Il bambino desiderato è il bambino lontano

Intervista a Melita Cavallo*

Essendo stata per lungo tempo giudice minorile ho potuto verificare negli ultimi anni l’avanzare del fenomeno immigratorio sia quello regolare, ma ancora di più quelloirregolare, attraverso la presenza sempre più frequente dei minori stranieri sia nelle case-famiglia, sia negli istituti di accoglienza, sia purtroppo in carcere, in quanto testimone attento di tutti i cambiamenti sociali.

Maria Piacente: Come vede l’accoglienza del bambino straniero in Italia dal punto di vista della Sua professione?

Melita Cavallo (*): Non posso non registrare un atteggiamento schizofrenico verso i bambini stranieri, i quali, se lontani, sono desiderati, sognati, immaginati e rappresentano la meta da raggiungere, una volta ottenuto dal tribunale per i minorenni il decreto di idoneità all’adozione, per avere il figlio naturalmente non generato, dall’altra , invece, se vicini, sono spesso respinti e vituperati perché sentiti come un pericolo per la sicurezza della comunità che perciò chiede norme più severe, pene più dure e nessuna indulgenza per i ragazzi stranieri quando sbagliano.

I neonati abbandonati alla nascita, quasi scomparsi come tipologia di bambini adottabili, riappaiono, e spesso si tratta di bambini di colore che le donne extracomunitarie abbandonano in ospedale frettolosamente, subito dopo la nascita, talvolta scomparendo lasciando soltanto il nome, spesso falso, perché sprovviste di un documento di riconoscimento e già in fase di travaglio all’atto del ricovero, costrette a riprendere un lavoro sottopagato, a rientrare in un contesto di sfruttamento della persona, nel quale sono riuscite a nascondere fino all’ultimo la gravidanza indesiderata. Ma questi neonati, se di colore, non sono facilmente collocabili in adozione.

Essendo stata per lungo tempo giudice minorile ho potuto verificare negli ultimi anni l’avanzare del fenomeno immigratorio sia quello regolare, ma ancora di più quelloirregolare, attraverso la presenza sempre più frequente dei minori stranieri sia nelle case-famiglia, sia negli istituti di accoglienza, sia purtroppo in carcere, in quanto testimone attento di tutti i cambiamenti sociali.

Ad una solidarietà sociale, che è nei principi costituzionali, di fatto si contrappone una società che, al di là di splendidi esempi di accoglienza portati avanti da associazioni di volontariato sia cattolico che laico, a livello istituzionale non sembra muoversi nella stessa direzione, se non a livello di sostegno.

È pur vero che il numero dei minori stranieri denunciati alle procure per i minorenni,
soprattutto per reati contro il patrimonio e per detenzione e spaccio di stupefacenti, registra un trend in crescita negli ultimi anni; è pur vero che negli istituti e nelle comunità per adolescenti difficili sono ormai significative le presenze di minori extra-comunitari.

Ma si dimentica un dato esperenziale fondamentale: il primo impatto degli immigrati nel Paese di accoglienza avviene con l’istituzione giustizia!

Alcune stime valutano il numero dei minori clandestini in Italia a più di 100.000 alla fine del 1997: il sogno di guadagno, di emancipazione e di promozione sociale viene strumentalizzato da organizzazioni criminali che ne curano l’immigrazione clandestina, per passare poi all’utilizzazione del minore straniero nell’area dell’illegalità.

Solo grazie all’intervento molto incisivo dei giudici tutelari e minorili si è ottenuto che il nostro Paese portasse la sua attenzione sui minori stranieri in generale, al di là dell’esistenza sul nostro territorio di un genitore o di un familiare regolare: sappiamo bene che sono spesso gli stessi genitori che li sfruttano, o che hanno dato, dietro retribuzione, il consenso all’espatrio. Sono stati celebrati alcuni processi per il reato di riduzione in schiavitù in danno di minori stranieri, soprattutto nomadi.

A seconda della provenienza ci sono, infatti, aree di sfruttamento specifiche: i mahgrebini e i tunisini nello spaccio, gli albanesi nella prostituzione, i nomadi nell’accattonaggio e nei furti in appartamento, i cinesi nel lavoro nero. L’intervento giudiziario ha sempre cercato di garantire ad ogni minore straniero i diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione ai soggetti in formazione: ambiente protetto, preferibilmente familiare; diritto alla scolarizzazione; diritto alla salute: in sintesi, il diritto all’educazione. E ciò in ossequio al dettato costituzionale, che all’art. 31 dichiara: “… la Repubblica protegge l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari allo scopo…”. Che tale protezione sia da estendere a tutti i minorenni presenti sul territorio dello Stato, e non solo ai cittadini, può essere dedotto, del resto, da quanto affermato dalla Corte Costituzionale in più sentenze; è stato chiarito che questi diritti fondamentali sono estesi anche allo straniero, ove si tratti della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo; e non v’è dubbio che l’art. 31 Cost. (riferito alla protezione dell’infanzia e della gioventù) ha la stessa natura dei riportati artt. 2 e 3 Cost., perché essere protetto nel proprio processo di crescita è un diritto fondamentale di ogni soggetto minore di età, sia esso cittadino o straniero. La soggettività giuridica di un minore straniero nel nostro Paese non può dipendere dalla regolarità della sua residenza sul territorio, anche perché l’emigrazione dal Paese d’origine non è certamente una decisione del minore, ma dell’adulto, mentre il pregiudizio che ne deriva ricade, molto spesso con effetti destrutturanti e devastanti, sul suo processo di crescita. Il bambino ha diritto ad una cittadinanza universale, che gli deve essere riconosciuta ovunque egli si sviluppi, al di là dell’osservanza della normativa sul soggiorno, che può e deve riguardare l’adulto, non il soggetto ancora non in grado di determinarsi autonomamente e da altri costretto al trasferimento in altro Paese. E ciò è vero, perché l’art. 20 della citata Convenzione impone agli Stati membri di garantire al bambino straniero privato, in modo permanente o temporaneo, del suo ambiente familiare il diritto ad una speciale protezione ed assistenza. Tale assistenza può realizzarsi con affidamento, adozione o collocamento in istituti di assistenza. Nell’attuare questi collocamenti si deve tener conto dell’opportunità di “assicurare al bambino la continuità di metodi educativi, di ambiente etnico, religioso, culturale e linguistico”.

M.P.: E’ opinione corrente che nel passaggio da una cultura del conflitto ad una caratterizzata dalla negoziazione, un ruolo importante possa averlo la sensibilità femminile, tanto più se riferita alla trasformazione della nostra società in senso multiculturale. Cosa ne pensa?

M.C.: Da sempre alla donna, in quasi tutte le culture, ma precipuamente in quella cristiana, è stato attribuito il ruolo di mediatrice, basti pensare alle nozze di Cana, laddove è la Madonna che dice al Figlio “manca il vino”. E questo perché la donna non esaspera, per sua natura, il conflitto, ma riesce sempre ad individuare un punto di incontro per comunicare, per ricucire, per rimettere in contatto posizioni diverse e riallacciare la relazione. E’ solo necessario che la donna creda nell’obiettivo da realizzare, perché sappia spendersi come persona, con tenacia e risolutezza fino a riuscire nell’intento, anche a costo di sacrifici e sofferenze.

Questo ruolo giocano soprattutto le donne in qualità di madri, esse, nella cultura tradizionale, hanno sempre mediato il rapporto padre-figlio, cioè tra colui che rappresenta l’autorità e colui che trasgredisce la regola. E va sottolineato che questo ruolo giocano le madri anche in occasione dei conflitti armati, disposte a mettere da parte le diversità etniche, le tradizioni e gli usi locali per difendere i propri figli ed i propri compagni, e a mettere in gioco le loro stesse vite per un obiettivo di pace; ed il pensiero va alle toccanti testimonianze registrate in Kossovo, in Bosnia e recentemente in Afghanistan. E mi piace sottolineare che questo ruolo di mediatrici giocano anche le donne in Parlamento, perché la legislazione in materia sociale è stata promossa e portata avanti, sin dai primi anni della Repubblica, soprattutto, se non esclusivamente, dalle donne costituenti in prima battuta fino alle parlamentari di oggi.

Esse hanno saputo superare le ideologie e gli schieramenti politici che le dividevano e, con spirito di servizio, hanno saputo lavorare alla stesura del testo di quelle leggi destinate a tutelare i bambini le donne, gli anziani, cioè i soggetti più deboli di quella parte di società che troppo spesso non è rappresentata e che, invece, grazie alla presenza delle donne, è riuscita ad esserlo.

E’ naturale, dunque, che ovunque si renda necessario un processo di negoziazione, cioè di superamento di due diversità che non si riconoscono, si incunei l’operato di una donna capace di mettere a nudo le diversità per ottenere il riconoscimento, premessa indispensabile per il superamento del conflitto.

M.P.: Nella sua quotidianità ha avuto modo di interrogarsi su aspetti contradditori o comunque di difficile valutazione in relazione alla integrazione possibile dello straniero in Italia?

M.C.: Come già detto in prima battuta alla solidarietà solennemente ed enfaticamente enunciata spesso non corrisponde una solidarietà sostanziale e praticata verso gli stranieri, bambini o adulti che siano, e non mi riferisco alla immigrazione clandestina, ma anche a quella riconosciuta e legalizzata con il sistema delle quote d’ingresso, che non prevede che la madre porti con sé il figlio o che una coppia, entrata regolarmente con permesso di lavoro per attività stagionale, possa poi stare insieme nello stesso squallido e fatiscente capannone, piuttosto che essere separata e collocata in campi diversi; è noto come il ricongiungimento familiare è possibile, ma non facile e avviene sempre dopo che un distacco doloroso si è consumato e le sofferenze di un bambino hanno prodotto in tutto il contesto familiare ferite non sempre rimarginabili. Spesso il giudice minorile registra in una visita in istituto che ad un bambino musulmano viene dato cibo che per il suo credo religioso non può mangiare e anzi lo si sollecita a gustare come è speciale il panino che contiene quel certo alimento, o lo si costringe a partecipare alle funzioni religiose e così via…; eppure a parole tutti riconoscono il principio del rispetto del proprio credo religioso. I bambini della famiglia immigrata sono, inconsapevolmente, dei piccoli-grandi mediatori culturali; essi sopportano il peso non indifferente della doppia cultura, delle loro contraddizioni, perché con il tempo le avvicinano attraverso quel naturale interscambio che avviene nel gruppoclasse e nel gruppo amicale.

E qui mi piace richiamare il ruolo della scuola che come agenzia seconda sola alla famiglia potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella accelerazione verso una cultura multietnica caratterizzata non dalla tolleranza, ma dal rispetto per la diversità e la scoperta della ricchezza che dall’incontro tra diverse culture può derivare.

Ma è parimenti giusto chiedersi quanto si faccia per attrezzare la scuola a questo compito e quanto i libri di testo aiutino in questa direzione.

Vorrei concludere affermando che c’è bisogno di un messaggio forte in grado di essere diffuso capillarmente e pervenire a tutti i cittadini sulla rispondenza agli interessi dell’intera collettività di un corretto inserimento dello straniero in Italia, e su come questo inserimento è possibile solo se si rinunzia a cancellarne la identità, se non si pretende di realizzare nell’immediato l’integrazione, cioè un’adesione ed un’omologazione al gruppo dominante, perché questo processo è lento e può avvenire solo dopo alcune generazioni.

L’immigrazione porta forze nuove, linfa vitale, e un Paese che registra natalità zero e la cui popolazione è sempre più fatta di anziani ha tutto da guadagnare ad aprirsi all’accoglienza di chi ha bisogno di allontanarsi con sofferenza dal suo Paese e vuole, rispettando le nostre leggi e le nostre tradizioni, vivere una vita diversa. E questo messaggio può venire da ogni parte ed essere veicolato con convinzione dai media, che pure in questo processo giocano un ruolo non indifferente, finora spesso ridotto a creare allarmismo.

*Presidente della Commissione per le adozioni internazionali.