L’umiltà dell’attesa
Di Nathan Damioli
Pedagogista, Consulente Pedagogico, Formatore, Educatore Socio-Pedagogico
Senza sapere
Se sarà il momento
Della sua fine
O di un neorinascimento.
Non disturbatemi
Sono attirato da un brusio
Che non riesco a penetrare
Non è ancora mio.[1]
Un tempo sospeso, umile, profondamente umano, una libertà dell’animo, un sospiro, una speranza che cura, una tensione che consuma, un destino riscritto, da codificare, la vertigine del vuoto, l’angoscia di aver toccato il fondo.
L’attesa è una forzatura che vogliamo esorcizzare, un senso di colpa disarmante, un ritmo apparentemente passivo, la frustrazione di un eterno confronto con gli altri, un’affannosa corsa senza sosta, un’inquietudine da rimpiazzare con la frenesia, un rumore assordante, una fioritura impaziente.
Abbiamo dimenticato il privilegio dell’attesa, non siamo più educati al margine creativo della noia, siamo schiacciati dal peso delle aspettative e dalla cultura di essere solo il frutto di cosa e di quanto facciamo.
È così che il “qui e ora” lascia spazio ad un altro presente, quello del “tutto e subito”: un tempo senza tempo, inconciliabile con la nostra natura, un imperativo tossico, incurante, ossessivo, performativo, infestante in ogni sua scelta quotidiana.[2]
Abbiamo perso la concezione dell’attesa come un tempo di cura, di consapevolezza, di promessa, di messa alla prova, di rifugio, di conquista, di traguardi alla portata dei passi che sentiamo di poter compiere, di sacrificio, di fatica, di fallimento, di quiete.
È un silenzio da custodire, da ascoltare, l’attesa è riconoscere il progresso, è pregustare il dono della meraviglia, è riscoprire una leggerezza diversa dalla superficialità che molti vi associano, è uno spirito e un punto di vista ideale da cui potersi osservare e con cui affacciarsi ad un senso di vuoto che nasconde pienezza, vita, generatività e sogni.
È la radice di un tempo d’incertezza, che cerca linfa nella penombra per una futura rinascita[3].
Non si tratta di un’indifferenza sorda[4] o di un’ingenuità cieca, è il risultato di una scelta: quella di accogliere i propri bisogni, di respirare a pieni polmoni, di abbandonarsi a nuove prospettive di sé capaci di ispirare e infondere speranza.
L’attesa è l’arte di una tessitura di narrazioni in itinere, ci ricorda che anche le storie degli altri ci riguardano, ci conforta nella consapevolezza di tendere sempre verso qualcosa.[5]
L’attesa non è un’esperienza di una resistenza, tantomeno una postura passiva, abbiamo dimenticato il sollievo del silenzio, della veglia, della sentenza di non poter controllare interamente il frutto delle nostre azioni.
È vivere la domanda[6], l’attesa è riconoscere che talvolta quest’ultima, se formulata nel modo giusto, possa essere la risposta più esaustiva.
È abitare la complessità, la propria vulnerabilità, è rivendicare il desiderio di ritrovarsi, è la libertà di immaginarsi ancora possibili.
Riconoscere il valore dell’attesa è una forma di intelligenza, è una risposta anticonformista al mito diffuso dell’iper-produttività, è la scelta di dare priorità ai nostri sentimenti, è normalizzare il nulla cosmico, è la responsabilità di potersi fermare.
Tutti siamo in attesa di qualcosa: di un’opportunità, di una persona, di una guarigione, di un equilibrio, di un compimento[7]; tuttavia, la differenza non sta in ciò che stiamo aspettando, ma nell’idea di bene con cui abbracciamo questo processo.
L’attesa è un invito che sollecita la nostra esistenza a cercare il proprio spazio nel mondo, è prendere per mano la vita, è accompagnarla con dignità, sensibilità e rispetto.
È l’essenza del processo educativo, in fondo, la scommessa della semina si cela soprattutto nell’impegno di nutrire e nella pazienza di saper attendere i primi germogli.
Per quanto si tenda a pensare il contrario, anche restare sulla soglia significa prendere una posizione, addirittura in alcuni casi sembra essere la più scomoda.
Trovo profondamente riduttivo pensare che una risposta si celi necessariamente in un estremo, essa talvolta si custodisce e si ricerca nell’attesa: prende forma, si distorce, fino ad assumere un nuovo aspetto, il nostro, quello che più ci appartiene.
[1] Gaber G., L’attesa, Anni affollati, Carosello, 1981;
[2] Lizzola I., Educare adolescenti ad essere socialmente utili, Animazione Sociale – 2007, pp. 42-49.
[3] Lizzola I., In tempo d’esodo. Una pedagogia in cammino verso nuovi incontri intergenerazionali, Città Nuova Editrice, 2023, Roma, p. 163;
[4] Lizzola I., Sentire il desiderio della realtà, Servitum, fascicolo 165 – 2006, pp. 95-113;
[5] Lizzola I., Di generazione in generazione, l’esperienza educativa tra consegna e nuovo inizio, Franco Angeli, 2010, Milano, p.182;
[6] D’Avenia A., L’arte di essere fragili, come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, 2016, Milano, p.35.
[7] Lizzola I., Benedire, Servitum, fasciolo 172 – 2007, pp.13 -25.