Il fenomeno del bullismo

Da quando nel 1995 Ada Fonzi, in un articolo, denunciò la forte presenza in Italia del fenomeno del bullismo (chiamato nella letteratura internazionale “bulling”), la tematica ha avuto grande risonanza suscitando vivo interesse. In pochi anni è stata condotta una ricerca estesa a ben otto regioni che ha permesso di conoscere l’entità del fenomeno in modo più accurato oltre che progettare e perfezionare interventi a scopo preventivo o diretti ai soggetti implicati.

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I mass-media hanno dato più risalto a tale fenomeno portando alla luce fatti spesso sottovalutati o non presi in considerazione per omertà insegnanti e genitori hanno chiesto maggiori informazioni e strumenti per intervenire e sono state organizzate giornate di studio e corsi di aggiornamento riguardanti tale tematica.
Questa mobilitazione, oltre ad aver sensibilizzato la popolazione nei confronti del bullismo ha portato, in taluni casi, ad una reazione di allarmismo. Sono iniziati interventi a volte “selvaggi”, non legati alle esigenze reali ma decisi a priori dai responsabili e condotti senza una progettualità ed una metodologia. Tale modalità d’intervento è stata la reazione ad un atteggiamento caratterizzato spesso da indifferenza, posizioni non prese, soccorsi non dati e sottovalutazione del fenomeno. Se l’indifferenza ha permesso all’aggressore di perpetuare il suo comportamento che, anche se non condiviso, trovava nel silenzio un tacito assenso, un intervento non pianificato, casuale ed incostante può solo aumentare il disorientamento dei ragazzi coinvolti, di quelli spettatori e degli adulti, radicando nella loro mente il messaggio di impossibilità di poter cambiare le cose.
Che cosa dire allora agli adulti, genitori ed insegnanti, che si trovano di fronte alla problematica?

IL BULLISMO

Il problema delle prepotenze è sicuramente di origine antica, ma solo recentemente ha ricevuto una particolare attenzione diventando oggetto di studio. L’autore, in ambito internazionale, che più a lungo ha studiato il bullismo è stato Dan Olweus. Fin dalle sue prime ricerche, condotte negli anni settanta in Norvegia, lo studioso ha iniziato a delineare il fenomeno, giungendo all’attuale definizione:
“Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni. Un’azione viene definita offensiva quando una persona infligge intenzionalmente o arreca un danno o un disagio a un’altra” (Olweus, 1993).
Le azioni offensive possono essere perpetrate con contatto fisico, parole, o in altri modi come smorfie, gesti o l’esclusione dal gruppo. In tutti i casi vi è l’intenzione di arrecare danno all’altro attraverso ripetuti e frequenti comportamenti negativi. Tra le parti coinvolte nel fenomeno esiste uno squilibrio di tipo fisico o numerico, in modo tale che la vittima risulti essere sempre svantaggiata rispetto al suo carnefice. Non si dovrebbe parlare di bullismo quando due studenti, pressappoco con la stessa forza, litigano o discutono. Con questo termine ci si vuole riferire ad una realtà dinamica in cui persecutore e vittima sono entrambi coinvolti e non possono essere studiati separati tra loro.
Riassumendo, possono essere individuati quali elementi qualificanti l’azione di bullismo:

  • l’intenzionalità (intenzione di arrecare un danno all’altro);
  • persistenza (carattere di continuità nel tempo);
  • il disequilibrio (relazione di tipo asimmetrico tra i partner, la vittima è in una situazione di impotenza).

Verso la fine degli anni ottanta il fenomeno è stato preso in considerazione dall’opinione pubblica e dagli studiosi di diverse nazioni tra cui Giappone, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Australia, Canada, Stati Uniti e Italia. Dalle ricerche svolte si possono trarre alcune conclusioni generali: 1) fanno e subiscono prepotenze più i maschi che le femmine; 2) sono le femmine ad agire modalità di prevaricazione più sottili, “raffinate” ed indirette; 3) sono molte le prepotenze compiute dai ragazzi verso le ragazze; 4) il bullo tende ad essere più grande della vittima e 5) i modelli comportamentali della relazione bullo-vittima sono stabili nel tempo, evidenziando una sorta di presa di ruolo all’interno delle relazioni che permette all’individuo stesso il riconoscimento della propria identità.
Dai dati emersi dalla ricerca in Norvegia è possibile affermare che il 15% dei soggetti tra i 7 e i 16 anni è coinvolto nel bullismo, di questi il 9 % sono vittime ed il restante sono bulli (Olweus, 1993).
Dalle ricerche svolte in Italia appare un quadro molto più ampio ed articolato del fenomeno. La percentuale dei prepotenti e delle vittime risulta essere più elevata, vi è una significativa diminuzione delle percentuale nel passaggio dalla scuola elementare a quella media, come negli altri paesi, ma anche in questo secondo ordine di scuole le percentuali italiane risultano essere più elevate. Vi sono indici complessivi che vanno all’incirca dal 41% della scuola elementare al 26% della scuola media per ciò che riguarda gli alunni oggetto di prepotenze (Fonzi, 1997).
Confrontando i dati relativi all’Italia a quelli degli altri paesi si evidenzia come il fenomeno raggiunga un livello quasi doppio rispetto ai dati inglesi, che già risultano essere elevati rispetto alla Norvegia, all’Irlanda e al Giappone.

Come mai in Italia il fenomeno ha dimensioni così grandi? E’ forse indice di un paese più violento? A tali quesiti i vari ricercatori italiani non sono attualmente in grado di rispondere ma ventilano alcune ipotesi interessanti.
L’elevata incidenza del bullismo in Italia sembra essere un fatto reale in parte legato alle nostre caratteristiche culturali. Il maggior numero di prepotenze denunciate o riconosciute da chi le compie, potrebbe essere legato al fatto che nel nostro paese il conflitto è più tollerato perché conduce meno facilmente alla rottura dei rapporti tra le parti in causa. Sarebbe proprio la ridotta rilevanza data al dissidio a renderlo più facilmente denunciabile. I bambini italiani risultano essere più flessibili nel gestire la risoluzione dei conflitti, tollerando maggiormente le manchevolezze degli amici. Inoltre forme di violenza più ricorrenti, come quelle verbali (prendere in giro, ridere di qualcun altro, ecc.), sono considerate dai nostri ragazzi meno invasive e negative, facendo parte delle forme di umorismo molto diffuse in alcune regioni. Il numero delle aggressioni di tipo fisico diminuiscono in modo sensibile con il passaggio alla scuola media, mentre rimangono elevate quelle verbali ed aumentano quelle indirette (calunniare l’altro). Questo fa comprendere come al crescere dell’età non si ha l’estinzione del fenomeno, ma un suo cambiamento qualitativo: da forme di prevaricazione più visibili e plateali ad altre più sottili e raffinate.
La sensibile diminuzione del fenomeno nel passaggio dalla scuola elementare alla media è dovuta al fatto che il bullismo si presenta generalizzato durante la fanciullezza, ma perde questa caratteristica nel periodo della pubertà (l’evolversi di capacità social-cognitive e morali, diminuisce il numero di coloro che prevaricano e di quelli che si lasciano prevaricare) in cui i ruoli di bullo e di vittima si consolidano nel tempo.

BULLI E VITTIME

Gli studi condotti finora hanno permesso di identificare alcuni profili legati agli attori coinvolti nel bullismo. Il bullo si caratterizza per la sua aggressività, ostilità e irritabilità riversata non solo nei confronti dei coetanei ma anche degli adulti, sia genitori che insegnanti. L’aggressività viene utilizzata da questi soggetti per soddisfare il proprio bisogno di dominio sugli altri ed è aggravata da un atteggiamento positivo nei confronti della violenza nelle sue diverse forme. I bulli manifestano un’opinione positiva verso di sé, infatti, non percepiscono la connotazione negativa delle loro azioni. Inoltre appaiono indifferenti alle condizioni di sofferenza in cui pongono le loro vittime, manifestando scarsa empatia nei
loro confronti. Nella maggioranza dei casi i bulli, se maschi, sono fisicamente più forti della media in generale e delle loro vittime in particolare (Olweus, 1978). E’ opinione diffusa che le persone prepotenti siano ansiose ed insicure. Questa affermazione non ha trovato conferma nelle attuali ricerche dalle quali è emerso che il prevaricatore ha un basso livello di ansia e di insicurezza. I bulli, nelle relazioni con i coetanei, risultano avere una popolarità nella media, quest’ultima però tende a ridursi con l’età nel passaggio dalla scuola elementare alla media. Una possibile spiegazione di tale cambiamento può essere legata all’acquisizione delle capacità di valutare negativamente il comportamento prevaricatore. Ciò è stato riscontrato nello studio di Rigby e Slee (1993, in Fonzi, 1997) in cui ragazzi di scuola media, più di quelli delle elementari, dichiaravano la sgradevolezza di tali comportamenti. I dati italiani si discostano da quelli ottenuti da Olweus per quanto riguarda la “contenuta” popolarità dei prevaricatori; infatti è emerso che i bulli godono di una buona reputazione e di un ampio sostegno da parte degli altri, risultando essere più popolari rispetto alla media (Caprara, Pastorelli, Barbaranelli e De Leo, 1997). L’azione prevaricatrice di tali soggetti tende a perpetuarsi grazie all’ottenimento di “benefici concreti” quali sigarette, denaro ed altri oggetti ricevuti dalle stesse vittime oltre che di prestigio agli occhi dei complici spettatori. Il bullo ama circondarsi di due o tre coetanei che tendono a non prendere l’iniziativa, ma a sobillare e a sostenere la condotta del primo. Tale modalità di azione rientra nel profilo di quello che è stato definito bullo passivo. Riassumendo il bullo è caratterizzato da un modello reattivo aggressivo associato alla forza fisica (Olweus, 1993). La letteratura sull’argomento riporta un profilo abbastanza delineato riguardante la vittima. Olweus in particolare distingue due tipi di vittime: la vittima passiva o sottomessa e la vittima provocatrice. Nella vittima passiva sono presenti una forte ansia e sentimenti di insicurezza che portano, la vittima stessa se attaccata, a reazioni di pianto e di chiusura. Sono persone timide, sensibili e calme con una negativa opinione di sé e della propria situazione, tanto da considerarsi dei falliti con un alto rischio di depressione. Nella relazione con gli altri tendono ad isolarsi vivendo condizioni di solitudine e di abbandono e conseguente difficoltà ad interagire nel gruppo dei coetanei. Al contrario dei bulli, non sono aggressive, violente e fisicamente forti. L’insieme di queste caratteristiche personologiche se da un lato sono indice di insicurezza ed incapacità a reagire a possibili attacchi, polarizzando in tal modo l’attenzione dei bulli, dall’altra sono accresciute dalle continue provocazioni di questi ultimi. La vittima passiva è quindi caratterizzata da un modello reattivo ansioso o sottomesso associato, nel caso dei maschi, a forza fisica (Olweus, 1993). Nella vittima provocatrice vi è la combinazione del modello ansioso con quello aggressivo. Si tratta di soggetti con problemi di concentrazione, iperattività, spesso fautori di irritazioni e tensioni in chi li circonda, provocatori di azioni negative. Gli oltraggi ricevuti fanno insorgere nella vittima il desiderio di non andare più a scuola, fanno perdere sicurezza e stima in se stessi, influendo in questo modo anche sull’ apprendimento. Possono così subentrare meccanismi di difesa quali mal di stomaco, mal di testa, attacchi di panico ed altri sintomi da stress. Dagli studi condotti longitudinalmente sui bulli e sulle vittime si sono individuati scenari di sviluppo disadattivi. Nei primi, essendoci un’incapacità a rispettare le regole, non stupisce il loro incorrere più facilmente in comportamenti problematici quali l’abuso di alcool o di altre sostanze ed il compiere azioni criminali. Olweus ha appurato che il 60% degli studenti definiti bulli tra la IV elementare e la III media, a 24 anni erano stati in prigione almeno una volta ed il 35-40% almeno tre volte. Rispetto al gruppo di controllo, i bulli registrano un livello di criminalità quadruplicato. Lo status di adulto asociale o deviante deriva sicuramente dalla loro condotta impulsiva, irrequieta ed aggressiva, ma anche dalla reputazione agli occhi di chi li circonda, per cui non possono comportarsi in altro modo in quanto da loro ci si aspetta solo questo. Le vittime studiate durante la loro crescita hanno manifestato un maggior numero di episodi depressivi, una stima di sé più bassa rispetto al gruppo di controllo, un’elevata percentuale di abbandoni scolastici, problemi nel realizzarsi in ambito professionale ed un maggior numero di suicidi. Dalle informazioni emerse riguardanti il bullo e la vittima risulta che è necessario considerare tali individui a rischio psicosociale. Questa situazione di rischio è di tipo multifattoriale e probabilistico, dove l’accento è posto sui processi e sui meccanismi che conducono a sviluppare esiti non adattivi (Rutter, 1990). Recentemente, alcuni autori (Salmivalli, Lagerspetz, Bjorqkvist, Osterman e Kaukiainen, 1996, in Menesini, 1998a) hanno proposto di individuare, oltre al ruolo di bullo e di vittima, anche quello di aiutante del bullo, di sostenitore del bullo, di difensore della vittima e d’indifferente o outsider. Come sottolineato in precedenza , il ruolo di coloro che circondano il bullo è determinante nell’accrescere o diminuire il suo potere; infatti esso risulta rafforzato dall’attenzione dei sostenitori e non indebolito dalla mancanza di opposizione della maggioranza silenziosa. La collusione con il bullo o l’isolamento della vittima dovute ad “un altro” presente sulla scena di questo dramma permettono la cristallizzazione della relazione di prepotenza. E’ proprio di questo gran numero di soggetti, non coinvolto direttamente nel fenomeno, che si deve tenere conto per poter intervenire.

L’ADULTO

Oltre alla diade bullo-vittima esaminata poc’anzi e ai coetanei, che a vario titolo e grado possono essere coinvolti, è presente sulla scena un altro attore: l’adulto. Questo costituisce l’anello cruciale sia per individuare il fenomeno che per intervenire ed estinguerlo. Gli studi di Olweus hanno fatto emergere un quadro desolante riguardante l’attenzione data dagli adulti verso tali eventi. Gli insegnanti non sembrano mettere in atto strategie di intervento dirette a contrastare il bullismo, mentre i genitori, di entrambi gli attori considerati, non conoscono il problema e tanto meno ne parlano con i figli. Le prepotenze dei ragazzi sono frequentemente sottovalutate dagli adulti per vari motivi: 1) spesso si svolgono in luoghi nascosti dagli occhi degli insegnanti e nessuno, compresa la vittima stessa, denuncia l’accaduto; 2) gli adulti tendono a valutare gli episodi alla stregua di “ragazzate”, scherzi, giochi, sui quali è lecito soprassedere o non intromettersi; 3) il senso comune li considera “una scuola di vita” alla quale è sbagliato sottrarre il ragazzo. I bambini elaborano determinate aspettative in risposta a questi atteggiamenti degli adulti. Le vittime si attendono totale indifferenza nei loro confronti, mentre i bulli ritengono di meritare approvazioni e rinforzi (Fonzi, Ciucci, Berti e Brighi, 1996). In entrambi i casi nell’adulto non si percepisce la capacità, oltre che il dovere, di porre limiti all’azione negativa messa in atto. Proprio per questa scarsa fiducia nei confronti degli adulti, ben il 50% delle vittime non parla dell’accaduto all’insegnante o ai familiari; la percentuale aumenta con il passaggio alle scuole medie e soprattutto tra i maschi. I ragazzi spesso ritengono che denunciare i fatti all’adulto sia un’azione negativa, peggiore rispetto alla stessa azione prevaricatrice e giustamente punibile con l’isolamento da parte degli altri. Un fattore che sembra correlarsi stabilmente con il manifestarsi di comportamenti prepotenti è l’atmosfera familiare e lo stile educativo messo in atto dai genitori. Ancora una volta si sottolinea il ruolo dell’adulto. Un atteggiamento emotivo, di chi si occupa maggiormente del bambino nei primi anni di vita, caratterizzato da mancanza di calore e coinvolgimento affettivo aumenta il rischio di ostilità verso il mondo circostante durante la crescita. Una famiglia in cui regna la violenza e la sopraffazione, in cui il controllo è condotto utilizzando la forza fisica ed esplosioni emotive violente, propone al bambino schemi di comportamento disadattivo che ripresenterà negli ambienti in cui vive. Uno stile educativo permissivo e tollerante, incapace di porre limiti al comportamento aggressivo non permette al bambino di acquisire capacità di autocontrollo. Anche la mancanza di informazioni riguardanti le occupazioni del figlio durante la giornata non consente di intervenire nel momento in cui si presentino condotte inadeguate. Il genitore della vittima, invece, tende a impostare uno stile educativo improntato su rapporti molto forti con il figlio di tipo iperprotettivo. Così facendo non gli si permette un graduale distacco dalle figure genitoriali e la costruzione di un’identità indipendente.

CHE FARE?

La complessità del bullismo ci fa comprendere come
esso non sia ancorato solo a specifiche caratteristiche individuali, ma ad un sistema di relazioni che non sono solo lo sfondo ma possono amplificare o ridimensionare singole azioni. Per tale ragione gli interventi devono essere globali, di tipo sistematico ed ecologico. Solo così si potranno ottenere dei risultati consistenti e duraturi come quelli ottenuti in Scandinavia, in Inghilterra (ed in Italia, anche se riguardante un numero ridotto di scuole) in quanto mirati non solo al cambiamento dei singoli bambini ma anche a quello dell’intera comunità scolastica. Olweus definisce alcuni principi guida per programmare l’intervento che tengano conto dello sviluppo e dei cambiamenti comportamentali annessi. 1) Creare un ambiente scolastico (e se possibile un ambiente familiare) caratterizzato da affetto, da un coinvolgimento emotivo degli adulti e da interessi positivi. 2) Stabilire dei confini ben delineati rispetto a comportamenti inaccettabili, in modo tale che il messaggio comunicato univocamente sia: “Non accettiamo prepotenze e faremo il possibile per contrastarle”. 3) Nel caso in cui le regole siano violate, applicare fermamente le sanzioni punitive stabilite insieme e divulgate (sanzioni non improntate ad ostilità, né basate su coercizioni fisiche). 4) Pretendere dagli adulti (insegnanti genitori e personale non docente) un comportamento autorevole. Olweus (1993), Sharp e Smith (1994) hanno proposto dei progetti simili tra loro che partendo dal livello istituzionale si snodano fino ad interventi rivolti al singolo individuo. Nel primo livello, diretto all’intera scuola, si definisce una politica dell’istituto integrata antibullismo. Tale politica si basa su obiettivi decisi insieme che diano agli alunni e agli adulti la dimostrazione tangibile che si stia facendo qualcosa contro questi comportamenti. E’ necessario conoscere quale sia l’entità degli episodi di bullismo e monitorare la loro variazione nel tempo. Sempre a livello di scuola si devono prevedere incontri e dibattiti in cui genitori, insegnanti e personale non docente prendano coscienza del fenomeno e comprendano l’importanza dell’intervento e della costruzione di un buon clima scolastico. E’ importante supervisionare quegli spazi, come i luoghi dove i ragazzi trascorrono la ricreazione o la pausa pranzo, in cui si potrebbero verificare tali eventi. Potrebbe essere utile predisporre spazi più attrezzati per la ricreazione per evitare che la “noia” sia deterrente per alternative aggressive. Il secondo livello al quale intervenire è costituito dal gruppo-classe, al fine di incidere sulle dinamiche interne alla classe stessa e definire le regole antibullismo (per far ciò si possono utilizzare stimoli letterari, cinematografici o di role-playng). In classe si possono svolgere attività per migliorare la cooperazione ed il rapporto tra gli alunni e verso gli insegnanti. Il terzo ed ultimo livello è quello individuale in cui sono previsti interventi per cambiare il comportamento dei diretti interessati. Ciò avviene attraverso colloqui con i bulli e le vittime, colloqui con i loro genitori ed altre attività. Contemporaneamente se in un bambino sono presenti delle difficoltà nelle relazioni con i coetanei è necessario permettergli di acquisire tali abilità sociali. Recenti studi puntano l’attenzione sul favorire una cultura della solidarietà e dell’aiuto che parta direttamente dalla comunità dei pari. Questo è il “luogo” principale in cui si manifestano gli episodi e a cui i ragazzi fanno riferimento nel momento del bisogno e della difficoltà. Il programma con tale obiettivo è chiamato di supporto tra coetanei ed impiega quelle potenzialità degli stessi ragazzi di consolare, di aiutare e di supportare il compagno in difficoltà (Menesini, 1998b). Il rischio per l’adulto è quello di porre al centro del suo intervento le condotte aggressive in quanto più appariscenti e direttamente problematiche, trascurando quelle sofferenze nascoste dietro timidezze, insicurezza e silenzio. Nella modalità di procedere nei confronti del bullismo emerge, inoltre, l’esigenza di non “scaricare” su una singola figura (genitori, insegnanti o altri) il problema, ma di prendere posizione ciascuno secondo il proprio legame con il fenomeno. In questo modo si fa emergere un atteggiamento generale della società volto a rifiutare ogni forma di violenza ed oppressione. E’ questo l’unico modo per sviluppare, non isolate azioni d’intervento, ma una “mentalità antibullismo”. *psicologo

Bibliografia

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