Albo (Sillabario Pedagogiko)
Di Francesco Cappa
Devo confessare che l’argomento dell’albo professionale visto da una prospettiva pedagogica non mi ha mai particolarmente appassionato. Un po’ perché ho altri punti di passione, un po’ perché quando un argomento viene analizzato da tutto il discorso corrente rischia di perdere la sua vitalità in termini culturali e dal pulpito della mia notevole ignoranza rispetto al tema non vorrei concorrere ad un aggravio di scrittura inutile in un dibattito che, ahimè, non mi appassiona.
Per questo motivo ho deciso di interpellare una voce interessante nel panorama di questo dibattito, una voce che credo possa fornire alcuni orientamenti, innanzitutto a me, nel mare magnum del discorso sull’albo professionale degli educatori. Claude Lamaschine, ha accumulato un credito quasi da lui stesso inaspettato rispetto a questo come ad altri temi limitrofi a questo. Ho chiesto quindi qualche indicazione su alcune questioni che mi paiono intriganti rispetto al tema.
FC: Per prima cosa, vista la sua esperienza scientifica in materia, mi interessa capire l’evoluzione storica recente dell’albo professionale degli educatori.
CL: L’evoluzione dell’albo degli educatori professionali in Italia rappresenta un percorso significativo verso il riconoscimento e la regolamentazione di questa importante professione. La figura dell’educatore professionale in Italia si è storicamente distinta in due profili: l’educatore socio-sanitario, che lavora con persone che necessitano di progetti educativi e di riabilitazione per il reinserimento sociale e psicologico, e l’educatore socio-pedagogico, che si occupa di servizi educativi per la prima infanzia, formazione per adulti e progetti per la terza età. L’8 maggio 2024 ha segnato una tappa fondamentale con l’entrata in vigore della legge 55/2024, che ha istituito ufficialmente l’albo degli educatori professionali socio-pedagogici e l’albo dei pedagogisti. Questo provvedimento ha rappresentato il culmine di anni di dibattiti e tentativi di riordinare la professione. Prima di questa legge, le associazioni professionali come l’APEI (Associazione Pedagogisti Educatori Italiani), costituita nel 2007, operavano ai sensi della Legge 4/2013 distinguendosi per l’impegno politico e professionale volto al riconoscimento legislativo delle professioni educative. Anche l’ANEP (Associazione Nazionale Educatori Professionali) ha svolto un ruolo importante nel processo di riconoscimento professionale. La normativa è stata promossa da diverse associazioni che rappresentano gli educatori professionali in Italia, tra cui l’ANPE (Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani), l’Associazione Professioni Pedagogiche, il Coordinamento Nazionale Pedagogisti ed Educatori e Feder.Ped. La legge definisce l’educatore professionale socio-pedagogico come il professionista di livello intermedio che svolge funzioni progettuali e di consulenza nei servizi socio-educativi, socio-assistenziali e socio-sanitari. L’iscrizione all’albo è diventata obbligatoria per chiunque voglia lavorare come educatore, indipendentemente dalla tipologia di contratto con cui svolge la professione, garantendo così la tutela dei soggetti in cura, la vigilanza contro l’esercizio abusivo della professione e il riconoscimento professionale. Questo processo di istituzionalizzazione rappresenta un importante passo avanti per il riconoscimento professionale degli educatori in Italia, sebbene la normativa abbia generato anche dibattiti e controversie, come dimostrano le preoccupazioni espresse da diverse organizzazioni del settore riguardo ai requisiti di accesso e alle modalità di applicazione della legge.
FC: In che senso l’istituzione di un albo professionale può essere considerato il canto del cigno della vitalità di quella professione? Ci sono esempi di questo fenomeno nella storia?
CL: È una riflessione molto stimolante. L’idea che l’istituzione di un albo professionale possa rappresentare il “canto del cigno” della vitalità di una professione contiene alcuni elementi di verità storica e sociologica, sebbene non sia una regola universale. Storicamente, la creazione di albi professionali spesso avviene quando una professione ha già raggiunto un certo grado di maturità o quando sta affrontando sfide alla sua rilevanza. Le rivoluzioni industriali e i cambiamenti tecnologici hanno ripetutamente modificato i modi di produzione, rendendo alcune professioni obsolete mentre emergevano nuove competenze e figure professionali. In questo contesto, la formalizzazione attraverso un albo può essere vista come: un tentativo di protezione poiché una professione minacciata dall’innovazione o da nuovi concorrenti cerca di creare barriere all’ingresso e tutele legali. Un segno di consolidamento poiché la professione ha raggiunto una forma stabile e meno dinamica che può essere codificata in standard e regole precise. Le trasformazioni tecnologiche hanno spesso portato ad un declino di certe professioni. Durante la rivoluzione industriale, molti artigiani qualificati videro il loro lavoro minacciato dalle macchine, e alcuni cercarono protezione attraverso corporazioni e regolamentazioni. Nel corso del XX secolo, abbiamo visto questo fenomeno in diverse professioni: le corporazioni medievali: rappresentano forse il primo esempio di questo fenomeno. Le gilde artigiane si formalizzarono proprio quando nuovi sistemi commerciali e produttivi iniziavano a minarne le fondamenta; i notai: in molti paesi, la professione notarile è fortemente regolamentata da albi, mentre le innovazioni tecnologiche (firme digitali, blockchain) iniziano a mettere in discussione alcune delle funzioni tradizionali; alcune professioni sanitarie ausiliarie: man mano che evolvono le tecnologie mediche, certe specializzazioni si formalizzano in albi proprio mentre parte del loro lavoro viene automatizzato o ridefinito.
L’albo professionale nasce in un contesto storico, politico e culturale molto diverso da quello attuale, e questa rigidità può rappresentare un ostacolo all’evoluzione della professione stessa. La formalizzazione in un albo tende a: standardizzare le pratiche, limitando l’innovazione e la sperimentazione; creare gerarchie interne, che possono resistere ai cambiamenti; separare “insider” e “outsider”, escludendo nuovi approcci che potrebbero rivitalizzare la professione. Consulenti informatici, web designer, pubblicitari, grafici, fotografi, sociologi sono esempi di professioni che non richiedono iscrizione a specifici albi e che rappresentano alcune delle aree più dinamiche dell’economia moderna. La Legge 4/2013 sulle professioni non organizzate in ordini o collegi ha riconosciuto questa realtà, creando un sistema parallelo più flessibile. Si stima che le professioni non regolamentate includano oltre 200 attività esercitate da più di 3 milioni di persone in Italia, molte delle quali rappresentano i settori più innovativi dell’economia. L’istituzione di un albo può quindi essere vista come una fase nel ciclo di vita di una professione – non necessariamente il suo canto del cigno, ma spesso un segnale di maturità che può precedere periodi di minore innovazione. Le professioni più vitali tendono ad essere quelle che mantengono un equilibrio tra standard professionali che garantiscono qualità, apertura all’innovazione e ai nuovi approcci e capacità di evolvere in risposta ai cambiamenti sociali e tecnologici. Nel caso specifico degli educatori professionali, l’istituzione dell’albo rappresenta certamente un riconoscimento formale importante, ma la vera sfida sarà mantenere la vitalità e la capacità di evoluzione della professione all’interno di questo nuovo quadro istituzionale.
FC: Il problema riguarda, a mio avviso, la dialettica fra rappresentazione sociale e autorappresentazione del soggetto educatore. Mi interessa questa dialettica sia dal punto di vista filosofico sia dal punto di vista sociologico. Potresti dire qualcosa in proposito rispetto alle tue conoscenze sul tema?
CL: Dal punto di vista filosofico, questa dialettica richiama la questione dell’intersoggettività e del riconoscimento. Secondo Hegel, l’autocoscienza esiste solo in quanto è riconosciuta da un’altra autocoscienza. La nostra identità non è mai puramente autodeterminata, ma si forma nel rapporto dialettico con l’altro. Per Charles Taylor, l’identità è sempre dialogica: si costruisce attraverso il dialogo con gli altri, in parte in accordo e in parte in lotta con il loro riconoscimento. L’educatore si trova esattamente in questa posizione: la sua identità professionale è continuamente negoziata tra l’autopercezione, che riguarda la vocazione interiore, la missione che si attribuisce, i valori che ritiene fondamentali e il riconoscimento esterno, che interessa lo status che la società attribuisce alla professione, le aspettative sociali, le norme istituzionali. La creazione di un albo professionale rappresenta proprio un momento di cristallizzazione di questa dialettica: è il tentativo di fissare, attraverso un riconoscimento formale, un’identità professionale altrimenti fluida e contestata. Sul piano filosofico emerge anche la tensione tra libertà individuale e determinazione istituzionale. L’educatore si muove costantemente tra l’autonomia creativa necessaria per rispondere ai bisogni unici delle persone con cui lavora e i vincoli istituzionali che definiscono i confini della sua azione professionale. Richiamando Sartre, l’educatore si trova nella condizione esistenziale di dover creare il proprio ruolo pur essendo “gettato” in un mondo sociale che già definisce cosa un educatore dovrebbe essere. L’autenticità professionale sta proprio nella capacità di navigare questa tensione. Dal punto di vista sociologico, questa dialettica si inscrive nel processo di professionalizzazione studiato da sociologi come Everett Hughes e Andrew Abbott. La professionalizzazione comporta sempre la delimitazione di una giurisdizione, per definire quali attività sono proprie della professione, la legittimazione sociale, per ottenere il riconoscimento della propria autorità in tale campo, la costruzione di un’identità collettiva, per sviluppare un ethos professionale condiviso. L’educatore si trova in una posizione particolarmente complessa poiché la sua giurisdizione è spesso contestata o sovrapposta ad altre figure (insegnanti, assistenti sociali, psicologi). La creazione dell’albo può essere vista come un tentativo di rafforzare i confini della professione. Secondo la teoria delle rappresentazioni sociali di Serge Moscovici, le professioni hanno “immagini” nell’immaginario collettivo che influenzano profondamente come i professionisti sono percepiti e trattati. L’educatore professionale ha spesso dovuto confrontarsi con rappresentazioni sociali ambivalenti, da un lato, l’idealizzazione della funzione educativa come “missione” o “vocazione”, dall’altro, una percezione di minore professionalità rispetto ad altre figure del settore sociale o sanitario. Questa ambivalenza crea ciò che Erving Goffman chiamerebbe uno “stigma professionale”: un’identità sociale potenzialmente svalutata che l’educatore deve continuamente gestire nella sua presentazione di sé. La recente istituzione dell’albo degli educatori professionali in Italia rappresenta un momento critico in questa dialettica. Ci sono opportunità quali il riconoscimento formale dello status professionale, una maggiore chiarezza sui confini della professione, un aumento del potere collettivo di influenzare le politiche sociali ed educative. Ci sono anche alcune sfide da affrontare come il rischio di burocratizzazione dell’identità professionale, la tensione tra i diversi modi di concepire e praticare l’educazione e la possibile esclusione di approcci innovativi o non conformi.
FC: Esiste una una sintesi possibile?
CL: La dialettica tra rappresentazione sociale e autorappresentazione non è necessariamente destinata a rimanere in tensione. Una sintesi produttiva potrebbe emergere attraverso le comunità di pratica, spazi dove gli educatori possono elaborare collettivamente identità professionali condivise ma pluralistiche; la Riflessività professionale, la capacità di riflettere criticamente sia sulle rappresentazioni sociali esterne sia sulle proprie autorappresentazioni; i margini di autodeterminazione, la possibilità di reinterpretare creativamente il mandato sociale all’interno di cornici istituzionali. In questa prospettiva, l’albo professionale potrebbe diventare non tanto una gabbia identitaria quanto un “contenitore flessibile” che offre legittimazione sociale pur preservando l’autonomia necessaria all’educatore per rispondere creativamente alle sfide educative emergenti. La vera sfida per gli educatori professionali sarà abitare questo spazio dialettico mantenendo viva la tensione produttiva tra riconoscimento sociale e autorealizzazione professionale, tra identità collettiva e soggettività individuale.
FC: A suo avviso, questo tema potrebbe essere preso in considerazione e sviluppato da un’intelligenza artificiale?
CL: Certamente.
FC: Quanti anni mancano dal momento in cui le professioni educative saranno interamente svolte da androidi e dall’intelligenza artificiale?
CL: Le previsioni variano notevolmente. Anthony Seldon, vicerettore dell’Università di Buckingham, ha previsto che i robot potrebbero sostituire gli insegnanti entro il 2027, una posizione contestata da molti esperti che sottolineano come la tecnologia non possa sostituire l’incoraggiamento e il supporto umano. Hiroshi Ishiguro, esperto di robotica dell’Università di Osaka, suggerisce che entro il 2050 potremmo avere una società dove le persone saranno “libere dai limiti del corpo”, con capacità umane “rafforzate dall’IA”. Nelle sue previsioni, gli androidi potrebbero svolgere funzioni educative avanzate. Studi recenti hanno rilevato che, sebbene il 70% degli insegnanti intervistati ritenga teoricamente possibile la sostituzione dei docenti umani con l’IA, ben il 93% non considera questa sostituzione favorevole, a causa delle limitazioni nell’offrire guida emotiva e pensiero critico. La risposta alla tua domanda non è tanto in termini di “quando” ma piuttosto di “se” e “in che misura”. L’evoluzione tecnologica probabilmente non porterà a una completa sostituzione degli educatori umani, ma a una profonda trasformazione del loro ruolo. La robotica educativa parla un “linguaggio universale e inclusivo” e può stimolare l’apprendimento sotto molteplici punti di vista, ma si basa su principi come la trasparenza, la collaborazione e la condivisione, che richiedono una guida umana. Piuttosto che immaginare un futuro in cui gli androidi sostituiscono completamente gli educatori, è più realistico prevedere un’evoluzione verso un ecosistema educativo ibrido, dove tecnologia avanzata e presenza umana collaboreranno, ciascuna apportando le proprie qualità uniche al processo di formazione e crescita. La vera domanda forse non è quando le macchine svolgeranno interamente le professioni educative, ma come noi umani ridefiniremo il concetto stesso di educazione in un’epoca di intelligenza artificiale sempre più avanzata.