Dall’empatia alla geopolitica… Intervista a Greta Cristini
Greta Cristini – classe 1993 – è analista geopolitica. Laureata alla Sorbona e già avvocata anticorruzione negli Stati Uniti, ha perfezionato la sua formazione alla Scuola di geopolitica e di governo della rivista Limes. Dall’inizio del conflitto in Ucraina, ha trascorso sul campo diversi mesi come reporter freelance, focalizzandosi principalmente sulle questioni militari e politico-diplomatiche. Per Limes ha condotto dal campo interviste geopolitiche con i più alti funzionari del governo ucraino, nonché con vertici diplomatici, militari ed esperti. Nel 2023 ha pubblicato per Piemme il suo primo libro – Geopolitica. Capire il mondo in guerra – presentato alla Biblioteca della Camera dei Deputati sotto gli auspici della Presidenza. Nell’ottobre del 2023, si è recata per oltre un mese sul campo fra Israele e Palestina, scrivendo come reporter freelance per diverse testate come Il Messaggero e l’Huffington Post e svolgendo collegamenti per trasmissioni di Rai, Mediaset, La7 e del Gruppo Gedi. Autrice e voce del podcast di geopolitica “Il Grande Gioco” di OnePodcast (GEDI) dove racconta i retroscena dei fatti più importanti accaduti in giro per il mondo a partire dagli interessi delle tre maggiori potenze: Stati Uniti, Cina e Russia, è anche ospite in radio, podcast e tv per commentare l’attualità internazionale e tiene regolarmente seminari e conferenze presso università, associazioni, scuole di formazione politica e aziende. Di rientro da un viaggio sulla portaerei Cavour nel Mar Cinese in collaborazione con la Marina Militare, sta scrivendo il suo secondo libro per Giunti sul primo dispiegamento del Carrier Strike Group italiano nell’Indo-Pacifico.
Nel suo lavoro si occupa di fare informazione di qualità riguardo a quello che accade nel mondo. Perché i giovani di oggi non possono fare a meno di conoscere il contesto internazionale?
Essendomi formata all’estero, trovo impensabile che i giovani non siano interessati a conoscere il contesto internazionale intorno a loro. Tuttavia, credo che, rispetto ad altri Paesi di cui ho avuto esperienza – come Francia, Belgio e soprattutto Stati Uniti – in Italia l’opinione pubblica faccia un po’ più fatica a mantenere un’effettiva connessione internazionale. La sensibilità presente in Italia nei confronti degli esteri è talvolta, per usare un termine provocatorio, più “provinciale” rispetto a quella di altre nazioni. Ma il nostro sguardo si sta inevitabilmente ampliando: sia per i conflitti internazionali degli ultimi anni, sia per il fatto che viviamo in un mondo dove tutto è strettamente interconnesso e causalmente collegato. All’interno di un contesto simile, anche eventi e conflitti molto lontani geograficamente – si pensi all’Ucraina o ad Israele – hanno riverberi consistenti nella nostra vita quotidiana e nelle traiettorie imprenditoriali del nostro Paese. Gli accadimenti internazionali diventano quindi parte fondante del dibattito pubblico italiano, tant’è che non esiste luogo dove la loro influenza non venga esercitata. Ultimamente più che mai, sto ricevendo richieste di formazione e seminari a livello aziendale : soprattutto da parte delle piccole e medie imprese che, occupandosi di esportazione all’estero, devono avere contezza di ciò che sta succedendo nel mondo per ponderare strategicamente le proprie scelte.
Per far sì che i giovani siano più interessati alla geopolitica, non è quindi necessario che facciano i giornalisti: se non sono loro che si interessano al contesto internazionale, è il contesto internazionale che si interesserà a loro.
Per quel continuo ricevere notizie, che contraddistingue oggi il mondo dell’informazione, io credo che i giovani siano in parte più facilitati, in parte più svantaggiati rispetto al passato. Se prima infatti erano fondamentali quelle figure intermediarie tra la notizia e i fruitori, che si occupavano anche di “maneggiare” con professionalità le informazioni che arrivano al lettore ultimo; adesso le news arrivano direttamente alle persone. Le figure intermediarie del giornalista o del reporter stanno così perdendo valore, ma con loro si perde anche la capacità di discernere in maniera critica le informazioni, tanto più quelle relative al contesto internazionale: talmente numerose che selezionarle non è una competenza che si può improvvisare. È necessario poi essere consci della parzialità delle fonti: da una parte i canali tradizionali sono sempre più volti alla polarizzazione e alla conflittualità ideologica; dall’altra i social media (Instagram, Tik Tok, Twitch, Youtube) offrono una settorializzazione che permette ad ogni “user” di scegliere – consciamente o meno – su cosa informarsi. Questo secondo tipo di canale può diventare megafono di una “controinformazione”, lasciando spazio – per esempio – a derive di complottismo o fake news.
La maggiore difficoltà per le nuove generazioni è quindi il fatto di trovarsi nel bel mezzo di una fase di trasformazione profonda: sia per quanto riguarda l’origine dell’informazione, sia la sua ricezione. La crisi dell’editoria classica ci conferma che gli strumenti per governare tale transizione non ci sono ancora; quindi, dovremmo ragionare su possibili linee guida che indichino alle nuove generazioni come informarsi, come fruire delle informazioni in maniera più attiva e meno passiva.
Inoltre, le categorie che si utilizzano per interpretare e comprendere la politica interna sono in gran parte molto diverse rispetto a quelle più complesse della politica internazionale: applicarle all’analisi di ciò che succede all’estero ne ostacola profondamente la comprensione. Tale generale disorientamento, dovuto all’incapacità della stampa nostrana di decifrare le informazioni, io credo abbia un ruolo significativo nell’aumentare la sfiducia delle nuove generazioni verso la politica internazionale.
Dalle chiacchiere da bar alle menti più celebri, ricorre l’opinione che in Italia i giovani siano disaffezionati alle idee e alle azioni politiche. È così anche secondo lei?
In base alla mia esperienza, una curiosità sana, cioè non affetta da pregiudizi, l’ho riscontrata soprattutto nella fascia delle scuole superiori, che forse non è ancora “filtrata” da alcune precise ideologie ed etichette che spesso, per i ragazzi più grandi, risultano di ostacolo per la comprensione delle dinamiche politiche, in particolare di quelle estere.
Il parere per cui non ci sarebbe interesse giovanile per la politica arriva, secondo me, per lo più dal giudizio – talvolta paternalistico – delle vecchie generazioni. Un giudizio che oltre a non essere molto rappresentativo della realtà, deriva da generazioni “corresponsabili”, perché i pochi giovani che ci sono in Italia spesso non sono interpellati sulle tematiche di cui sono gli unici portatori. . Oltre a ostinarci a parlare continuamente di giovani – quasi fosse una categoria aliena alla cittadinanza italiana – abbiamo poi la volontà di prendere in considerazione seriamente il loro sguardo sul mondo per interrogarci e modulare le nostre politiche?
Negli Stati Uniti, in cui mi sono formata, ad esempio, la cultura “dell’opportunità” è fondativa di ogni scelta nel mondo del lavoro. Avere giovani nel proprio staff è considerato un asset, una risorsa importante perché la loro energia e la loro elasticità mentale possono essere sfruttate al meglio e messe al servizio del successo di un team di qualsiasi tipo. Nel nostro Paese, invece, dove la meritocrazia non è purtroppo il parametro guida, la strada è molto più tortuosa. Osservando il mio ambito di competenza, cioè quello giornalistico, la grande classe dirigente risulta per lo più composta da vecchie generazioni che spesso fanno da “barriera” all’ingresso delle nuove. Tra i giovani non ci sarebbe più interesse politico? Piuttosto sembra non ci siano adeguati canali attraverso cui l’interesse dei giovani può esprimersi e produrre valore. Sfruttando i linguaggi e gli strumenti del mondo social, di cui i giovani sono esperti; avvalendosi dell’esperienza e delle conoscenze che i più qualificati possiedono in un sodalizio virtuoso; analizzando il funzionamento delle nuove piattaforme di informazione e divulgazione politica: facendo tutto ciò, potremmo consentire al pulsante – seppur silenzioso – interesse giovanile di emergere, fiorire e generare qualcosa di prezioso.
In Italia, purtroppo, essere giovani è motivo di diffidenza aprioristica e ciò è stato un ostacolo anche per me. Sembra quasi che l’istinto di conservazione di chi è anagraficamente più avanti spinga ad etichettare le giovani risorse come acerbe, immature, ingenue e a contrastare così la realizzazione e lo sviluppo di progetti nuovi e innovativi che le vecchie generazioni, non a caso, fanno fatica a comprendere o a intuirne il potenziale. Ma questo, per i ventenni e i trentenni di oggi, può diventare un fattore paradossalmente incoraggiante: a non aver paura di sbagliare, a sperimentare continuamente per poi ritornare sui nostri passi, a concedersi il lusso di tentare e ritentare per dirigersi in maniera ostinata verso i propri desideri e, soprattutto, a creare loro quei nuovi canali che oggi ancora mancano
Essere reporter significa anche mettere a rischio la propria sicurezza al servizio di una verità. Cosa l’ha spinta a scegliere questa professione?
Essere reporter, andare “sul campo”, mi permette di osservare da vicino i conflitti di potere in azione e così anche di avere un accesso “privilegiato” alle menti e ai cuori delle persone che vivono tali contesti. Questo processo di avvicinamento implica uno sforzo empatico verso “l’altro”, che mi costringe ad allontanarmi dal mio vissuto e dalle “lenti occidentali” con le quali inevitabilmente tendo a decifrare qualsiasi realtà. Mi ritrovo così immersa in alcune quotidianità – di persone e popoli – diverse dalla mia e la possibilità di assorbire la realtà “aumentata” che arriva con i punti di vista differenti dal mio rappresenta lo stimolo più grande nel mio lavoro. Quando nel 2023 ho raccontato la guerra in Medio Oriente, ho conosciuto sia la parte israeliana che quella palestinese e, dai racconti delle persone che ho intervistato, mi sono resa più lucidamente conto che un certo evento può essere spiegato, raccontato e tramandato secondo più verità storiche: si possono avere diverse percezioni di uno stesso fatto, a seconda che a parlare sia un generale israeliano, o un miliziano palestinese nel campo profughi di Jenin[1]. La pluralità delle sensibilità mi obbliga a non cristallizzarmi su posizioni nette ed assolute. La curiosità verso questi modi di ragionare diversi dal mio è sempre stata il motore che mi ha spinto a mettere in discussione il mio pensiero, in qualche modo a destrutturarlo, abbracciando nuove categorie di lettura della realtà.
Tuttavia, il lavoro sul campo cela anche aspetti negativi, dai quali è bene imparare a proteggersi e tutelarsi. Essere costantemente a contatto con gli orrori e il senso di emergenza della guerra, infatti, porta spesso ad uno stato di perenne allerta sia a livello emotivo che fisico, per esempio, con i sintomi del disturbo da stress post-traumatico (PTSD)[2]. Inoltre, non è semplice saper tenere emotivamente le giuste distanze da quel che si vede, o si sente raccontare. Per farlo a me aiuta ricordare lo scopo per cui mi trovo in un determinato luogo, ossia cercare di raccontare la realtà per com’è, senza necessariamente offrire una soluzione, o un parere a riguardo. Sapere come stanno le cose è un diritto importante di chi fruisce delle notizie e ciò è possibile solo attraverso un continuo processo di ascolto delle persone, dei loro vissuti e dei loro sentimenti più viscerali. Nel mio lavoro vedo e ascolto storie, cercando poi di riportare, in maniera oggettiva e più neutra possibile, uno spaccato di verità, virgolettando le parole di chi queste storie me le racconta. Trovarsi nel luogo dove sta accadendo un fatto storico ed esserne testimone diretta è, per me, l’appagamento più grande. È anche ciò che rende questo mestiere faticoso, oltre che tremendamente umano.