Cominciare dal bambino: il libro in famiglia
Il primo libro non si scorda mai
Ho chiesto ad alcune persone, accomunate dal fatto che amano leggere, se ricordano il loro primo libro. Tutte hanno risposto affermativamente, abbandonandosi a ricordi deliziosi, che portavano con sé il sapore inconfondibile dell’infanzia.
Benché in modi diversi, le loro rievocazioni mi hanno confermato il sospetto che i primi libri costituiscono “un affare di famiglia”. Spesso sono stati tramandati di padre in figlio o meglio, di madre in figlio/a, sfuggendo alle devastazioni della guerra, alla dispersione dei traslochi, alla voracità del consumismo.
La rarefazione degli oggetti, operata dal tempo, conferisce a ciò che rimane un carattere sacrale, una solennità che trasfigura le povere cose in un “reliquiario del poco”.
Cose consumate dall’uso che recano, sulla superficie appannata, i segni di tante piccole battaglie domestiche.
Quando il libro che è stato della nonna e poi della mamma bambine viene consegnato all’ultimo nato, al cucciolo di casa, si celebra con discrezione uno dei pochi “riti di passaggio” della nostra frettolosa società. Il filo rosso della cultura si srotola tra le generazioni, le attraversa e le trascende perché abbiamo perduto memoria dell’inizio e non conosciamo la fine del suo percorso. Eppure ognuno di noi è in grado di attribuire all’esperienza “libro” una prima volta.
Sono cresciuta durante l’ultima guerra (fa una certa impressione in questi frangenti l’inconsapevole sicurezza con cui siamo soliti definirla “ultima”), quando il mondo si era fatto buio, freddo, inospitale per tutti e in particolare per i bambini.
Allora il tempo non passava mai, scandito dalle sirene d’allarme, dai magri pasti e dall’ascolto sempre più clandestino della radio. Se ricordo quel periodo della mia vita vi scorgo però un oggetto luminoso: l’abbecedario di mia nonna. Un libro grande, di cartone spesso e cremoso, decorato con splendide illustrazioni in bianco e nero che sembravano tratteggiate a china.
Presentavano bambini felici: alcuni, addobbati come principi, si facevano portare a spasso per viali alberati in carrozzelle trainate da caprette, altri, figli di severe ma protettive famiglie borghesi, correvano a scuola vestiti alla marinara; non mancavano piccoli contadini e misere guardiane di oche ma i loro stracci cadevano con studiata eleganza, come sulle scene di un’Arcadia teatrale. Quel libro giungeva dal secolo precedente a rammentare, a quello che è stato definito “il secolo di ferro e di fuoco”, che la vita poteva essere migliore e che era consentito essere felici.
La mia memoria ha conservato solo alcune tra le tante immagini incise sulla carta. La psicoanalisi direbbe che sono ricordi di copertura e che le figure che più mi hanno colpito non sono quelle ma altre che la rimozione ha sequestrato negli archivi dell’inconscio.
In ogni caso tutte le rappresentazioni che abbiamo introiettato, le rammentiamo o meno, arredano la scena dell’inconscio, animano il teatro del sogno, prefigurano e orientano l’attività mitopoietica del pensiero. “Ci sono più cose nella vita di ogni uomo – scrive Hillman – di quanto ne ammettono le nostre teorie su di essa. Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo ?qualcosa’ lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpito con la forza di un’annunciazione: “Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono.”
Lingua e libro materni
I libri di famiglia seguono di solito una linea materna. Sono le donne che conservano gli oggetti che amano e che li trasferiscono nella nuova abitazione, quando lasciano la casa che un tempo si diceva “paterna”.
Apparentemente la cura delle cose più care rappresenta un’estensione dell’amore di sé, una celebrazione della propria esistenza idealizzata ma, per le donne, vi è anche un’altra dimensione, una traiettoria del tempo che trasforma l’archeologia del passato in genealogia del futuro. Negli anni durante i quali le ragazze vivono da single, i libri che leggevano da bambine rappresentano un viatico che le conforta nel passaggio dall’infanzia alla vita adulta. Li guardano spesso, li sfogliano poco: soltanto quando sono costrette a letto dall’influenza o da una gamba rotta. Ma non è importante riattivarli, ciò che conta è che essi siano lì. Di fatto sono riservati a ben altro lettore! E’ per il figlio da sempre atteso e sognato, per il “bambino della notte”, che lei ha trasferito nel monolocale (camera di decompressione tra infanzia ed età adulta) i libri del cuore: sussidiari delle elementari, lussuosi illustrati regalati dai nonni, l’album animato che sfogliò in treno, le filastrocche che ancora ricorda, i primi appassionanti romanzi d’amore.
Ogni generazione si riconosce per alcuni libri condivisi, titoli che funzionano da rilevatori di cronologie. Per gli anni ’40: Incompreso, Il Piccolo Alpino, Cuore, Salgari, Verne, I ragazzi della via Pal, Piccole donne, La collana “Scala d’oro”.
Per i miei figli, post ’68: Scarry, le fiabe raccolte da Calvino, Pippi Calzelunghe, le filastrocche di Rodari, i racconti di Mario Lodi, i libri costruttivi di Munari, ma anche opere sconosciute che hanno però avuto, per “quel lettore”, una funzione inaugurale. Nella nostra famiglia il primato del ricordo spetta a un fantomatico “Baffo blu”, un libretto di poco valore ma capace evidentemente di colpire la mente infantile.
Libri materni dunque perché sono per lo più quelli della mamma.
Materni inoltre essendo lei che li dona al figlio con un gesto che è anche un abbraccio, in senso reale e simbolico. Nell’atto di porgere e prendere, la fantasia della bambina di un tempo fluisce come tra vasi comunicanti, in quella del bambino di oggi, che la accoglie e la ri-vive in un mutato contesto.
“Vieni qui, dice la mamma prendendo sulle ginocchia il piccolo, che leggiamo un poco insieme mentre aspettiamo papà”. Contenitore e contenuto si ricompongono così in una gestazione idealmente prolungata intorno al cordone ombelicale della lettura.
La sintesi tra ora ed allora costruisce la magia della famiglia, la sua capacità di riconnettere il passato al presente e il presente al futuro.
I libri di figure
I primi libri sono per lo più di figure: illustrazioni che si fissano nella mente infantile sino a costituire la scenografia di fondo del suo immaginario.
Modulando i sentimenti, esse educano la capacità immaginativa, la arricchiscono di contenuti, di atmosfere, di sentimenti.
Oltre la dura realtà dei fatti e delle cose, attestano l’esistenza del sottile mondo delle idee e conducono per mano il bambino perché vi entri oltrepassando la barriera cartacea della pagina.
Dopo quell’esperienza d’iniziazione, nulla sarà più come prima agli occhi infantili. Il riconoscimento di un altro mondo, separato dalle cose, sottratto alle scadenze del tempo, costituisce quella che Hillman chiama la “base poetica della mente”. Non si pensi a un “inerte proscenio” perché vi accade una “redenzione della psiche, dal suo pedestre ?realismo’, un risveglio del cuore che immagina, delle sensibilità, delle intimità, dei ricordi.”
L’acquisizione poetica si trasforma in capacità di “fare immagini”, di “fare storie”, in quell’attività mitopoietica che anima la narrazione di sé e la visione del mondo.
I personaggi illustrati, le loro vicende, stati d’animo, intenzioni e ispirazioni continuano a fluire nel pensiero anche quando il libro è stato chiuso. Solo che questa volta il lettore si è installato al posto del narratore, spetta a lui condurre i fili della storia, ampliare l’universo fantastico
che gli è stato consegnato.
L’immaginario condiviso che si costruisce attorno al libro corrisponde allo spazio transizionale di Winnicott, a quella zona intermedia tra il bambino e la madre, tra il me e il non-me in cui si colloca la creatività.
Non necessariamente una creazione riuscita e acclamata ma una percezione del mondo, una coloritura dell’esperienza che “dà all’individuo l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta”.
Libro, parola materna
Anche se nel ricordo ci pensiamo soli con i nostri primi libri, in realtà essi sono inscindibili dalle parole con le quali la madre li accompagna. E’ sempre all’interno di un dialogo che il libro sorge come una materializzazione del discorso.
Una conversazione che è iniziata da molto tempo, dal quinto mese di gravidanza, quando lo sviluppo dell’udito consente al feto di cogliere la voce delle persone che gli stanno accanto.
Prima delle immagini vi è il suono: il bambino vive i primi tempi della sua esistenza immerso nell’universo sonoro del corpo materno.
Ma il feto non solo sente, ascolta. La voce della madre gli fornisce il germe di un’esperienza di incontro e di relazione che si perfezionerà dopo la nascita.
Durante i primi mesi di vita, sostiene Bion, il bambino avverte dentro di sé confuse tensioni, dolorose contrazioni, stati di intensità ai quali non sa dare figura. Si limita allora ad emettere segnali indistinti di disagio: piange, si agita, si lamenta, butta fuori di sé pezzi di dolore senza nome che la madre accoglie nella sua mente e, in uno stato di indistinzione, metabolizza, elabora, connette al pensiero e alle immagini per poi restituirli al figlio, tramite la parola, resi vivibili, divenuti umani.
Si tratta, nella fase neonatale della vita, di scambi profondi, poco sondabili e decifrabili, di un “dialogo nascosto”.
Ma essi continuano, in modi più marginali e meno decisivi, durante tutta l’infanzia e anche oltre. Quando la mamma, sfogliando insieme un libro, spiega al bambino una figura, riordina una sequenza di immagini, racconta una storia, legge un testo, ancora una volta prende dentro di sé le emozioni inelaborate del piccolo. L’odio, l’amore, la paura, l’ansia, la tristezza, la solitudine, il senso di abbandono che tante volte turbano la vitalità infantile vengono fatte proprie dalla mamma e, attraverso parole adeguate, trasformate in esperienze condivise, le uniche che, come sostiene Christa Woolf, possano davvero essere capite.
La parola materna dà corpo al pensiero, lo rende vivo, sottraendolo a quella condizione di “cosa tra le cose” che è propria delle psicosi.
E’ ancora la sicurezza di base, la fiducia iniziale, ciò che aiuta il bambino a sopportare il vuoto della mente e l’odio che nasce dallo scacco del pensiero, trasformandolo in produzione di immagini, di simboli.
Il rapporto tra le figure del libro e le cose cui si riferiscono non va da sé. E’ un insight che comporta di prendere le distanze dalla percezione immediata, di interiorizzare il mondo, di trasformare l’agire in pensare ma che richiede poi un intenso lavoro mentale per armonizzare il dentro e il fuori senza contrapporli, senza confonderli.
Il bambino che, per soccorrere Cappuccetto Rosso, picchia la pagina sulla quale è rappresentato il lupo cattivo, allucina o pensa? Semplicemente gioca. Ed è la madre che mentre sta allo scherzo e lo incoraggia ridendo, gli garantisce che libro e mondo non coincidono se non nella sua, nella loro mente. E quando il piccolo chiede : “Ma Pollicino c’è davvero?”, ritto, dinnanzi alle porte del sogno, sta attendendo fiducioso che la sua interlocutrice lo prenda per mano e lo accompagni nella realtà “che non c’è”, ma che tuttavia esiste pur non esistendo. Paradosso che solo l’umanizzazione consente.
Il bambino che varca lo specchio ed entra nella fantasia senza smarrire gli ormeggi col mondo esterno, al ritorno porta con sé il gusto del bello e del possibile. Investito dalla sua prodigiosa vitalità, il piacere della fruizione si tramuta spontaneamente nella produzione estetica. Dopo aver ammirato immagini prodotte da altri, sente imperioso il desiderio di “farne da sé”, di usare lo spazio virtuale, la forma e il colore per proiettare e comunicare ciò che altrimenti non saprebbe comprendere: le sue emozioni.
Finchè dura l’infanzia, il rapporto con l’arte è vivo e immediato, solo una cattiva educazione allontana i bambini dalle forme della bellezza e dalle gioie della creatività. Il confronto tra le produzioni iconiche dei piccoli con quelle degli adulti misura, salvo eccezioni, la devastazione espressiva prodotta da un’acculturazione finalizzata all’efficienza.
In ogni caso chi non ha potuto fruire di uno scambio privilegiato con le figure dei libro, rischia poi di adottare nei confronti del testo scritto un atteggiamento tecnicistico che non coglie, oltre l’enunciato, la pregnanza del significato e del senso, il gusto della comunicazione e della condivisione.
Credo che troppi bambini giungano a scuola potenzialmente svantaggiati per la mancanza di una preliminare preparazione alla lettura. La riforma dei cicli scolastici, che assegna all’ultimo anno della scuola materna compiti di alfabetizzazione, potrà intervenire proprio in questo senso, colmando il divario che, in base alla provenienza familiare, separa gli alunni ai blocchi di partenza. Comunque il passaggio dal libro di figure al libro di parole, dal guardare al leggere, è sempre irto di pericoli, anche per coloro che hanno avuto un’approccio privilegiato. Le motivazioni affettive, che hanno sorretto i primi scambi con le pagine illustrate, possono sempre svanire dinnanzi a un insegnamento arido, meccanico e doveroso. L’alfabetizzazione fine a sé stessa produce le sue vittime: alunni pigri e distratti.
Dalle figure al testo
Nei casi migliori la scoperta della lettura (perché di scoperta si tratta) costituisce, dopo quella delle figure, un altro piccolo rito di iniziazione.
Oggi molti bambini giungono in prima elementare che sanno già leggere e scrivere. Hanno trovato nella mamma la loro prima maestra.
L’ alchimia che ha trasformato le nere formiche del testo in parole accade spesso a casa, dinnanzi a un libro di lettura non necessariamente predisposto per questo. Un libro che in qualche modo ha esaltato la fantasia del bambino eccitandone la pulsione scopica e la curiosità investigativa.
Perché sia indotto ad abbandonare il codice iconico per quello dei caratteri grafici, deve avvenire uno scacco della sua capacità di decifrare le immagini, di dar senso alle figure. La delusione rispetto alle pretese infantili di comprensione immediata ed esaustiva spinge il piccolo osservatore a diventare lettore. Il passaggio comporta di privilegiare le austere file di lettere, i neri abatini delle parole, rispetto al suntuoso convivio delle figure. Mentre la pagina illustrata imbandisce dinnanzi agli occhi di chi l’osserva tutta la sua forza comunicativa, la lettura richiede rinvio, attesa, capacità di anticipazione, di memoria, tolleranza della frustrazione, prima che si dispieghi la ricchezza del testo, prima che il lavoro si trasformi in piacere. L’immediatezza dell’io megalomanico infantile, la sua presunta onnipotenza, deve piegarsi alla prova di realtà e al tempo del lavoro. Inoltre l’indeterminatezza dello scritto comporta che il lettore si faccia coautore, che intervenga attivamente nel definire i contenuti e il tono emotivo del racconto.
Mentre le figure tendono a essere fruite, il testo non ammette atteggiamenti di completo abbandono. E’ piuttosto il mondo esterno che, nei momenti di massimo coinvolgimento, viene abbandonato: chi legge è momentaneamente sordo.
Lettura e scrittura sono, seppure in forma inversa, accomunate dal lavoro per cui il bambino passa spontaneamente dall’una all’altra una volta che sia entrato nella serra delle parole, non solo come visitatore ma in qualità di giardiniere. Solo l’eccesso di esortazioni e di interventi didattici può inaridire il suo entusiasmo. Sarebbe invece augurabile che ognuno, posto nelle condizioni più favorevoli, trovasse i tempi e i modi che meglio gli convengono per passare dal guardare le figure al leggere le parole.
Di solito il transito è favorito dall’abitudine di ascoltare letture effettuate dagli adulti. Dapprima si tratta di discalie, poesiole, fumetti ma progressivamente il “me lo leggi?” si estende a testi sempre più lunghi. Tuttavia il salto di qualità dalla lettura passiva a quella attiva resta straordinario e il momento in cui la figura non basta più fondamentale.
Se ripenso alla mia infanzia, ho vivissimo il ricordo di quel momento.
Dinnanzi a me un’illustrazione che trovavo perturbante. Un gruppo di bambini osserva in ginocchio l’interno di una grotta buia in cui s’intravvede una figura confusa, non identificabile. La domanda “chi è?” mi aveva sospinto lungo le righe del testo, alla ricerca di una risposta che placasse la mia curiosità. Evidentemente la risposta che ho trovato era insufficiente se tuttora mi inoltro nella lettura con un’ansia di sapere che mi fa trascurare la pertinenza disciplinare,
l’opportunità professionale, il senso del limite e della misura che esercito, almeno spero, in altri campi.
Come se ad ogni apertura di libro si verificassero le parole con le quali Fran?oise Dolto commenta il suo passaggio dall'”analfabetismo alla cultura”: “Leggere? Quale straordinaria sorpresa fu per me! Mentre per altri, intorno a me, sembrava una cosa del tutto naturale: la logica conseguenza degli eventi, come dicono i grandi, che non si stupiscono di nulla.
Non più di una nascita, e tuttavia pur sempre un miracolo, simile a un altro miracolo ancora: che un oggetto fatto di fogli pieni di segnetti neri racconti una storia, evochi un clima, un paesaggio, dia vita a esseri immaginari.
Miracolo ulteriore: che delle parole confuse ai nostri pensieri ci portino il mondo, gli altri, qui, nella nostra stanza. Miracolo che, nella zona di luce di una lampada, questo tesoro che è il libro spanda nel nostro cuore la sua vita segreta, racchiusa in piccoli segni da decifrare. E poi com’è strano che queste pagine magiche, in assenza di lettore, “oggetto” nuovamente chiuso in sé stesso, non siano niente di più di una cosa.
Un oggetto, il libro, che forse non è mai come un altro ma che quanto a lui non sogna: un libro. Non siamo anche noi, noi stessi, ognuno di noi, nella nostra stessa carne, rosa, rossa o dorata, o vecchia e appassita, non siamo anche noi coperti di piccoli segni? Una volta risvegliata l’attenzione, gli altri possono leggerli, senza che noi ne sappiamo nulla.
Così ognuno di noi dà agli altri, grazie alla propria esistenza in quanto oggetto, qualcosa da leggere, da decifrare, da sapere di sé stessi e del mondo – qualcosa da sognare?”