Trasformare il grido in verso (intervista alla poetessa Alessandra Carnaroli)
A cura di Elisa Malvoni
Poetessa, redattrice di Laboratori Poesia, membro di Officine Letterarie Poesia 33
La poesia contemporanea è di nuovo poesia sociale grazie ai testi di Alessandra Carnaroli, una poeta e un’educatrice di scuola dell’infanzia, che ad un tempo è la voce di molte donne del presente e del passato, di persone marginalizzate e di migranti. Non “invita” a porre attenzione al diverso e al dimenticato, ma ci mostra la carne cruda, il loro corpo diventato oggetto senza valore nelle mani della cultura patriarcale, della noncuranza, dei nazionalismi. Alessandra trasmette il dolore privato delle vittime in una produzione letteraria che supera la forma-libro, e si moltiplica attraverso i social media. Unica nota di lettura: non si cerchi consolazione o carezze nella sua poesia.
Come insegnante alla scuola dell’infanzia, secondo te da quando è possibile iniziare ad educare i bambini alla poesia? Cosa può trasmettere loro?
Sono convinta che la poesia sia una postura nei confronti del mondo, un modo di stare nelle cose, di vedere e ascoltare l’altr? e quanto l? gira attorno e l’attraversa, tipo fascio di luce e varie particelle. Mi piace dire che nella poesia si nasce e nella poesia si diventa: è il primo sguardo che si posa addosso al nostro strato di pelle sottilissima, è il corpo a corpo, la ninna nanna, il modo in cui ti hanno tenut? tra le braccia o lasciat? sul fondo di una culla. Sono le filastrocche sugli occhi e le gambe, i racconti, i piccoli oggetti che ti hanno mosso attorno come bandierine o sonagli (il fazzoletto di mia nonna ad esempio, così poetico quando lo teneva nascosto sul polso, sotto la maglia come un taglio). Ogni cosa diventa verso mentre vieni espost? come orfan? all’esistenza nella continua domanda di senso.
Sono un’insegnante della scuola dell’infanzia e cerco ogni giorno di dare contorno alle parole, dargli spessore nei nostri discorsi, nel canto, nelle letture delle storie o di altre poesie.
Nella cura dei gesti, nello sguardo attento sul mondo e nel reciproco ascolto.
I tuoi libri 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti del 2022 e il nuovo Non si tocca la frutta nei supermercati però i culi nelle metropolitane sono stati pubblicati nella collana bianca di Giulio Einaudi Editore, il che corrisponde ad una tua canonizzazione come poeta italiana. Secondo il tuo parere, da quale età possono essere proposti per la lettura nelle antologie scolastiche?
Ho fatto diversi laboratori nella scuola secondaria di primo grado e mi sono resa conto di quanto ogni giorno l? alunn? siano comunque mess? di fronte alla violenza, quella senza filtri dei social; alle false notizie; a narrazioni di parte intrise di stereotipi sessisti e machisti. Credo che le mie parole a quell’età non si inseriscano come trauma né come inesistente ideologia gender, ma possano essere sguardo diverso, piccolo squarcio sull’altr?, incontro con la fragilità umana, la sofferenza, il dolore, l’oppressione. Credo che possano sostenere un filo sottile tra sé e il mondo, una presa di coscienza di come i rapporti si sfaldino nella violenza quotidiana senza fare rumore, tipo carta nell’acqua, fino al momento in cui una donna un? bambin? urla, l’ultimo suono che esce dal corpo ormai liquefatto, l’ultimo segno che subito cicatrizza, che in fretta la società cancella senza lasciare traccia.
Come ti sei avvicinata alla poesia? L’hai fatta tua in modo viscerale, o attraverso lo studio?
Non ho una formazione precisa né puntuale, mi piace pensare alla poesia come a qualcosa che nasce dal quotidiano, che si radica in quell’infanzia vissuta in campagna tra piccole bestie e ferite sulle ginocchia. Lavorare nella scuola mi permette poi di avere un osservatorio privilegiato su quanto accade, sui cambiamenti sociali e culturali che avvengono: ogni giorno decine di storie si compiono e attraversano l? alunn?, ogni giorno si scambiano per mezzo di sguardi, di voci e di gesti.
Il mio primo approccio con la poesia è stato fisico, ombelicale nel senso di pancia, utero, liquido amniotico: una riflessione sulle mie braccia, le gambe e lo sguardo di chi mi ha cresciuto e toccato negli anni. Nelle prime poesie c’era molto della mia pelle che poi come serpente è mutata, è diventata pelle dell’altr?. Donne, migranti, bambin? che restano cellule, restano ossa e capelli ma non smettono di far parte della nostra esistenza attraverso la loro storia che si fa urlo e si fa verso.
Com’è cambiata la tua scrittura dal primo libro? Cosa l’ha fatta evolvere?
Credo che la differenza tra il primo libro, Taglio intimo (Fara, 2001) e Femminimondo (Polimata, 2011), oltre al tempo trascorso l’abbia fatta la nascita dell? mi? tre figli?: la maternità ha rappresentato il cambiamento, lo spostamento del punto di vista, la divisione e la moltiplicazione di sguardi sul mondo, la necessità urgente di mettersi in ascolto.
E ancora la molteplicità di emozioni contrastanti, le luci e le ombre che proietto col mio corpo sui loro corpi, il riflesso di me stessa nei loro occhi, a volte madre e a volte mostro. Mettersi dalla parte di quanto è piccolo, senza difese ed esposto. Dare parola al pianto, all’urlo. Trasformare il grido in verso, umanizzarlo.
Il tuo stile ironico, con metafore grottesche, alle volte terrificanti, credi che sia più una tua cifra, o l’unico registro che possa rappresentare la cronaca?
Credo che il mio stile possa essere una risposta ad entrambe le domande: aver vissuto fin da piccolissima accanto alla possibilità della morte, prima per una patologia medica e poi per osmosi, abitando in campagna mi abbia reso spettatrice attenta di un teatro crudele e vivissimo. Le piccoli morti quotidiane, le guerre di formiche sulle mosche, di gatti e di cani, di rane spazzolare sulle strade, i rituali nelle uccisioni degli animali da cortile, l’osservazione degli ultimi istanti di vita come fossero lezioni di economia domestica, gesti che dovevo apprendere per diventare donna: tutto questo mondo già vecchio, prossimo alla sua stessa morte, ha creato il confine sottile con la violenza, questo rimando continuo, inevitabile con la fine, il corpo che cede, soccombe per mano dell’altro che da secoli lo doma e lo teme.
E poi la cronaca che si inserisce come coltello nella piaga quotidiana, le narrazioni distorte della violenza, la vittimizzazione secondaria, il raptus di follia e la gelosia romanticizzata, il dramma dell? migranti come se morissero per inerzia o caso: la materia prima per confezionare piccole bombe a mano.
Ogni giorno scrivi nuovi testi poetici ispirati a notizie di cronaca, politica, società, e li proponi sui tuoi profili social. Come si ottiene questa costanza?
È la poetica del quotidiano, della necessità e del rito: è come fare un pane con quello che abbiamo, la dose quotidiana di violenza che non può essere buttata perché è la storia vera e affamata di donne uccise, di bambin? trucidat?. Arti e organi come ingredienti di un pasto che mangiamo tutt? senza battere ciglio, ma che almeno ci vada di traverso, si imponga come boccone amarissimo e corpo estraneo, che ci faccia spalancare gli occhi e ci lasci senza fiato. È un rito sì, un sacrificio, una denuncia e un richiamo a non essere parte del problema, ma una possibile soluzione.
L’impegno di poeta femminista ti ha attirato epiteti, tra cui “zecchetta femminista”. Cos’altro di spiacevole ti ha portato esporti attraverso la scrittura? E quali sono stati i momenti più felici?
I miei libri raccontano storie personali che nella condivisione diventano politiche: sono libri femministi e intersezionali che dicono l’oppressione delle minoranze, i corpi uccisi, abusati, colonizzati. È un continuo richiamo a decostruire se stess? e il proprio privilegio, un invito a non chiudere gli occhi davanti al sistema capitalista e patriarcale che occupa e usa i corpi marginalizzati per non perdere il potere accumulato nei secoli. “Zecchetta femminista” in tutto questo è una medaglia che mi appunto al petto. (Si consideri inoltre che in quanto donna non sono neppure zecca, ma un suo vezzeggiativo perché non mi manchino i necessari pizzi e fronzoli).
La tua produzione letteraria racconta la vita di chi è ai margini, o di chi è stato annichilito. Sembra che tu abbia messo da parte il tuo io. La tua poesia è sempre stata così distaccata dal tuo privato, o ne ha preso le distanze con gli anni?
Le storie che racconto sono sempre storie che in qualche modo risuonano con la mia esperienza di donna, madre, figlia, sorella, animale umano che abita questo mondo nel 2025.
Sono l’erede di donne che nei secoli hanno subito la violenza patriarcale sulla propria pelle e che me l’hanno passata con il sangue e con il latte. Se non sono io ora quella abusata e uccisa, lo sono stata nel corso dei secoli e dei geni tramandati, sono anche io vittima della storia che ci ha marginalizzate e oppresse. E quella stessa storia continua a raccontare mia figlia o mia sorella, la mia amica, o collega, o la ragazza che incrocio per strada con la busta della spesa e che domani partirà per un viaggio dentro a un trolley, però senza ancora saperlo.