La scuola non serve? Un discorso da ricchi occidentali
Di Stefania Squadroni
Pedagogista e Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado
In certe bolle del mondo occidentale, si è fatta strada l’idea che la scuola sia superata, inutile, persino dannosa. È diventata di moda la retorica della “scuola che uccide la creatività”, e molti influencer e imprenditori diventati famosi grazie ai social alimentano l’idea che la “scuola non serva”, citando casi come Steve Jobs o Elon Musk, “autodidatti geniali” che ce l’hanno fatta nonostante l’istruzione (dimenticando che si tratta di eccezioni, spesso provenienti da contesti sociali già fortemente stimolanti e benestanti). Ma se ci si allontana un attimo dal comfort dei paesi ad alto reddito, questa narrazione si rivela per quello che è: un lusso retorico, concesso solo a chi ha già tutto. Quando qualcuno afferma che “la scuola è inutile”, dimentica di dire da quale prospettiva del mondo sta parlando, e soprattutto con quali strumenti è arrivato a quella conclusione: probabilmente sa leggere, scrivere, argomentare, pensare criticamente. Tutte competenze acquisite… anche a scuola.
Un salto nel passato: quando andare a scuola era un sogno per molti ma una realtà per pochi
Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, l’analfabetismo toccava il 78% della popolazione. La scuola pubblica era quasi inesistente, e la prima legge organica sull’istruzione, la Legge Casati (1859), faticava a essere applicata, soprattutto nelle campagne. Solo nel 1877, con la Legge Coppino, l’istruzione divenne obbligatoria per i bambini dai 6 ai 9 anni — ma ancora una volta, in molte aree rurali e nel Sud, mancavano scuole, insegnanti, perfino banchi. Negli anni successivi, il sistema venne riformato più volte: dalla Legge Orlando (1904), che estendeva l’obbligo a 12 anni, alla Riforma Gentile (1923), che rese l’istruzione più selettiva e classista. Solo negli anni ’60, con la scuola media unificata, si raggiunse davvero un obbligo scolastico esteso e generalizzato. Ma ci vollero decenni di lotte e investimenti perché l’istruzione diventasse un diritto diffuso e non un privilegio di pochi.
Oggi, nel mondo, oltre 240 milioni di bambini e adolescenti non vanno a scuola. In Afghanistan, le ragazze vengono escluse dall’istruzione per legge. In molti paesi “non occidentali” i bambini devono camminare ore per raggiungere l’edificio scolastico più vicino…a Gaza delle scuole sono rimaste solo le macerie e i bambini non ci sono più.
Per quanto riguarda l’attuale condizione dell’Istituzione Scolastica italiana è noto a tutti il divario tra Nord e Sud. Un bambino di 10 anni del Centro Nord ha assicurato, in media, 1.226 ore di formazione dal sistema scolastico pubblico, un suo coetaneo del Sud dovrà invece arrangiarsi con 200 ore in meno, niente mensa e pure niente palestra. Una fotografia fornita dalla Svimez con l’Altra Napoli Onlus nell’incontro “Un Paese due scuole”.
Quando criticare la scuola fa comodo al mercato
La crescente delegittimazione della scuola pubblica ha una matrice economica e culturale precisa: è figlia del capitalismo neoliberista, che considera inutili — se non dannosi — tutti i servizi pubblici non direttamente produttivi. Sanità, trasporti… e, ovviamente, istruzione.
Così, mentre si tagliano i fondi alle scuole pubbliche, aumentano:
- scuole private “d’eccellenza”
- piattaforme di formazione online a pagamento
- università-azienda che offrono lauree in tempi record
- proposte educative alternative, ma accessibili solo a chi può permettersele.
Demonizzare la scuola pubblica apre la strada alla sua privatizzazione. E la conoscenza — da diritto collettivo — rischia di diventare un prodotto di mercato, venduto a chi ha più mezzi. Gli altri? Resteranno con meno strumenti, meno opportunità, meno voce. Demonizzare la scuola non è rivoluzionario, è elitario.
Che la scuola vada riformata è fuori discussione! Il sistema educativo va riformato da cima a fondo, è un sistema obsoleto e ancorato ad ideologie gerarchiche e punitive. Serve più inclusione (una brutta parola ma purtroppo ancora necessaria) e meno competizione, più aggiornamento didattico (il 70% dei docenti vede ancora l’apprendimento come una trasmissione di saperi), meno precariato, meno burocrazia, meno padiglioni di contenimento, più investimenti… ma una cosa deve restare chiara: l’istruzione pubblica è uno dei pilastri della democrazia. È grazie alla scuola pubblica che tutti possiamo leggere, scrivere, argomentare… e criticare.
Criticare la scuola è lecito e auspicabile è la sua trasformazione a patto che ciò avvenga dal suo interno, e demonizzarla – senza analisi, senza proposte (pubbliche!), senza memoria storica e – è irresponsabile. È una posizione che nasce dal privilegio, ma che fa il gioco di un sistema economico pronto a trasformare anche il sapere in merce. Se davvero ci interessa migliorare la scuola, dobbiamo difendere la sua dimensione pubblica, democratica e accessibile, senza cadere alla tentazione di svenderla al primo offerente. L’istruzione pubblica è un diritto e va protetto come tale.