IL SILENZIO DELL’ESTATE E IL RUMORE DI GAZA: TESTIMONIANZA DI MARTINA MARCHIÒ

  A cura della Redazione

Martina Marchiò è infermiera, operatrice umanitaria e responsabile medica di Medici Senza Frontiere nella striscia di Gaza, da dove è tornata a metà giugno 2025.
Sui social si definisce “infermiera zen”, utilizzando il suo profilo Instagram per sensibilizzare sui conflitti nei luoghi in cui lavora. Da quando è tornata da Gaza, sono decine gli incontri pubblici di testimonianza a cui ha partecipato in tutt’Italia. Mentre racconta, fa seguire parole che sembra aver ripetuto troppe volte ma che, allo stesso tempo, non può fare a meno di pronunciare. La voce sicura racconta di un dolore imponente e pesante, capace però di colorarsi di fiducia ogni volta che incontra persone pronte a schierarsi per un cambiamento.
Come è possibile andare in vacanza in un momento così tragico? È possibile “staccare” mentre tutto questo continua ad accadere? Martina condivide con noi la sua esperienza umana, le sue difficoltà e il bisogno di fermarsi. Ma anche l’urgenza, oggi più che mai, di continuare a fare rumore.

Quante volte sei andata a Gaza e come l’hai vista cambiare?
Sono stata per la prima volta a Gaza nel 2024, per un mese e mezzo tra aprile e maggio e sono poi ritornata quest’anno per 2 mesi da aprile a giugno. La prima volta ero nel sud della Striscia, per lo più a Rafah e nella zona centrale, mentre adesso ho lavorato nel nord con base a Gaza City, entrambe le volte con il ruolo di responsabile medica.
Dalla mia prima permanenza appena un anno prima, Gaza è cambiata molto. La situazione è degenerata ulteriormente, tant’è che oggi l’88% della Striscia è occupata militarmente o sotto evacuazione. Le persone vivono quindi sempre più stipate, con continui sfollamenti forzati e un’incessante distruzione di infrastrutture, strade, scuole ed edifici.
La città di Rafah è stata completamente rasa al suolo, tant’è che si può dire non esista più. In questi giorni, inoltre, si ventila purtroppo anche l’intenzione di uno sfollamento forzato della popolazione per concentrarla in un campo su Rafah da cui chi entra non potrà più uscire. Oltre a Rafah, tutto il nord della Striscia come Jabalia, Beit Lahia, Beit Hanoun è oggetto dal 15 maggio di operazioni militari intensificate che hanno distrutto praticamente tutto.
In questo quadro, è ancora possibile stare a Gaza City, dove però pesanti ordini di evacuazione sia a nord che ad est continuano a far sì che la gente si riversi, accalcata, verso il mare. Anche di Khan Yunis rimane solo la parte costiera,  mentre a Deir al Balah il 22 Luglio 2025 è iniziata un’intensa operazione militare via cielo e via terra nella zona sud-ovest, base di molte organizzazioni umanitarie, sede di cliniche, stock medici, infrastrutture per l’acqua, nonché di circa 80000 persone secondo le Nazioni Unite. Non esiste una zona umanitaria, le regole di diritto internazionale vengono completamente ignorate e il clima generale è chiaro: non si sa se si arriverà a domani.

Nella tua bio di Instagram scrivi “Raccontare salva vite”. Perché questa frase?
Questa frase mi accompagna da molto tempo, in particolare dal 2019, quando missione dopo missione ho scelto di utilizzare la mia pagina Instagram come spazio di informazione, divulgazione e, soprattutto, sensibilizzazione.
In un contesto come Gaza, il valore del raccontare assume un significato cruciale: i giornalisti internazionali non possono entrare nella Striscia, e per gran parte dell’opinione pubblica occidentale la voce dei palestinesi non ha lo stesso peso di quella di chi, come me, può uscire e raccontare.
In questo scenario, la presenza delle organizzazioni umanitarie assume un doppio ruolo: da una parte quello medico-sanitario, dall’altra quello di testimonianza e denuncia.
A Gaza ci si rende davvero conto di quanto il silenzio diventi complice uccidendo e di come la sensibilizzazione debba e possa fare la differenza, soprattutto in un momento come questo.
Siamo a fine corsa, non c’è più tempo.

Le notizie di questa tragedia ci bombardano, mentre, in questa parte del mondo, per molti stanno per iniziare le vacanze estive. Si può vivere un momento così spensierato in questo clima di tragedia?
Credo che, nonostante tutto, la vita debba andare avanti. Personalmente, una volta tornata la prima volta da Gaza, ho dovuto fare i conti con un pesantissimo senso di colpa. Facevo un’enorme fatica a vivere sapendo di essere uscita da quel confine e di aver lasciato una situazione immutata, se non in peggioramento. Mi sentivo in colpa di essere tornata ad una vita normale: rincontrare i miei affetti, tornare alle mie passioni e alla libertà è stato un lungo e difficile percorso.
Poi, gradualmente, ci si rende conto che di vita se ne ha una sola. E quindi bisogna viverla, essere in grado di staccare e respirare. È importante lavorare su questo senso di colpa che abbiamo e sul “privilegio bianco” che permea la nostra vita, soprattutto accettando che la nostra condizione non sia fonte di questa colpa.
In questo senso, andare in vacanza non vuol dire disconnettere completamente qualsiasi aggancio con la realtà, ma significa personalmente rendermi conto quando, per me, è troppo. Quando, cioè, sento che sto per bruciarmi e capisco che è necessario ricaricarmi, riconnettermi con il momento presente e con la vita che sto e stiamo vivendo. E questo non vale solo per me che sono stata a Gaza, ma anche per chi, da lontano, vive un trauma legato all’esposizione continua al dolore tramite video, foto o racconti.
Credo che, anche in un momento come questo, sia fondamentale coltivare la capacità di concedersi una pausa e dirsi “anche io posso prendermi cura di me, anche io ho diritto a godere della vita”.
Perché altrimenti, la strada si perde, ci si fa davvero male, e, indietro, non si torna più.

Come hai vissuto e stai vivendo il tuo ritorno?
Questo ritorno è stato per me diverso dal precedente. La volta scorsa ero tornata con forti sintomi da sindrome da stress post traumatico: non riuscivo a dormire, avevo incubi ricorrenti, la mia mente non si fermava mai. Ero ipersensibile ai rumori e bastava sentire un aereo passare perché mi venisse l’impulso di buttarmi sotto il tavolo o di mettermi a correre. Avevo flashback continui e non riuscivo più a godermi nemmeno un semplice momento di pausa come, ad esempio, un caffè con un’amica.
Ci ho messo 4 mesi a ricominciare piano piano a riappropriarmi della mia vita, e grazie alla psicoterapia, ho intrapreso un lavoro costante su me stessa per riuscire ad attraversare quel dolore.
Ho imparato, o forse sono stata costretta, a concedermi spazi di vuoto dove lasciare emergere tutto quello che doveva venire a galla e stare così nel dolore, metabolizzarlo e digerirlo.
In quel processo ho costruito risorse che prima non avevo e oggi, in questo nuovo ritorno, mi accorgo di avere una capacità diversa di fermarmi. Riesco a concedermi, chessò, di fare una passeggiata col cane, di vedere un amico e persino di andare ad un concerto. Mi è stato chiesto come facessi a stare ad un concerto dopo Gaza, e la verità è che non è facile. Anche mentre sei lì ad ascoltare musica può accadere che un flash o una memoria improvvisa si attivi e la mente ti riporti laggiù. Ci vuole tanto allenamento per riuscire a tornare in questo mondo che, anche se è lo stesso che vivono i palestinesi, sembra un altro.

Dopo Gaza, è cambiato il modo in cui vivi il tuo lavoro?
Il mio lavoro è sempre la mia passione in cui credo moltissimo. È altrettanto vero che, dopo questa seconda esperienza, sento che la mia fiducia nelle istituzioni è calata molto: Gaza è qualcosa che ti mette di fronte ad una realtà che non vorresti vedere. Fa male rendersi conto della passività della comunità internazionale e del silenzio che cela una complicità, così come accettare che dietro a questo genocidio ci siano interessi, speculazioni, e poteri che ci guadagnano. Avere la consapevolezza che nel 2025, dopo più di 21 mesi di violenze, il genocidio è ancora in corso nonostante il continuo lavoro di denuncia, lascia un enorme senso di impotenza che fa sentire spesso inermi. Tuttavia, sento di avere ancora quella spinta ad andare avanti, soprattutto grazie a tutti gli incontri di sensibilizzazione a cui sto partecipando. Lì, parlando con le persone, si inizia a nutrire di nuovo un po’ di fiducia nell’umanità e la speranza si riaccende: ti rendi conto che ci sono ancora tante persone che lottano per i diritti della Palestina parlandone ed esponendosi e che quindi non per tutti Gaza è sacrificabile. Questo è importante.

Come professionista sanitaria, quali aspetti del sistema sanitario hai visto maggiormente compromessi a Gaza?
Questa situazione ha messo in luce quanto sia diventato difficile, oggi, essere operatori umanitari a Gaza, così come in molti altri contesti di conflitti attivi nel mondo. Le guerre di vent’anni fa non esistono più: le regole del diritto internazionale umanitario vengono ormai sistematicamente ignorate e gli operatori umanitari sono diventati bersagli. Dal 7 ottobre 2023, oltre 479 di loro sono stati uccisi. Anche il personale sanitario è sotto attacco: più di 1.580 tra medici e infermieri hanno perso la vita. Il 3 luglio è morto un altro collega di Medici Senza Frontiere, il dodicesimo ad essere rimasto ucciso. Fare questo lavoro è diventato sempre più pericoloso.
A tutto ciò si aggiunge la militarizzazione e la strumentalizzazione degli aiuti umanitari: il confine è chiuso dal 2 marzo e solo una manciata di camion è riuscita a entrare, contro gli oltre 600 mezzi al giorno necessari a rispondere ai bisogni reali della popolazione.
Dal 27 maggio, l’unica organizzazione autorizzata a distribuire cibo è la Gaza Humanitarian Foundation, un nome che è diventato sinonimo di trappola mortale. Le persone vengono lasciate per ore sotto il sole cocente, umiliate e colpite mentre cercano di ricevere i pacchi alimentari.
In quei punti di distribuzione, sono morte dal 27 maggio oltre 800 persone e più di 4.000 sono rimaste ferite, il 16% sono bambini secondo il Ministero della Salute.
Abbiamo di fronte una verità concreta: oggi gli aiuti non vengono distribuiti nel rispetto dei principi fondamentali dell’azione umanitaria, non c’è indipendenza, non c’è neutralità e, in definitiva, non c’è umanità. L’esercito israeliano guidato dal governo Netanyahu, collaborando con questa fondazione per la distribuzione del cibo, continua a uccidere civili in maniera sistematica.
Tutto ciò si riversa in maniera devastante sull’assistenza e il lavoro medico. Con il confine chiuso, le scorte di farmaci stanno finendo: antibiotici, antidolorifici, sedativi, materiali per le medicazioni… tutto inizia a mancare. I pazienti aumentano ogni giorno: ci sono feriti, malati cronici, e purtroppo sempre più casi di malnutrizione. A maggio, nei nostri ambulatori a Gaza City, Medici Senza Frontiere seguiva circa 300 pazienti nel programma contro la malnutrizione. Oggi, a luglio, sono diventati più di 900. I numeri sono quasi quadruplicati in poche settimane.
La parte più lacerante è poi dover scegliere chi salvare e a chi dare la priorità perché non si hanno abbastanza sedativi o antidolorifici per tutti. Queste decisioni, chiaramente, sono qualcosa che ti porti dietro per sempre.

Riesci ad avere un contatto con chi si trova ora a Gaza?
Attualmente la linea telefonica è tornata abbastanza stabile, il che permette di comunicare almeno con messaggi vocali o tramite WhatsApp. Durante la mia permanenza a Gaza invece, c’è stato un blackout totale durato cinque giorni che ha rappresentato un momento particolarmente critico.
Sono stati colpiti tre punti strategici nella Striscia, dove passano i cavi principali per le telecomunicazioni. I team tecnici non hanno potuto intervenire per ripararli, e così siamo rimasti completamente isolati proprio in un momento delicato, mentre si intensificava il confronto militare tra Israele e Iran.
L’accesso alla linea telefonica può letteralmente fare la differenza tra la vita e la morte: spesso gli ordini di evacuazione arrivano con un semplice messaggio. Inoltre, grazie a internet e ai canali Telegram, la popolazione riceve aggiornamenti in tempo reale su bombardamenti imminenti e zone da evitare. Senza linea, si resta completamente all’oscuro di ciò che accade intorno.

Nei tuoi ultimi incontri hai raccontato che probabilmente tornerai a Gaza. C’è ancora questa intenzione?
La mia l’intenzione è ancora molto presente: se c’è bisogno io torno. È chiaro che da qua a ottobre può succedere di tutto e, se andiamo avanti così, non sarà rimasta nessuna Gaza da cui tornare.
C’è quindi un’urgenza massima di sollevare una pressione politica e istituzionale molto più forte, a tutti i livelli e con tutti gli strumenti possibili, per arrivare a un cessate il fuoco reale. È vitale che il confine venga riaperto, sia per permettere l’ingresso degli aiuti umanitari, sia per far uscire i feriti più gravi che oggi sono oltre 12.000 e che non ricevono da tempo le cure di cui hanno bisogno.
Io vorrei tornare, ma l’idea stessa di ottobre mi fa paura. Sembra lontanissimo, e nel frattempo Gaza rischia di essere spazzata via completamente molto prima di allora.

Foto: dallo smartphone di Martina a Gaza City


Sede Legale:
Via Ghisolfa, 32 – 20217 Rho (MI)
pec: cooperativa@pec.stripes.it
P.IVA e C.F. 09635360150




Tel. (02).931.66.67 – Fax (02).935.070.57
e-mail: stripes@pedagogia.it
C.C.I.A.A. Milano REA 1310082




RUNTS N° rep.2360

Albo Società Cooperative N° A161242
Capitale Sociale i.v. € 365.108,00



Redazione Pedagogika.it e Sede Operativa
Via San Domenico Savio, 6 – 20017 Rho (MI)
Reg. Tribunale: n. 187 del 29/03/97 | ISSN: 1593-2259
Web: www.pedagogia.it


Privacy Preference Center