cambiare, se non il mondo intero, le persone: facendo in modo che queste riscoprano la propria identità e rinascano. Per poter credere in un progetto tanto grande, bisogna prima di tutto credere nella potenza della relazione. Relazione che indica una direzione giusta – soprattutto quando da soli non la troviamo – e che supporta nel riflettere su se stessa. Il lavoro educativo spinge in questo senso a ritagliare uno spazio per la riflessione nella dinamicità della vita di tutti i giorni. Citando Riccardo Massa, educazione è anche «prendere la vita, metterla tra parentesi e pensare», ragionare quindi sulle proprie azioni e anche sui propri errori, per migliorare. Chi educa osserva la vita di chi incontra “elevandola al quadrato”, spingendo a considerare i passi falsi da un punto di vista differente.
Questo mandato educativo include un presupposto di gestione comune delle difficoltà dei bambini e degli adolescenti: così la crescita, più che un fatto privato e da gestire “in famiglia”, diventa un fatto sociale. Per questo motivo il lavoro dell’educatore è in contrapposizione con una visione solipsistica di “privatizzazione” dell’educazione: il modo in cui i nostri bambini e adolescenti diventano grandi è una questione politica, riguarda cioè la polis dove tutti abitiamo. A scuola, per esempio, l’educatore lavora a favore di una socializzazione del sapere, intervenendo nella relazione tra insegnante e bambino e rispecchiando da fuori le dinamiche di questo rapporto. Come luogo di formazione per eccellenza, la scuola è infatti il contesto centrale dentro cui il bambino cresce e mette in pratica gli insegnamenti che la famiglia ha trasmesso. È importante però non trattare questi insegnamenti come assoluti o insindacabili: l’educazione “privata” è fatta per essere interrogata e talvolta messa in discussione nel pubblico. I panni sporchi si lavano in piazza, dove tutti possono trarre vantaggio e conoscenza da un confronto reciproco. Ciò che gli educatori si sforzano di fare è trasmettere alle famiglie proprio questo significato profondo, basato sulla condivisione dell’educazione. Se sbagliare è un atto umano per chi educa, chiedere aiuto è un’azione eroica di coraggio e intelligenza. Come De Gregori canta[1], i nostri bambini sono figli del mondo: dare una seconda possibilità alla loro educazione non dovrebbe mai essere motivo di vergogna, ma interpretato come un gesto di cura. Con questi propositi, gli educatori ritagliano la propria carriera tra un mare magnum di competenze, incasellamenti e professionalità diverse, tratteggiando spesso faticosamente il loro posto in ogni luogo che incontrano.
Per essere un educatore, tuttavia, non basta frequentare il territorio, ma bisogna farlo con un’intenzionalità profonda dell’anima, capace di prioritizzare il bene educativo sopra ogni cosa.
È necessario infatti andare oltre l’idea che esistano urgenze dell’agenda pubblica più impellenti dell’obiettivo educativo. È necessario rinunciare a logiche di visibilità personale e chiedersi come menti progettanti: che impatto avrà questa azione sulla società e sui giovani che la abiteranno tra 10 anni? Come posso fare giocare un bambino, anche in mezzo alla complessità dell’oggi? Quel che lo farà giocare oggi, sarà efficace anche domani? Queste domande danno l’idea della complessità dentro cui un educatore opera, una complessità che fugge dalle semplificazioni dei non-esperti del settore.
Quando si formano i futuri educatori, all’interno delle università si cerca di trasmettere l’importanza del lavoro che andranno a svolgere. Spesso, per riferirsi al territorio, si utilizza l’immagine di un arcipelago: formato da tante isole, a volte senza porti, altre volte con diversi ponti. Gli educatori è come se si trovassero a vagare per queste isole: non attraccano mai, ma esplorano, cercano di accedere là dove è più difficile, costruiscono ponti che vengono abbattuti dalle maree e distruggono muri là dove vedono fortezze. L’arcipelago cela in questo modo una contraddizione interna: da una parte necessita di fare rete per definirsi unito, dall’altra è pieno di ostacoli per accedere ai suoi porti. Ma è in questa contraddizione che i futuri educatori imparano a sostare e ad avvicinarsi ai bisogni reali delle persone. Dalle università alle scuole dell’infanzia, la scuola è il luogo da cui partire per costruire le premesse di un cambiamento positivo.
Anche quando lo spazio per l’educatore risulta poco definito – in piedi vicino al banco, su una sedia sola condivisa con l’insegnante di sostegno – l’educatore cerca di contaminare tale contesto e di lasciarsi contaminare da questo. Così si adatta ai luoghi portando qualcosa di sé, prende qualcos’altro e lo ridistribuisce nei nuovi spazi educativi che visita. La figura dell’educatore finisce con l’essere spesso il vero punto di riferimento per chi vive difficoltà a scuola, garantendo una continuità tra contesto formale e informale, nel passaggio spesso complicato tra scuole di diverso grado. Grazie a questa presenza costante che accompagna durante tutto il percorso evolutivo, si dispiega per le bambine e i bambini un progetto di vita pensato su misura.
Conoscere i contesti per scorgere le potenzialità, immaginare una cultura basata sull’aiuto e maneggiare le condizioni che rendono una relazione educativa: sono tutti ideali che creano la figura dell’educatore. Una figura che ricorda i quadri di Picasso, composti da personaggi poliedrici e sfaccettati, singoli profili che, uniti, creano un’opera sorprendente – e una professione – unica nel suo genere.
[1] “Quattro Cani” di Francesco De Gregori è inclusa nell’album Rimmel, pubblicato nel 1975.
Che importanza ha, oggi, la figura dell’educatore? Quale è il suo ruolo nel contesto sociale e quale impatto ha sulla comunità circostante? Gli educatori sono chiamati oggi a operare in contesti sempre più diversificati e complessi, che necessitano di competenze trasversali e sempre più specifiche.
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