Come educare alla relazione nell’era del conflitto? (Intervista a Khader Tamimi)
A cura di Rebecca Conti
Khader Tamimi è un pediatra e attivista palestinese, noto per il suo ruolo di presidente della Comunità Palestinese della Lombardia. Nato nel 1948, anno della creazione dello Stato di Israele, è stato dichiarato apolide e ha vissuto l’esperienza dell’esilio a seguito dell’occupazione israeliana del 1967. Arrivato in Italia negli anni 70, Tamimi è impegnato in iniziative culturali, sociali e politiche volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla causa palestinese. Nei suoi interventi pubblici ricorre sempre l’appello contro ogni forma di violenza, anche rivolto ai membri della propria comunità. Profondamente convinto che nessuna forma di antisemitismo possa essere tollerata, Khader Tamimi ha partecipato nel 2025 a diversi incontri di dialogo e riflessione su quanto sta accadendo a Gaza: il 9 maggio 2025 a Milano, in particolare, è stato relatore in No Other Land: una conferenza ispirata all’omonimo film che ha riunito numerosi esponenti delle comunità ebraiche e palestinesi in Italia.
Lei è arrivato in Italia più di 55 anni fa: cosa l’ha spinta a restare e come ha vissuto l’integrazione in questo Paese?
Innanzitutto, devo dire che non comprendo fino in fondo, e francamente non condivido, la parola “integrazione”, perché troppo spesso con questo termine si fa riferimento ad un adattamento forzato alla cultura vigente nel Paese ospitante, senza però un reale riconoscimento del patrimonio culturale e dei valori del paese di origine. È certamente importante comprendere a fondo il contesto in cui si vive e rispettarne le regole, ma senza rinunciare alla propria identità. Questo ci viene insegnato anche dalla storia di tanti italiani emigrati, soprattutto dal Sud, negli Stati Uniti: ancora oggi, tra le vie di New York, si può sentire parlare il siciliano. Detto questo, io in Italia ho deciso di rimanerci. È successo un po’ per caso, volevo terminare gli studi in medicina, specializzarmi in pediatria e tornare in Palestina per aiutare i bambini. Poi, una settimana prima, è arrivato l’amore: è nata mia figlia, e da lì la mia vita ha preso una strada diversa. Appena ho potuto permettermelo, il mio obiettivo è tornato quello di andare a lavorare dove c’era bisogno, magari in Giordania o in Arabia Saudita, ma il mio vero sogno era di tornare ad Hebron[1] dove sono nato. Mi è stato però impedito: nel 1967 infatti la mia casa fu occupata con la motivazione della presenza di un antico cimitero ebraico di tremila anni fa[2]. Raccontavo questa storia ai miei figli, fino a che mia figlia maggiore non è andata a Hebron: gli alberi erano tutti sradicati e c’era il cartello che attestava l’esistenza del cimitero.
Io, psicologicamente, non sono mai riuscito a tornare.
Appena arrivato in Italia ho frequentato l’Università per Stranieri di Perugia e sono stato accolto da una famiglia, i Rossi, che mi ha trattato con affetto e generosità. La signora Rossi, che mi ha fatto entrare a casa sua la notte di Natale, mi presentava a tutti come il suo terzo figlio. Quell’accoglienza non l’ho mai dimenticata.
Com’è nata la Comunità Palestinese in Lombardia e quali sono le priorità attraverso cui opera?
Per rispondere occorre tornare agli anni Settanta. A quei tempi, la maggior parte delle persone che emigravano dalla mia terra erano studenti: di medicina, ingegneria, farmacia. Era un’emigrazione prevalentemente intellettuale. Da quel primo nucleo è nata l’Unione Generale degli Studenti Palestinesi, che si è rivelata preziosa sia per chi ne faceva parte, sia per i progressi che ha favorito nei processi di accoglienza. Numerose famiglie italiane si sono messe a disposizione per accogliere o offrire una sistemazione agli studenti, mentre l’Unione organizzava corsi di italiano e offriva supporto nel primo anno per le materie più complesse. In mezzo ai libri, prendeva così forma la comunità palestinese in Italia.
Dopo gli studi, molti sono tornati nei propri paesi; altri, come me, hanno deciso di restare, sentendo il bisogno di costruire uno spazio comune più strutturato. Così, nel 2005, è nata la Comunità Palestinese della Lombardia. L’intento principale è sempre stato quello di promuovere la cultura: la dimensione politica è venuta come naturale conseguenza. Abbiamo lavorato a film, documentari, eventi come No Other Land, sempre con l’obiettivo di far conoscere, informare ed educare.
In molte occasioni lei ha ribadito che la comunità palestinese rifiuta ogni forma di antisemitismo: perché ritiene importante chiarirlo pubblicamente?
È fondamentale, perché noi stessi siamo semiti. Se si consulta un vocabolario, si scopre che i semiti comprendono sia gli arabi che gli ebrei. Noi come comunità non accettiamo nessuna forma di razzismo e consideriamo qualsiasi sua declinazione odiosa e inaccettabile. Anche l’utilizzo della parola “semita” per intendere azioni o idee che arrivano esclusivamente da Israele, infatti, è a mio avviso un utilizzo scorretto e strumentale di questo termine. Non si può utilizzare il “semitismo” solo in relazione ad una critica ad Israele e ogni osservazione contraria non dovrebbe essere bollata come “antisemita”. Essere antisemita, in questo senso, equivarrebbe ad essere contro se stessi.
Cosa si aspetta, o si augura – oggi – dalla società italiana e dalle sue istituzioni rispetto alla causa palestinese?
Quello che spero è che la società italiana si impegni e continui ad impegnarsi nel non agire secondo pregiudizi. Sarebbe bello superare quella mentalità a volte provinciale, che vede dell’altro solo l’immagine riflessa di stereotipi e categorizzazioni. Nonostante i molti passi avanti compiuti rispetto agli anni Settanta, vedo ancora troppi giovani stranieri etichettati, giudicati e tenuti a distanza. È fondamentale comprendere quanto ogni atteggiamento basato su pregiudizi e stereotipi non è utile a nessuna causa, ma finisce solo col mettere in ombra chi abbiamo davvero davanti.
Come pediatra e come rappresentante della sua comunità: come è possibile mandare un messaggio di pace da un punto di vista educativo?
Come pediatra e come padre di quattro figli, ho sempre cercato di costruire relazioni con le scuole per sensibilizzare sul tema di un’educazione consapevole. Quello che ho notato, infatti, è che se nelle scuole primarie si presta molta attenzione alla qualità educativa, nelle secondarie si tende a perdere un contatto più profondo con la dimensione culturale, proprio quando invece dovrebbe rafforzarsi. Mi è capitato più volte di leggere insieme ai miei figli certe frasi sui loro libri di scuola e avere poi un confronto con gli insegnanti: davvero insegniamo questo ai nostri ragazzi?
Oltre ad approfondimenti certamente utili, credo che, all’interno del sistema educativo, debba essere messa più enfasi sul valore culturale della conoscenza e soprattutto sul tema della relazione con l’altro. Cosa bisogna fare se qualcuno si sente male? Come gestire la situazione e aiutare in una dinamica di emergenza? E ancora: cosa ho imparato da un paese visitato nelle vacanze? Cosa mi ha insegnato l’incontro con qualcosa di nuovo? Domande di questo tipo potrebbero guidare i bambini e i ragazzi verso una conoscenza approfondita di ciò che li circonda, educandoli verso un sapere orientato a quel che di concreto possono fare.