Precarietà e senso condiviso
Di FABIO LUCCHINI
Ricercatore di Sociologia Generale presso l’Università degli studi eCampus.
Nella postmodernità in cui siamo immersi, la percezione di molti rileva una caducità di quei valori e di quelle norme alla base della vita relazionale che – seppur nel quadro di rivolgimenti collettivi e contrapposizioni feroci – avrebbero caratterizzato il secolo scorso in senso maggiormente etico; senso etico inteso come attenzione ai doveri morali verso se stessi e gli altri.
Riflettere intorno al passato recente è insidioso, poiché si tratta di un periodo a cui molti si sentono ancora fortemente legati: per via di reminiscenze dirette – spesso confuse e connesse a fasi particolari della propria esperienza di vita – o per tradizione familiare, rischiando fatalmente di indulgere in una idealizzazione acritica e in una descrizione fondamentalmente parziale o scorretta della realtà storica.
Ad ogni modo, non si può che prendere atto dello spaesamento che accompagna il tentativo di rintracciare le basi di un comune sentire all’interno della società italiana che, come gran parte del mondo occidentale, si confronta con sentimenti diffusi di incertezza e instabilità. Posto che nell’attuale contesto emergono discrepanze riguardo i valori e le norme di fondo, tali da prefigurare i sintomi di un vero e proprio scollamento sociale, quale può essere il contributo alla riflessione da parte delle scienze sociali?
Centralità di individualismo e disuguaglianza
Tale percezione di incertezza e instabilità pare suffragata da quanto emerge dal 56° Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis[1], anche nella sua ultima e recente edizione focalizzata sui più rilevanti fenomeni socio-economici caratterizzanti l’Italia negli ultimi anni, fenomeni intensificati e amplificati dai recenti focolai di crisi (pandemia da Covid-19 e conflitto russo-ucraino). Si tratta di un contesto di precarietà esistenziale diffusa, che non pare favorire un compattamento del corpo sociale, ma esacerbare piuttosto quelle che i ricercatori del Censis definiscono «insopportabilità sociali (…) verso eccessi odiosi, disparità intollerabili e vistose ostentazioni di persistenti opulenze»[2]. Eppure, rabbia e conflitto non rappresentano gli aspetti più vistosi e inquietanti di questa fase storica nel Paese, dove sembra invece prevalere «una vaga mestizia, nella consapevolezza della finitezza soggettiva e dell’impotenza di fronte a quel che sta accadendo»[3]. Le grandi narrazioni di ascesa individuale non catturano e non mobilitano più, si afferma piuttosto il desiderio di essere se stessi, con i propri limiti, negli attuali confini soggettivi. L’enfasi sul sacrificio per adattarsi, elevarsi e arricchirsi – meno potente che nel recente passato e meno influente nell’orientare i comportamenti sociali – è sostituita da una maggiore attenzione, almeno nelle intenzioni, al benessere e alla qualità della vita e da una più viva consapevolezza dei vincoli che condizionano la quotidianità. L’80% degli italiani non intenderebbe più impegnarsi per cambiare e per migliorare la propria condizione materiale. Una circostanza con ogni evidenza legata al ripensamento indotto dall’impatto sulla coscienza individuale e collettiva degli eventi inattesi, inusitati e drammatici degli ultimi anni:nove italiani su dieci dichiarano che, riflettendo sull’intrecciarsi di fenomeni quali pandemia, guerra e crisi energetica e ambientale, provano una tristezza di fondo. Più di un italiano su due confessa una propensione alla passività e al ripiegamento nel privato.
Ma non è solo questo. Secondo gli analisti è necessario considerare anche la sedimentata sfiducia rispetto ai meccanismi di mobilità sociale. Ciò si ricollega al ruolo che la struttura sociale e l’agency – intesa come la capacità degli individui, all’interno del contesto sociale in cui operano, di agire autonomamente e di prendere decisioni – giocano nel plasmare la disuguaglianza sociale. Ragionando secondo questa prospettiva, emergono spunti interessanti per chi si occupa, ad esempio, di educazione e istruzione: ambiti rilevanti per il complesso dialogo intergenerazionale e interculturale che implicano, per la loro connessione con lo sviluppo di prospettive professionali più o meno gratificanti e, in generale, per il loro riverberarsi nel tempo sul ciclo di vita, aprendo, o meno, opportunità di esperienze esistenziali caratterizzate da benessere e buona salute. In effetti, l’individuo, sin dagli esordi del suo iter formativo, si muove in un campo d’azione segnato da opportunità e vincoli[4], che si articola in percorsi diversi a seconda dell’estrazione socio-economica. Per uscire da questo percorso “socialmente” prescritto ed esplorare con successo nuove opportunità (definendo obiettivi, perseguendoli e abbandonando quelli non raggiungibili) sono necessari una direzione motivazionale e un impegno particolarmente accentuati: risorse che non tutti, per svariate ragioni, sono in grado di attivare[5].
Alla luce del quadro sin qui abbozzato, non stupisce l’emergere più marcato, o quantomeno più evidente, di un disaccordo rispetto ai valori centrali dell’esistenza e, inevitabilmente, di una discordanza sulle norme che dovrebbero orientare il comportamento. Il tema è ampio e impossibile da affrontare in poche righe, ma alcuni spunti relativi alle tendenze in corso possono comunque essere proposti.
Se è vero che nelle odierne dinamiche sociali viene meno la prospettiva di un reale cambiamento, l’avvenire pare sacrificato sull’altare dell’urgenza[6]. Gli individui moltiplicano le loro connessioni all’interno di uno spazio indefinito e di un flusso di interazioni continue – virtuali o in presenza – e ciò racconta dell’incapacità di proiettarsi nel futuro, trasformando l’imprevedibilità dell’esistenza in una condizione di precarizzazione senza prospettive di cambiamento positivo e fecondo. Una precarizzazione che non riguarda solo l’instabilità dei contratti di lavoro, ma implica anche la ristrutturazione delle biografie. Le conseguenti riconfigurazioni culturali rendono precario ogni assetto acquisito; frammentato il senso della condizione esistenziale; settoriale e iper-specializzato l’expertise professionale. Si potrebbe persino riproporre il concetto di alienazione, come estraneità contrapposta ad autenticità e autonomia.
Ancora, al centro delle idee di società e comunità si staglia, ingombrante, la figura del soggetto razionale e riflessivo, che si muove tra le svariate opzioni potenzialmente accessibili (salvo le limitazioni strutturali sopra discusse) e ciò comporta la crescente affermazione dell’individualismo nel corso del processo di socializzazione. Emancipandosi da qualsiasi vincolo sociale, derivante da norme ereditate o da valori prestabiliti dalla tradizione e dalla storia, l’individuo diventa titolare del diritto di vivere la vita come meglio desidera e ciò tende a risolversi nel calcolo della convenienza individuale, nella logica costi-benefici, secondo un ragionamento sempre più astratto e razionale, tale da spersonalizzare la vita sociale[7]. Una sorta di degenerazione dell’utilitarismo benthamiano, secondo il quale è utile ciò che ha come conseguenza la più grande felicità del maggior numero di persone, aspirando alla massimizzazione del piacere e alla minimizzazione del dolore. Tuttavia, questo approccio, che fonda la morale sul risultato in termini di benessere degli individui, si scontra con il riconoscimento della finitezza dell’essere umano, la cui visione come calcolatore perfettamente razionale ha ceduto da tempo il passo al riconoscimento dei condizionamenti dovuti alla gestione di troppe informazioni contrastanti, alla complessità della vita quotidiana, ai limiti della forza di volontà[8].
In conclusione
Il ripiegamento individualistico e la riproduzione delle disuguaglianze paiono complicare la ricerca di orizzonti condivisi di senso e di visioni comuni di futuro, in paradossale e apparente contraddizione rispetto all’omologazione indotta dal generalizzato e massivo accesso alle nuove tecnologie, soprattutto quelle informatiche[9]. Sotto questo profilo, le dure contrapposizioni e l’aspro dibattito sulle misure di contenimento della pandemia e sulla campagna vaccinale contro il Covid-19 possono essere interpretate come un ulteriore segnale di sfaldamento, o quantomeno di incomunicabilità, all’interno della società italiana, soprattutto se si pensa a un tema così delicato come la tutela della salute pubblica[10].
Le scienze sociali non sono grado di dare risposte definitive, ma ciò non deve diventare motivo di inerzia e rassegnazione. Riconoscere i processi in corso e riflettere creativamente su di essi sonoquantomeno i primi passi verso la ricerca di nuove forme di condivisione, difficili da individuare ma che possono e devono essere immaginate. Si tratta di una questione drammaticamente concreta, poiché implica una visione comunitaria dell’etica, intesa – aldilà delle prerogative e degli interessi individuali – come strumento per il benessere sociale e l’equità: concetti questi ultimi essenziali per una società che voglia fondarsi su rapporti costruttivi e non conflittuali e in cui le istituzioni, liberate dall’oppressione dell’urgenza e del corto respiro, usino virtuosamente la loro residua legittimazione e trovino il coraggio di perseguire obiettivi ambiziosi.
[1] Cfr. Censis, 56° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2022, Roma.
[2] Ibidem: 4.
[3] Ibidem: 8.
[4] Cfr. Heckhausen J., Invited commentary: Societal constraints and individual agency: Navigating educational transitions for upward mobility, in “Journal of Youth and Adolescence”, 2021, 50(3): 437-445.
[5] Cfr. Sarti S., Il caso e la Società: Il ruolo del caso nei fenomeni umani e sociali, UTET università, Torino, 2021.
Pur riconoscendo che talvolta le storie individuali e collettive paiono seguire percorsi necessari e inevitabili, Sarti ammonisce sull’esistenza di elementi di imperscrutabilità e aleatorietà nel divenire dei fenomeni sociali e ridimensiona le narrazioni che giustificano le disuguaglianze sulla base di un ordine sociale autoassolutorio.
[6] Cfr. Lusardi R. & Tomelleri S., Algoritmi, cigni neri e virus: la crisi della pianificazione sociale nella modernità avanzata, in “AIS Journal of Sociology”, 2020, 16: 23-38.
[7] Cfr. Tomelleri S., Ritornare a pensare la società. Perché abbiamo bisogno della sociologia, in “Sociologia”, 2022, 1: 4-12.
[8] Da queste considerazioni trae spunto l’idea che una “spinta gentile” possa indirizzare verso scelte corrette: nudge, come è stata definita da Thaler e Sunstein, secondo i quali, per aiutare le persone a fare il meglio per sé e per la società, occorre non negare, ma usare bene l’irrazionalità umana. Cfr. Thaler, R. H., & Sunstein, C. R., Nudge: Improving decisions about health, wealth, and happiness. Penguin, London, 2009.
[9] Cfr. Barberis M., Uguaglianza, differenza e omologazione, in “Ragion pratica”, 2018, 2: 531-546. Barberis nota che l’accesso quasi universale al web – travolgendo ruoli, saperi e competenze e alimentando la convinzione che “uno vale uno» – consente, da un lato, nuove forme di trasparenza, partecipazione e trasgressione, ma favorisce pure la degenerazione dell’uguaglianza in omologazione, massificazione e spersonalizzazione.
[10] Cfr. Marzulli M. & Lucchini F., La controversia sul metodo: un’interpretazione del dibattito online sui vaccini a partire dai saperi esperti”, in “Rivista di Ricerca e Didattica Digitale”, 2021, 2 (1): 16-28.