“Non ce la faccio”. Una domanda di aiuto a noi.

Di Dafne Guida
Ancora una volta la cronaca ci costringe a riflessioni potenti e a tratti ineluttabili. “Non ce la faccio.” È una frase che ritorna, tragica e potente, nelle cronache che raccontano di anziani che si tolgono la vita e di giovani che non riescono a trovare spazio per esistere. È un grido che attraversa generazioni, che accomuna chi ha vissuto troppo e chi non ha avuto il tempo di vivere abbastanza. Non è solo una dichiarazione di resa, ma il sintomo di un mondo che non contempla la fragilità, che non lascia spazio all’imperfezione, che giudica prima di ascoltare.
L’anziano che pronuncia quelle parole spesso lo fa dopo anni di silenzio, di solitudine, di perdita di ruolo. Nel caso specifico parliamo di Letterio Buonomo, un uomo di 71 anni che, anziché aprire la porta all’ufficiale giudiziario per lo sfratto, ha aperto la finestra per l’ultimo volo. E’ accaduto a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, mercoledì 8 ottobre alle 9.15.
In una società che celebra la produttività e la giovinezza, l’età avanzata diventa sinonimo di marginalità. Il dolore non è solo fisico, ma esistenziale: non essere più necessario, non essere più visto, non essere più ascoltato.
I ragazzi, invece, vivono in un mondo che li spinge a essere sempre all’altezza, sempre performanti, sempre connessi. Il “non ce la faccio” nasce spesso da un senso di fallimento rispetto a standard irraggiungibili, imposti da modelli sociali, familiari, scolastici. Il confronto è costante, amplificato dai social, e il giudizio è immediato, superficiale, spietato. La vulnerabilità non ha spazio, non ha voce.
Viviamo in un contesto per-formativo e normativo, dove ogni comportamento, ogni emozione, ogni scelta deve rientrare in parametri prestabiliti. Chi non si adatta viene etichettato, isolato, ignorato. E così, il “non ce la faccio” diventa una risposta estrema a un sistema che non contempla la possibilità di essere fragili.
Come educatori, come cittadini, come esseri umani, non possiamo limitarci a raccontare il dolore. Dobbiamo interrogarci su come costruire una cultura dell’ascolto, della cura, della lentezza. Serve una pedagogia che insegni a stare nel dubbio, nell’imperfezione, nel fallimento. Serve uno spazio educativo dove il “non ce la faccio” non sia una condanna, ma un punto di partenza.
Il “non ce la faccio” impariamo a leggerlo non come debolezza ma come una richiesta di senso, di presenza, di umanità. E forse, il compito più urgente della nostra epoca è quello di imparare a rispondere.

 

FOTO: © iStock.com/Jacob Wackerhausen


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