Affido: una rete di relazioni familiari
Il diritto del minore di vivere nella propria famiglia è ormai “stampato” nella mente di tutti gli operatori che si occupano di tutela minorile ma sempre più spesso ci si interroga su “quale” famiglia può essere utile ad un bambino per crescere. Crescere, non solo fisiologicamente, significa acquisire una propria identità, essere capace di affrontare la realtà esterna trovando mediazioni tra idealità e reali possibilità, essere in grado di controllare le proprie pulsioni, la propria istintualità perché ci sia spazio per la libertà e la ragione e non solo per il proprio desiderio.
L’adulto quindi deve essere in grado di rispondere ai bisogni fondamentali dei bambini legati alle dinamiche di attaccamento e separazione collegati al bisogno di appartenere e di essere, nello stesso tempo, riconosciuti come entità a se stante. Tutto questo perché possa – come afferma C.A. Moro – costruire una personalità capace di libertà e creatività, cosciente del proprio valore come essere umano e nello stesso tempo della significatività dei rapporti con gli altri per un reciproco arricchimento interiore.
E’ un compito molto difficile, arduo che presuppone l’aver raggiunto un equilibrio con se stessi, l’aver fatto i conti con la propria adolescenza, il proprio essere figli, il riuscire a trovare mediazioni con il mondo esterno senza rinunciare ai propri valori, “riconoscersi” come persone sempre in cammino ma con basi solide dalle quali partire per poter esplorare il nuovo.
Spesso quando gli operatori si occupano di bambini da “tutelare” si occupano di bambini che vengono da esperienze di delusione nei confronti di figure adulte: spesso ci troviamo
di fronte a genitori che non sono stati in grado di soddisfare adeguatamente il bisogno di appartenenza, di attaccamento, di fiducia, di comunione, che non sono stati in grado di essere amati ed idealizzati dal proprio figlio.
Quando il tempo necessario all’adulto per costruire o ricostruire un rapporto valido con il proprio figlio è eccessivo rispetto al tempo che viene richiesto dal figlio per poter crescere armoniosamente, si ipotizza un affido familiare. Un minore affidato ha bisogno di vivere e sperimentare, magari per la prima volta, dei rapporti normali, non conflittuali, dei rapporti nei quali non è coinvolto in dinamiche adulte, nei quali non è discriminato o marginalizzato.
D. Ghezzi afferma che un affido garantisce al bambino una collocazione serena ed un accoglimento sufficientemente affettivo, fornisce sicurezza e contenimento dei sentimenti di paura, delusione, rabbia, permette al minore di identificarsi con adulti in cui prevalgono le qualità positive, dà norme opportune all’età, favorisce l’integrazione sociale, facilita – attraverso esperienze adeguate – l’acquisizione delle autonomie corrette e fa rientrare quelle inadatte all’età. In sostanza fa vivere al minore una condizione familiare “normale”.
Ma quale è la famiglia che non solo permette al bambino di vivere la quotidianità, la normalità e nello stesso tempo può accogliere nella sua mente la famiglia d’origine del bambino con i suoi diritti e le sue difficoltà?
E’ proprio nel delicato ed indispensabile rapporto tra famiglia d’origine e famiglia affidataria che si gioca l’esito dell’affido.
C’è sempre asimmetria tra le due famiglie: asimmetria sul piano sociale, economico, culturale. Ciò induce al consolidamento dello stereotipo della contrapposizione tra famiglia buona e famiglia cattiva. Il fatto stesso che un adulto, un’Autorità ha deciso utile per la crescita di un bambino il distacco dalla propria famiglia per essere accolto in un’altra “idonea”, inevitabilmente “bolla” la famiglia naturale come incapace e cattiva e quella affidataria come capace e buona.
Nell’affido allora per il bambino si deve innescare un processo di attaccamento, ma il bambino in affido deve affrontare, fronteggiare e risolvere un duplice processo di attaccamento: il nuovo attaccamento alla famiglia affidataria ed il sempre attuale attaccamento alla famiglia naturale.
La Greco afferma che, quali che siano le carenze dell’ambiente familiare in cui il bambino è vissuto, lì sono le sue radici e con quelle radici deve misurarsi proprio per crescere in maniera integra. La necessità di salvare i legami naturali e contemporaneamente la necessità di accettare l’allontanamento dalla famiglia naturale pone il minore in affido in un conflitto molto acuto.
Dalla modalità di affrontare il duplice conflitto (attaccamento alla nuova famiglia – attaccamento e rielaborazione dell’attaccamento alla sua famiglia d’origine) dipendono la nascita ed il destino dei nuovi attaccamenti. La fedeltà alla famiglia d’origine si contrappone a quella verso gli affidatari. Spesso il bambino non nomina all’interno della nuova famiglia i genitori naturali e questo viene letto come inconsistenza e negatività del legame e del rapporto tra bambino e famiglia, come -però- non racconta ai genitori le nuove esperienze che fa con gli affidatari per il desiderio di non ferire e di non aggravare un dissidio, una differenza che percepisce tra adulti.
Lasciare il tempo al bambino per la sua crescita tollerando le sue fatiche, la sua rabbia, la sua confusione, le contraddizioni richiede agli affidatari un grande equilibrio, una grande flessibilità, una grande tolleranza. Ma è necessario soprattutto che la famiglia affidataria creda fortemente e sinceramente che nella famiglia d’origine ci possa essere un cambiamento. Deve credere nella non possibilità in quel momento della famiglia ad occuparsi del bambino, ma anche del suo reale impegno a crescere, cambiare, il fare tutto il possibile per creare un ambiente idoneo. Deve credere che non c’è “cattiveria” ma solo “impossibilità” dovuta ad una grande sofferenza e magari ad un apprendimento delle relazioni parentali e familiari che non è mai stato positivo.
Può accadere anche che gli affidatari si sentano investiti da una grande responsabilità nei confronti del nucleo del bambino loro affidato e che inizino a frequentare assiduamente i genitori assumendosi il ruolo di consiglieri e sostenitori. Non è questo il ruolo che viene chiesto: se da un lato si chiede di comprendere, di accettare e di credere nel cambiamento, dall’altro un atteggiamento sostitutivo rischia di generare – da parte della famiglia naturale – un atteggiamento di delega verso la famiglia affidataria e di abbassare le motivazioni al cambiamento per il recupero della genitorialità.
Come operatori ci siamo però sempre interrogati sul perché ad un certo punto di una storia familiare, una coppia, una famiglia decida di aprirsi ad una esperienza esterna, quale è il bisogno che deve soddisfare.
Sicuramente in tutte le famiglie affidatarie c’è forte un bisogno di esprimere solidarietà, di credere di poter offrire quello che si ha e si è avuto a dei bambini che hanno uguali diritti ma non hanno avuto l’opportunità di riceverli ma spesso ci siamo trovate di fronte ad un atteggiamento di tipo appropriativo. La famiglia affidataria, cioè, tende ad inglobare il bambino nella propria famiglia e i genitori tendono a presentarsi come gli unici credibili. Se questo atteggiamento coincide con il bisogno del bambino di abbondonarsi completamente, di “fondersi” in un rapporto che lo gratifica e lo protegge, all’inizio questa magica luna di miele è qualcosa che appaga famiglia e bambino ma, a lungo andare, non permette una crescita serena e tendente all’individuazione. A volte succede invece che il bambino si può sentire estremamente minacciato dall’oblatività della nuova famiglia e la risposta che si può innescare è: “più tu mi offri quello di cui ho bisogno, più io lo devo rifiutare perché non è da te che lo posso accettare”. La risposta alla grande oblatività della famiglia rimette in gioco il problema della lealtà e dell’appartenenza alla propria famiglia.
Mette anche in luce quanta sofferenza procuri al bambino il confronto tra quello di cui sente la necessità e di chi è in grado di soddisfarla: “non accetto quello che mi dai perché non accetto che sia tu a darmelo perché mi pone di fronte alla sofferenza che questo bisogno non è stato soddisfatto dalla persona dalla quale io desideravo fosse soddisfatto”.
La famiglia quindi deve essere in grado, aiutata dai Servizi e da un gruppo di famiglie con cui condividere problemi e possibili soluzioni, di decodificare i messaggi di eccessiva adesione, passività, gratitudine o di non accettazione, rifiuto, rabbia perché il rapporto tra chi si abbandona e chi accoglie sia non simbiotico ma sereno e liberante.
In un gruppo di famiglie affidatarie, una mamma raccontava: “l’affido è stato per noi una condivisione di sentimenti, di affetti, di preoccupazioni prima impensabili; un intreccio di relazioni da gestire (noi-lui; noi-lui-la mamma; noi-l’USSL; noi-lui-la mamma-l’USSL) una serie di piccoli gesti semplici ma carichi di significato: un bacio, un richiamo, una telefonata o una firma sul diario per una nota presa, pronta ad attestare che c’è qualcuno che si occupa di lui. Gesti semplici ma sufficienti per ridare tranquillità e sicurezza a chi l’ha smarrita e teme di non trovarla più”.
Non c’è la famiglia giusta per l’affido ma ci sono famiglie che sono utili per quell’affido, per quel bambino, per quella famiglia d’origine.
Caratteristiche comuni però sono la capacità di tolleranza della precarietà (quasi sempre si lavora con una indeterminatezza di tempo, si modificano gli equilibri all’interno della propria famiglia), la disponibilità emotiva e capacità empatica verso il nuovo. E’ essenziale anche che la famiglia possieda prontezza di risposta. Nonostante il Servizio debba svolgere con puntualità e precisione il compito di predisposizione di regole, molte circostanze ed avvenimenti sono difficilmente programmabili e prevedibili: è importante che ci sia da una parte capacità ed autonomia decisionale, dall’altra che i Servizi considerino il rapporto con la famiglia un rapporto in evoluzione e riconosca l’importanza e la giustezza dell’autonomia.
Si chiede alla famiglia affidataria di essere una famiglia SUPER? Si chiede di essere una famiglia capace di ascoltare, di comprendere i bisogni dell’altro, di non essere giudicante, di mettersi in discussione, di accettare con positività che il percorso della vita presuppone lo sbagliare ed il poter ripensare. Si chiede solo, anche se ci rendiamo conto che non è semplice, di affrontare il vivere e lo scorrere del tempo con atteggiamento di ricerca, con autenticità e amore.