La città che vorrei

DI GIUSEPPE LANZARINI
Studente al Liceo Artistico, indirizzo Architettura e ambiente, della Fondazione Sacro Cuore di Milano.

Vorrei una città che fosse proprio come una casa a cielo aperto. La casa non è appena un insieme di stanze e di muri, ma ha qualcosa in più: dà un valore alla persona. Tanto che ciò che innanzitutto contraddistingue un individuo povero, è proprio il fatto di non avere una casa, quel porto stabile e sicuro dove rifocillare il corpo e lo spirito e dove soprattutto condividere la vita insieme a qualcuno. Anche se può non essere di proprietà, la casa è ciò che sentiamo più nostro, più appartenente a noi e a cui più apparteniamo, a cui siamo maggiormente legati. Infatti, da casa partiamo all’inizio della giornata e a casa torniamo di sera. Ma non solo all’inizio e alla fine della giornata, anche all’inizio e alla fine della vita una casa è sempre lì ad aspettarci. Per tale ragione, l’abitazione è sempre stata l’architettura per me più interessante e questo è il principale motivo per cui ho scelto il liceo artistico, in particolare l’indirizzo architettonico.
Dando una forma non solo a quanto abbiamo di più personale e privato, appunto le case, ma anche a ciò che è disponibile per tutti, cioè lo spazio pubblico, il mestiere dell’architetto mi è sempre sembrato privilegiato proprio per la possibilità di entrare in modo concreto nella vita delle persone e, direi, di condizionarla. Infatti: come la vivibilità di un appartamento dipende dal modo in cui un architetto ne disegna i muri; così, la vivibilità di un intero quartiere dipende dal modo in cui un architetto disegna la destinazione degli spazi pubblici. Certo è che la gente dovrebbe avere un senso del pubblico pari a quello che ha del privato, cioè qualcosa da curare come casa propria, come qualcosa che è per tutti, oltre che per sé.
Se, adesso che ho quasi 17 anni, penso a cosa mi sta più a cuore nella mia città, direi: la valorizzazione. È un concetto che mi è sempre sembrato astratto finché non ho osservato seriamente il fenomeno dei graffiti. Spesso imbrattano le facciate degli edifici, sia privati sia pubblici, e addirittura si sovrappongono gli uni agli altri diventando macchie senza forma, come se non avessero alcuna narrazione. Così, comprensibilmente la maggior parte dei cittadini li vede solo come vandalismi, senza fermarsi a leggerli, né tantomeno a chiedersi chi li ha realizzati e perché. Ho un amico graffitaro che mi ha fatto soffermare proprio su questo: nei graffiti c’è sempre un messaggio, un contenuto che – più o meno condivisibile, più o meno preciso, o estetico – sempre comunica la volontà del suo autore di esprimere a tutti qualcosa di sé. Questa volontà è buona e, a mio avviso, merita di essere valorizzata. Ecco allora che nella mia città ideale immagino spazi pubblici contrassegnati da appositi muri che ospitino i graffiti e che, periodicamente, vengano rinnovati con le opere di autori a rotazione. Muri così decorati da usare non solo per scopo espositivo, ma anche funzionale, per esempio come quinte per delimitare aree. Immagino anche, dove lo spazio a disposizione non rendesse possibile posizionare dei muri, che alcuni elementi urbani venissero messi a disposizione per tale scopo. Per esempio, quando arrivo in piazzale Corvetto dal centro città, lo sguardo finisce sempre sul lungo cavalcavia che sovrasta l’area e che, con il suo cemento, tinge di grigio gran parte della vista: perché non pensare alla sottostruttura e agli appoggi di questo cavalcavia come se fossero bacheche di graffiti? Io credo comunicherebbero più vita di quella evocata dal colore plumbeo del calcestruzzo. Destinare spazi appositi a tale scopo, potrebbe allora essere un tentativo non solo per disincentivare il vandalismo sui muri, ma anche per suggerire alle persone uno sguardo nuovo su questa forma di espressione.
Riflettere sul fenomeno dei graffiti mi ha fatto mettere a fuoco che per rigenerare bisogna valorizzare. Ma come si può valorizzare l’architettura più della persona? Bisogna in qualche modo dare fiducia alla persona e fare l’architettura per lei. Io credo che valorizzare non significhi eliminare il brutto e tenere il bello, bensì prendere il brutto e fare in modo che diventi bello. Ma come, se non modificando il contesto, cioè ripensandolo in modo tale che sia chiaro il significato di precisi elementi?
Modificare il brutto credo significhi anche modificare quanto limita la possibilità della gente di fruire degli spazi. Per esempio, il vecchio scalo ferroviario di Porta Romana – dove passo spesso in bicicletta – mi sembra come un fiume che divide l’intera zona e che non permette di raggiungere posti che, in linea d’aria, sarebbero a poche decine di metri gli uni dagli altri. Attualmente è avviato il cantiere per rigenerare lo scalo dismesso in villaggio olimpico, ma per moltissimi anni il brutto di quest’area è coinciso con ciò che era inutile: uno scalo ferroviario non più usato. Pur nella consapevolezza che le risorse necessarie per realizzare progetti di questo tipo sono ingenti e difficili da recuperare; tuttavia, questo esempio per me è significativo di come l’architettura debba rigenerarsi sempre e costantemente. Con il tempo, infatti, è fisiologico che non sia più necessaria la funzione per cui una struttura è stata costruita. Quando ciò accade, il contesto che ospita quella struttura è altrettanto fisiologicamente chiamato a cambiare: ad essere ripensato in modo che lo svantaggio di quanto si è rivelato inutile diventi un nuovo vantaggio, qualcosa di utile.
Riflettendo allora su quali spazi della mia città mi piacerebbe ripensare, l’immaginazione parte dalla zona di semiperiferia in cui abito: nel mio quartiere, così come in tutti gli altri dove non sia presente un monumento storico o artistico particolarmente significativo, vorrei che vi fosse un elemento architettonico luminoso come un faro nella notte. Un faro che andasse a centrare i bisogni della gente. Per esempio, nelle aree dominate da quei maxi-condomini composti da appartamenti medio piccoli, mi immagino spazi attrezzati che consentano alle persone di radunarsi per passare del tempo insieme. Mi immagino case popolari che, seppur realizzate con materiali economici, abbiano finestre ampie che invoglino chi le abita a guardar fuori e diano priorità a far entrare la luce, che rasserena perché comunica un positivo. Mi immagino che tutte le vie siano alberate, non solo alcuni viali, così che la natura non rimanga vincolata nei parchi, ma protagonista tra gli edifici; e un bambino, uscendo da casa, possa vedere il verde senza per forza entrare in un giardino.
Penso, infine, alla zona della mia scuola che, al confine tra Milano e Segrate, è affiancata dalla tangenziale est ed è immediatamente circondata da terreni incolti. In questi terreni mi immagino padiglioni all’aperto che ospitino campi di calcetto, basket e pallavolo; e padiglioni chiusi a vetrate, che ospitino grandi tavoli in cui pranzare, giocare, o cantare insieme. Mi immagino che tutta l’area non sia recintata in modo tradizionale, ma da una specie di percorso espositivo a cielo aperto, composto da grandi pannelli che mostrino i più bei progetti che i compagni della mia scuola, lungo gli anni, hanno ideato per rigenerare questo luogo. Luogo che chiamerei “Opportunità”, ad indicare che solo quando uno spazio dà un’opportunità, è utile. E solo così mi immagino che possa rinascere.