Il lavoro dell’educatore non fa per tutti…
Mi dirigo verso la metropolitana con passo sicuro, mentre un brivido di agitazione mi sfiora, prima che la mia testa riesca a nasconderlo. Passo le fermate immersa nei pensieri, pronta ad affrontare il mio primo colloquio come educatrice in una cooperativa che sostiene giovani minori in messa alla prova.
Sono una psicologa neolaureata: ho tanta strada davanti, lunga e tortuosa, ma troppo entusiasmo per restare ferma ad aspettare. Così, in attesa di esercitare la professione per la quale ho studiato, ho deciso di avvicinarmi al mondo dell’educazione, in particolare a quello che riguarda situazioni di drammaticità esistenziali.
Arrivo al colloquio. Borsa in spalla, sorriso a 32 denti e mano tesa per presentarmi. L’ambiente è colorato, ma un po’ spoglio. Non c’è nessuno. Dopo qualche minuto, due educatori mi accolgono. Sfodero subito la mia dialettica, il mio entusiasmo, un pizzico di ironia… ma non funziona. Mi fanno accomodare e iniziano a presentarmi la realtà nella quale sento di potermi rendere utile: ragazzi di età compresa tra i 13 e i 20 anni – con diverse provenienze, culture e reati a carico – inviati dall’ATS con l’obbligo di frequentare la cooperativa per un sostegno a tutto tondo, sia scolastico che educativo.
Dopo dieci minuti di convenevoli, con un sorriso quasi provocatorio e, con la faccia di uno che sa di cosa sta parlando, il mio interlocutore mi chiede: «Lo sa che il lavoro dell’educatore non fa per tutti, vero? Qui non sta facendo un colloquio psicologico in un setting clinico protetto, qui i ragazzi cercano la sfida. Bisogna essere forti, concreti, accogliere le provocazioni senza però caderci. Per esempio, mi dica: se si trovasse da sola davanti a dieci dei nostri ragazzi e venisse derisa con un “Che cazzo vuoi da noi, ragazzina? Tu non sai niente”, lei come si sentirebbe? E cosa farebbe per prendere in mano la situazione?». Poche volte mi sono ritrovata senza parole come in questo frangente. La mia testa viaggiava alla ricerca della risposta giusta, qualcosa di brillante per fare colpo… ma niente. È uscito solo un banale e svilente: “Mi sentirei… piccola”. Mi sono resa conto cioè di non avere le competenze per gestire simili situazioni.
Così, finito il colloquio, hanno iniziato a ronzarmi in testa domande a cascata. Dove sono finite le mie certezze da psicologa fresca di magistrale? Perché mi sono paralizzata davanti a una situazione probabilmente quotidiana per chi fa questo lavoro? Forse ho sottovalutato l’esperienza, l’esposizione al rischio, alle sfide, alle provocazioni che gli educatori affrontano ogni giorno. Perché questa professione non viene adeguatamente riconosciuta a livello sociale, giuridico e salariale? Essere solidi ma empatici, autorevoli senza risultare opprimenti, coinvolgersi senza lasciarsi travolgere: perché tale complesso equilibrio tende ad essere professionalmente minimizzato?
Sulla via di casa, rifletto sul perché alle educatrici e agli educatori venga richiesto così tanto e riconosciuto così poco; sul motivo per cui venga loro negato il giusto riconoscimento, nonostante si espongano quotidianamente a rischi emotivi e talvolta fisici; sul perché nell’immaginario comune il loro ruolo venga considerato banale, o addirittura scontato: come se bastassero il buon cuore e la compassione, come se professionalità e formazione adeguate non fossero indispensabili.
Ma perché non se ne parla di più? Perché chi lavora con la fragilità è abbandonato in una condizione altrettanto fragile e incerta? Perché diamo per scontata la dedizione di chi si prende educativamente cura degli altri?
Mi ritrovo interdetta davanti a queste domande, come se avessi appena sbattuto contro un muro d’ombra di cui, prima d’ora, non mi ero mai accorta.