Carcere e diritti umani: siamo tutti migliori di Trump?

A cura della Redazione

Il 5 maggio 2025 Donald Trump ha annunciato la ricostruzione e riapertura del carcere di Alcatraz, in California. Alcatraz è stata una delle prigioni più famose al mondo, per la rigidità e la violenza quotidiana al suo interno. Trump ha specificato che il carcere ospiterà i «criminali più spietati e violenti d’America». Nessuno scrupolo di trattamento, in sostanza, verso coloro individuati come criminali. Anche grazie alla celebre performance di Clint Eastwood nel film “Fuga da Alcatraz”, il nome di questa prigione evoca immediatamente scenari di violenza illegittima e di violazione dei diritti umani. Ma la direttiva del Presidente Trump sembra non tenerne conto.

Seppur fortunatamente lontana dalle misure italiane in ambito penitenziario, questa notizia rappresenta un’occasione utile per riflettere sulla situazione nelle carceri del nostro Paese, la cui condizione rappresenta unanimemente uno dei problemi più significativi della nostra società. In estrema sintesi: i detenuti sono spesso costretti in una drammatica situazione di sovraffollamento, che mette a dura prova il loro benessere fisico e mentale, oltre che rappresentare, secondo l’ultimo Rapporto Antigone[1], un elemento decisivo nell’aumento dei tassi di recidiva. Il panorama carcerario italiano resta ancora uno dei peggiori di Europa per i tassi di suicidio, di analfabetizzazione e difficoltà nell’accesso ad attività riabilitative.

Nonostante esistano esempi virtuosi di istituti con politiche interne incoraggianti, a livello governativo la direzione è chiara: innalzamento delle pene, introduzione di nuovi reati e di misure di stampo fortemente repressivo. Questa settimana l’ennesimo segnale: la Corte dei conti ha richiamato il ministro della giustizia Carlo Nordio a causa dei gravi ritardi nell’attuazione del Piano Carceri[2]. Il programma, istituito nel 2010, mirava alla costruzione di nuovi istituti e la manutenzione straordinaria di quelli esistenti per migliorare le condizioni ambientali, igienico- sanitarie e di trattamento. La Lombardia tra le regioni italiane con la situazione più critica.

L’art. 27 della nostra Costituzione parla chiaro: l’esperienza detentiva ha un fine rieducativo e le pene «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità»[3]. Stiamo davvero rieducando? Perché le cose non stanno cambiando, nonostante le denunce, i ritardi e le sentenze? Oltre a questioni politiche e finanziarie, cosa ostacola nel profondo un cambiamento reale? Forse dovremmo scomodare una riflessione più introspettiva. Essere cioè, tutti e tutte, più consapevoli dei profondi meccanismi di deumanizzazione e depersonalizzazione: derive che spesso entrano in campo quando si ha a che fare con un gruppo sociale in condizioni di isolamento e, in questo caso, di reclusione.

Un gruppo di individui percepito come “diverso” dalla maggior parte della società ha infatti più possibilità di essere vittima di quel disimpegno morale che, secondo lo psicologo statunitense Albert Bandura (1996, 1999)[4], è in grado di attivare in noi una dinamica di disinnesco dalle sanzioni morali. In parole semplici: quando gli individui compiono azioni che violano gli standard sociali a cui siamo abituati (come potrebbe essere il compimento di un reato di varia misura), giudichiamo da quel momento “lecite” alcune condotte violente ed aggressive nei loro confronti. La persona in questione si ritrova fuori dal nostro “schema umano”, il che finisce col sostenere e legittimare le azioni che normalmente giudicheremmo ingiuste. La deumanizzazione, però, è un processo lento e insidioso, tanto che alcuni dei crimini più efferati e gravi della storia si sono consumati sotto gli occhi di tutti. Ricorrendo a piccole giustificazioni per azioni inizialmente considerate poco gravi, il confine etico si allontana e il nostro cervello si abitua così ad un’escalation di violenza. E quel che sembrava prima un punto inarrivabile, è poi passo dopo passo, considerato accettabile.

Da parte nostra, allora, vorremmo che il nome di Alcatraz continuasse ad essere confinato, senza eccezioni, alla memoria cinematografica.

 

FOTO: particolare di una cella di Alcatraz, © di Rebecca Conti.

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] L’associazione Antigone, fondata nel 1991, si occupa della tutela dei diritti umani nel sistema penale e penitenziario. Con questo scopo, monitora attraverso il suo Osservatorio le condizioni di detenzione nelle carceri italiane.
[2]https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2025/05/05/corte-dei-conti-gravi-ritardi-nel-piano-per-le-carceri_7f0b6242-fc94-41c5-930b-e9f5a6539a38.html
[3] https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-i/titolo-i/articolo-27
[4] Bandura, A. (1999). “Moral disengagement in the perpetration of inhumanities”. Personality and social psychology review3(3), 193-209.
Bandura, A. (2002). “Selective moral disengagement in the exercise of moral agency”. Journal of moral education31(2), 101-119.