Estetica e tecnologia nel linguaggio educativo
Di LUCIA TRICARICO
(Pedagogista e docente di Scuola Primaria)
ABSTRACT
Il presente lavoro si colloca all’interno di una riflessione sull’interazione tra l’estetica e la tecnologia nel linguaggio educativo, che può offrire nuovi percorsi di apprendimento e di sviluppo umano. L’educazione estetica, che mira a sviluppare la creatività e la percezione del bello, può trovare nella tecnologia nuovi strumenti per la fruizione, la produzione e l’elaborazione di immagini e narrazioni.
La connessione dell’estetica con l’esperienza risulta molto attuale nei processi educativi, in particolar modo nella scuola, dove la modalità di “imparare – sentendo e facendo” sembra diventare una strada privilegiata, con la riscoperta della didattica attiva e delle sue correlate opportunità.
La fertilità del dialogo possibile dell’estetica e della filosofia dell’educazione con la tecnologia, risiede proprio nell’impostazione aperta e in continua evoluzione che caratterizza le discipline in gioco, da cui nasce l’esigenza di rapportarsi all’altro e all’ambiente circostante.
Questo connubio apre a nuove forme di espressione e di apprendimento, soprattutto in contesti educativi che promuovono la curiosità, la sperimentazione e lo sviluppo della creatività. L’uso consapevole di tecnologie digitali può sviluppare la capacità di problem-solving e del pensiero critico attraverso la manipolazione di immagini, suoni, video e la realizzazione di progetti originali.
This work is part of a reflection on the interaction between aesthetics and technology in educational language, which can offer new paths of learning and human development. Aesthetic education, which aims to develop creativity and the perception of beauty, can find in technology new tools for the enjoyment, production and processing of images and narratives.
The connection between aesthetics and experience is very current in educational processes, especially in school, where the method of “learning – by feeling and doing” seems to become a privileged path, with the rediscovery of active teaching and its related opportunities.
The fertility of the possible dialogue of aesthetics and the philosophy of education with technology lies precisely in the open and constantly evolving approach that characterizes the disciplines in play, from which the need to relate to others and to the surrounding environment starts.
This combination opens up to new forms of expression and learning, especially in educational contexts that promote curiosity, experimentation and the development of creativity. The conscious use of digital technologies can develop problem-solving and critical thinking skills through the manipulation of images, sounds, videos and the creation of original projects.
Etica e tecnologia nel linguaggio educativo
L’utilizzo dei termini “civiltà dell’immagine” è ormai usuale in ogni ambito: con la televisione è iniziata l’era del guardare e del collegare immagini.
Nei tempi odierni, se approntiamo un’analisi dal punto di vista educativo, il perfezionamento dei mezzi tecnologici ha prodotto, di contro, falsificazioni più o meno coscienti: la causa è da ricercarsi nella progressiva passività dello spettatore, specie se minorenne, che non si preoccupa più dello strumento e della propria relazione con esso.
Il primo punto da considerare, fin dall’infanzia, riguarda la cosiddetta riproduzione della realtà, per evitare un ignaro abbandono al flusso trasmittente, infatti quando siamo di fronte ad una semplice “diretta” vi è sempre una regia che sceglie le immagini e mette in scena quella realtà che vuole mandare in onda e farci percepire.
La scuola deve condurre l’alunno a diventare curioso di fronte alle immagini, che gli vengono proposte, per diventare uno spettatore attivo e critico. Nel registrare e riprodurre immagini attraverso il cellulare, vi è l’illusione della libertà di azione, perché non si è consapevoli della dipendenza “patologica” dal mezzo tecnico. L’abitudine diseducativa di ricercare, a tutti i costi, l’immagine, rischia di scatenare una “fissazione filmica, perché si arriva, con superficialità, a registrare ogni tipo di immagine, con la voglia di inserire questo materiale in rete, di condividerlo anche a rischio di essere identificati, alla fine, come responsabili di reati, ad esempio per aver leso il diritto alla privacy o alla tutela all’immagine, ecc.
La tecnologia dell’immagine può produrre, in soggetti immaturi sul piano razionale e sentimentale, come i preadolescenti e gli adolescenti, megalomanie e/o pericolose dipendenze, come si evince da svariati fatti di cronaca.
Educare lo sguardo, sin dall’infanzia, significa imparare ad utilizzare, responsabilmente, i mezzi tecnologici, aprendosi ad un rinascimento estetico, nel rispetto delle persone e delle cose, allo scopo di promuovere la bellezza secondo una prospettiva del gusto, che stimoli il soggetto che sta crescendo, lo renda libero nelle scelte e lo disponga a confrontarsi e a discutere con gli altri.
Per approfondire tali concetti riprendiamo le concezioni di due filosofi: Platone, con la sua argomentazione sull’idea della bellezza e Kant, con la sua duplice visione di estetica (dottrina della sensibilità e indagine critica sul sentimento).
L’idea di bellezza, del pensiero platonico, attua una straordinaria funzione educativa, perché è posta come punto di partenza della conoscenza stessa, forza generatrice che muove lo spirito verso l’ascesa. Il ruolo della bellezza nel pensiero è in stretta connessione con la teoria della conoscenza come reminiscenza, che risale alla metempsicosi (trasmigrazione dell’anima). L’anima non è di questo mondo, ma appartiene al mondo ideale (Iperuranio): quando si incarna in un corpo non ricorda più nulla dell’al di là da cui proviene; essa è decaduta perdendo le ali, l’uomo vive così nella mera dimensione sensibile che, tuttavia, attraverso il senso della vista trova la strada per risalire al mondo delle idee, proprio grazie alla mediazione della bellezza, cui toccò “in sorte di essere la più evidente e la più amabile” (Platone, in Velardi, 2006).
La bellezza assume una potenza generatrice perché essa non si limita alla prospettiva corporale del bello, ma guida l’anima verso un’indagine sempre più profonda della sua natura. Insomma, gli esseri umani non possono fare a meno della bellezza.
Abbagnano nel suo Dizionario di filosofia (1971, p. 350) ci ricorda che la “scienza (filosofica) dell’arte e del bello” ha origini settecentesche con l’opera di Baumgarten Aesthetica. In precedenza arte e bello non venivano posti in sintonia, difatti la dottrina dell’arte veniva chiamata poetica (arte che produce immagini). Il bello, invece, non essendo producibile non apparteneva all’arte, ma al mondo dei valori.
Nel Settecento l’arte e la bellezza diventano due nozioni conciliabili grazie al concetto di gusto, affrontato da Kant. Nella Critica della ragion pura, l’Estetica trascendentale è la parte dell’opera che analizza le forme a priori della sensibilità (spazio e tempo), quindi il termine “estetica” è impiegato nel senso etimologico greco cioè di dottrina della sensibilità. Mentre, ai fini del nostro discorso, appare più interessante l’accezione che compare nella Critica del giudizio (1790), il cui scopo è di indagare sul sentimento, in quanto facoltà autonoma, non riconducibile né alla conoscenza scientifica né all’etica. Il nostro bisogno di armonia rende possibile la facoltà di cogliere, in forma immediata, la sintonia della natura con il nostro spirito. Kant afferma che il giudizio di gusto ha un carattere disinteressato e universale: il bello non risponde ai criteri di utilità o di necessità, ma essendo percepito su basi intuitive e non razionali, deve essere condivisibile e, perciò, universalizzabile (Kant, 1790). Il bello artistico non dipende dal giudizio di gusto ma dalla capacità di produzione che attiene al genio: “Il genio è talento (dono naturale) che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice dell’artista, appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere così: il genio è la disposizione innata dell’animo (ingenium) per mezzo della quale la natura dà la regola all’arte”. L’importante deduzione che possiamo trarre qui, rispetto alla tradizione platonica, è che l’arte non è un’imitazione della natura (mimesi); la natura offre i suoi talenti agli uomini, ma questi giudicano esteticamente attraverso i loro parametri trascendentali (soggettivi nel senso che appartengono ad ogni soggetto umano) e producono bellezza trasfigurando e non copiando gli oggetti reali.
Nel descrivere il dibattito del 1974 sull’introduzione della musica e delle applicazioni tecniche nella scuola media, il professore Santoni Rugiu affermava la necessità di correlare l’espressione verbale con quella grafica e quella musicale, nonché con un lavoro manuale creativo. In ogni caso rimaneva aperta la dicotomia tra le due culture: scienze della natura e cultura artistico-letteraria, con l’errore di considerare le scienze naturali come non-umane e, quindi, meno formative. Non mancava nemmeno una gerarchizzazione idealistica delle arti, dove primeggiava la poesia (Santoni Rugiu, 1975, pp. 27-30).
In realtà sarebbe stato più giusto orientarsi sui punti fermi dei due grandi filosofi indicati, per non far perdere l’ottima idea di un’arte concepita come educatrice di emozioni, un’educazione che, in questo periodo, è al centro dell’attenzione pubblica, visti i recenti e violenti fatti di cronaca, che vedono l’età dei protagonisti abbassarsi sempre di più.
Santoni Rugiun si domandava se potesse essere insegnato il processo artistico e se la scuola potesse attribuire un ruolo ad un sapere che non aveva le connotazioni di una disciplina (Ivi, pp. 57-58). La scuola con le sue rigidità burocratiche, organizzative e gestionali, fatica anche ora nel trovare uno statuto adeguato all’educazione estetica, proprio nel momento in cui questa sarebbe indispensabile, per sottrarsi all’omologazione dell’era della globalizzazione, che vorrebbe collocare anche le forme di espressione artistica negli scaffali del marketing culturale.
Che l’immagine possa risultare fuorviante e diseducativa, lo avvertiamo soprattutto attraverso alcuni spot pubblicitari, canali social e/o quei generi televisivi, che non lasciano spazio alla diversità nell’interpretazione e nella riflessione, nonché al dubbio e alla confutazione, come invece avviene ad esempio nella pittura e in altre modalità espressive.
Sul versante di una sana educazione all’immagine, nonostante il lavoro svolto da discipline legate all’educazione alla corretta fruizione dei media e dei social, è importante guidare i bambini e gli adolescenti alla lettura critica, finalizzata a svelare la costruzione mercantile di alcuni prodotti televisivi e non.
Nell’intero sistema della “mercificazione” generale, le menti flessibili dei soggetti più deboli dovrebbero, invece, acquisire in modo critico i mezzi per collocare quelle immagini, che facilmente generano in loro dipendenze, se fruite passivamente: vi sono delle tecnologie visive da considerarsi, allo stato attuale, anti-educative, strutture antagoniste organizzate per condizionare negativamente l’aspirazione alla libertà dall’ignoranza.
Cellulari, tablet, smartphone appartengono ad un’oggettistica che pretende, attraverso un semplice post, di produrre pensiero e pochi si interrogano sul fatto che non tutto ciò che si vede possa essere considerato forma di sapere o informazione.
Il fatto che non possiamo più meravigliarci di tutto ciò, non ci impedisce di focalizzare lo sguardo sulla svolta decisiva nella storia del mondo occidentale e della sua cultura, che ha trasformato l’arte in industria culturale ed ha finito per mercificare i suoi prodotti, scatenando le avanguardie del primo Novecento che denunciarono l’insopportabile livello di massificazione, in cui era caduta la società occidentale.
La svolta consapevole avviene all’interno della Scuola di Francoforte, dove la dimensione dell’industria culturale viene colta nella sua funzionalità al “sistema”. Anche se siamo sul finire degli anni Quaranta, la questione diventa di stringente attualità, perché si inizia a riflettere sul peso dei mass media, come tecnologia persuasiva che accompagna il tempo libero e il divertimento, che sono comunque fattori che si relazionano con l’espressione artistica.
Allora i media diventano produttori di valori e di modelli comportamentali, creatori di linguaggi e di bisogni, con lo scopo preciso di omologare e di rendere passivi gli utenti, ai quali non si chiede di riflettere, né di emanciparsi e né di manifestare creatività. Eppure, negli anni Trenta, Walter Benjamin aveva visto nella riproducibilità dell’arte anche un’evoluzione positiva in senso politico. Nell’amplificazione del suo “valore espositivo” si avviava una fase di democratizzazione e di fruibilità della bellezza, la messa in discussione della sua autenticità corrisponde, come ricorda Benjamin nel 1936, ad una perdita di quell’esclusività, che da sempre ha accompagnato il rituale: “Il valore unico dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il suo primo e originario valore d’uso” (ed. 1966, p. 25). In seguito Adorno ha colto la situazione dell’arte nell’età del capitalismo avanzato, ritenendo ingenuo l’amico Benjamin. L’arte si presenta per certi aspetti come complice dell’industria culturale, accettando servilmente di mercificare le sue produzioni per soggetti umani ridotti al rango di consumatori onnivori inconsapevoli.
Così la fruizione estetica viene banalizzata, svilita da una gestione “manageriale” che si preoccupa solo di creare consenso al potere dominante. Vi è però, in particolare nella musica contemporanea, l’espressione di una dissonanza che svolge una graffiante azione di critica sociale, poiché coglie il malessere comune nella forma della “disarmonia del mondo” e trasmette il lancinante dolore di una soggettività, che porta su di sé il peso dell’assenza di verità e si proietta verso un futuro utopico nella sola speranza di conquistare la libertà (Adorno, 1970-1986, Vol. 10.1).
Nel famoso saggio degli anni Cinquanta “Eros e civiltà” (1955), Marcuse vede, tra gli aspetti della liberazione dell’eros, la gioia, il gioco e il lavoro creativo sottratto al controllo repressivo “addizionale” della società capitalistica matura. Proprio nei suoi eccessi produttivistici e di instancabile applicazione tecnologica, il “sistema” prepara grazie all’automazione, per paradosso, la progressiva liberazione dei lavoratori i quali, pertanto, si proiettano verso “il libero gioco delle facoltà umane”. Sul piano simbolico tutto questo comporta il superamento di Prometeo, eroe che sfida gli dei per sottrarre loro il fuoco della scienza-tecnica-produzione, da parte di Narciso e Orfeo. Alla corsa per il progresso, tendenzialmente distruttiva e disumanizzante, “si sostituiscono la contemplazione della bellezza e la voce che non comanda, ma canta”, simboli che non vanno separati perché nella loro unione implicano il conseguimento della pace, la liberazione del tempo, l’unione con la natura e con il sacro: “Giunta al grado in cui la lotta per l’esistenza diventa cooperazione per il libero sviluppo e compimento dei bisogni individuali, la ragione repressiva cede il passo ad una nuova razionalità della soddisfazione, nella quale ragione e felicità convergono” (Marcuse, 1955, p. 237).
L’esperienza estetica si manifesta nell’interazione con le tecnologie e diventa il modo per esprimere e condividere significati personali. A sua volta, il processo di espressione personale diventa il modo per far propria la comprensione dei fenomeni e delle tecnologie attraverso la produzione di un proprio progetto che aiuta a “decomporre” le cose e guardarci dentro, a creare delle “conversazioni con il materiale” e a pensare e agire in modo creativo (Resnick & Rosenbaum, 2013).
Quindi l’esperienza estetica fa leva su una percezione corporea (sensoriale, motoria, gestuale dove anche la parola è gesto), nella sua accezione di aesthesis sensoriale di ciò che è percepito grazie alla totalità del nostro corpo in un continuum tra sensazione e pensiero; essa diventa uno strumento pedagogico fondamentale poiché insiste sull’importanza del significato personale, comunicabile e vivo, costruito in modo attivo dal soggetto; ma fa anche capire che ognuno di noi ha la capacità di apprendere e comprendere anche le cose più complesse (Bevan et al., 2020).
La consapevolezza della necessità di rinnovare tecnologicamente la scuola non è una cosa nuova: purtroppo si combatte ancora con i limiti della lezione frontale, ma allo stesso tempo si riflette sulle modalità tecnologiche innovative che possono creare esperienze di apprendimento più coinvolgenti o su quei metodi che aiutano a rafforzare il ruolo dell’insegnante come facilitatore e regista dell’apprendimento (Nuove Indicazioni 2025).
Nei tempi attuali tale necessità è forte perché il mondo in cui viviamo, lavoriamo, agiamo richiede cittadini attivi, consapevoli, pronti a creare soluzioni innovative ai problemi nuovi ovvero richiede ai cittadini del XXI° secolo, che si stanno per affacciare alla nuova era dell’AI, il possesso delle giuste conoscenze e competenze digitali.
Concludendo l’educazione estetica considera come inseparabili l’esperienza cognitiva e quella affettiva; integra la costruzione di sapere con l’apprezzamento della bellezza e della forza delle idee; attiva un processo trasformativo attraverso cui veniamo a comprendere meglio le cose e noi stessi. Vista in questo modo, l’esperienza estetica rappresenta essa stessa un approccio pedagogico anche ecologico, che riconosce la complessità e la ricchezza dell’apprendimento, così le tecnologie innovative devono essere utilizzate in modo consapevole e critico, per comprendere meglio anche il linguaggio e il mondo dell’estetica.
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